-  Redazione P&D  -  17/04/2013

LA MANIFESTA OSCURITA' DEL FATTO NEL LICENZIAMENTO ECONOMICO - Natalino SAPONE

Uno dei nodi più difficili da districare nell"interpretazione della legge 92/2012 sta nella nozione di "manifesta insussistenza del fatto", di cui parla il comma 7 del novellato articolo 18 statuto dei lavoratori. Secondo questa norma il giudice può applicare la disciplina prevista dal quarto comma dell'articolo 18, ossia la tutela reintegratoria attenuata, nell'ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Appare subito evidente la manifesta oscurità della formula del testo normativo. Cosa significa manifesta insussistenza a proposito del fatto posto a base del licenziamento per motivo oggettivo? La difficoltà sorge in primo luogo dalla circostanza che i presupposti fattuali alla base del licenziamento per motivo oggettivo non appaiono sempre suscettibili di una graduazione; ad esempio la soppressione del posto di lavoro c'è o non c'è; è un dato al quale sembra consona una logica binaria (sì/no, sussistenza/insussistenza). La formula legislativa, di primo acchito, appare allora dotata di valenza più evocativa/allusiva che denotativa/concettuale. Ma questo è il testo e con questo occorre fare i conti.

Un primo interrogativo consiste nel capire se l'aggettivo "manifesta" attiene al piano sostanziale o a quello processual-probatorio. In altri termini, una possibile lettura potrebbe essere quella secondo cui la manifesta insussistenza costituisce l'oggetto di una valutazione condotta dal giudice all'esito del processo circa l"evidenza del risultato probatorio; per cui manifesta dovrebbe essere la prova dell'insussistenza del fatto posto a base del licenziamento. In questo modo la norma inciderebbe sull'applicazione dell'onere della prova, spostando a carico del lavoratore il rischio della mancanza di una prova chiara (nel senso di non lacunosa, non incerta, non contraddittoria) circa l"insussistenza del giustificato motivo oggettivo. L"onere probatorio del datore di lavoro, si potrebbe anche dire, si fermerebbe al raggiungimento di un principio di prova.

Questa lettura non appare persuasiva; in primo luogo il dato testuale allude a un dato sostanziale dal momento che si riferisce all'ipotesi in cui il giudice "accerti la manifesta insussistenza" del fatto. Quindi la manifesta insussistenza sarebbe oggetto di un accertamento giudiziale. Nel medesimo senso induce anche il periodo successivo della norma, che discorre di "altre ipotesi in cui accerta che non ricorrano gli estremi del predetto giustificato motivo". Anche qui vengono usate formule che appaiono più consone ad un dato sostanziale che non a un elemento processuale. Inoltre l'opzione processual/probatoria presenta il forte inconveniente di elevare l'incertezza dell"esito interpretativo e l"imprevedibilità delle decisioni. Appare dunque preferibile l'interpretazione secondo cui l'aggettivo "manifesta" si muove su un terreno sostanziale.

Si tratta allora di stabilire se la nozione in discorso sia riferibile ad un dato oggettivo/categoriale/astratto oppure a un dato soggettivo e concreto. Secondo la prima opzione, con tale formula il legislatore intenderebbe ampliare la nozione di giustificato motivo oggettivo, includendovi fattispecie che prima, secondo l'elaborazione giurisprudenziale, non vi rientravano.

Contro questa lettura si può però osservare che il legislatore non ha in alcun modo inciso sulla nozione di giustificato motivo oggettivo; e sarebbe uno strano modo di mutare la configurazione di tale fondamentale nozione con l'introduzione di un alquanto oscuro aggettivo. Tutte queste considerazioni spingono quindi verso una lettura della norma in questione in chiave soggettiva e concreta. Vale a dire la norma vuol mutare la prospettiva della valutazione giudiziale, nel senso che il giudice, al fine di concedere la tutela reintegratoria, deve porsi nell'ottica del datore di lavoro, adottando il suo punto di vista nella fattispecie concreta. Con questo si introduce, quale ulteriore presupposto della tutela reintegratoria, un elemento di carattere sanzionatorio; e cioè, affinché il giudice possa applicare la tutela reintegratoria, occorre che sia ravvisabile nella vicenda concreta una valutazione colpevolmente erronea da parte del datore di lavoro. Occorre quindi rinvenire un errore inescusabile da parte del datore di lavoro.

Ad una lettura in chiave sanzionatoria della norma in questione induce anche la considerazione che la formula normativa pare presupporre la regola della tutela indennitaria; la tutela indennitaria sembra la regola, derogabile nel caso in cui il giudice accerti, oltre all'insussistenza del fatto, anche il carattere manifesto di tale insussistenza. Il superamento della regola si spiega come sanzione per un errore rimproverabile del datore di lavoro. In quest"ottica il giudice deve effettuare una sorta di prognosi postuma, collocandosi nella posizione in cui si trovava il datore al momento dell'adozione del licenziamento; deve verificare quindi se alla luce dei dati conoscibili in quel momento, in quel contesto, vi erano elementi che rendevano oggettivamente (in)controvertibile la valutazione del datore di lavoro circa la sussistenza dei presupposti del motivo posto a base del licenziamento economico. Se l'errore di valutazione del datore di lavoro è stato inescusabile, l'insussistenza del fatto deve ritenersi manifesta. Ad esempio se il datore di lavoro ha erroneamente ravvisato la sussistenza di una crisi strutturale dell'azienda, quando invece si trattava di semplice difficoltà congiunturale, si tratterà di capire se, sulla base dei dati conoscitivi a disposizione del datore di lavoro al momento dell'adozione del licenziamento, vi erano comunque elementi oggettivi che giustificavano una prognosi di crisi strutturale.

Una volta accertata l"inescusabilità dell'errore del datore di lavoro, il giudice "può" applicare la tutela reintegratoria attenuata. E qui si presenta l'altro nodo intricato. Che significato dare a quel verbo ("può")? Pare implausibile una lettura che conferisca al giudice un potere puramente equitativo, vale dire privo di qualsivoglia parametro o criterio di riferimento. Una strada praticabile allora potrebbe essere quella di agganciare questo potere a quella che può considerarsi la norma generale in tema di limiti alla tutela in forma specifica, ossia l'articolo 2058 codice civile; infatti la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato nel posto di lavoro altro non è che una specie della tutela in forma specifica, le cui coordinate generali sono delineate dall'articolo 2058 c.c. Tale norma prevede che la reintegrazione in forma specifica può essere negata dal giudice in caso di eccessiva onerosità per il debitore ("Tuttavia il giudice può disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente, se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore").

Il raccordo dell'articolo 2058 comma con il comma 7 dell'articolo 18 Statuto dei lavoratori potrebbe quindi portare alla regola secondo cui il giudice, accertata la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento economico, può negare la reintegrazione, disponendo che il risarcimento avvenga solo per equivalente, se nel caso concreto la reintegrazione in forma specifica questa appaia eccessivamente onerosa per il datore. Oppure, in una prospettiva più fedele al dato testuale (che sembra fissare la regola della tutela indennitaria), il giudice concede la tutela reintegratoria quando, oltre alla manifesta insussistenza del fatto, appuri che la reintegrazione non sia eccessivamente onerosa per il datore di lavoro. Insomma in questa impostazione vi è un ulteriore requisito negativo per la concedibilità della tutela reintegratoria: la non eccessiva onerosità, nel caso concreto, della reintegrazione per il debitore/datore di lavoro.

È poi plausibile in ultima analisi ritenere che il requisito dell'eccessiva onerosità previsto dall'articolo 2058 c.c. vada inteso in senso ampio, proprio in quanto l'articolo 18 sembra porre la manifesta insussistenza come presupposto per derogare alla regola della normale tutela indennitaria, laddove l'articolo 2058 fissa invece come regola la tutela in forma specifica. Il raccordo delle due norme potrebbe quindi condurre verso una larga configurazione della nozione di eccessiva onerosità, fino in sostanza a delinearla come risultante di un bilanciamento di interessi, ovviamente tra l"interesse del lavoratore e quello del datore. Si pensi al caso in cui la difficoltà dell'azienda, che al momento del licenziamento non poteva ancora ritenersi strutturale, si sia successivamente aggravata fino ad assumere al momento della decisione i tratti di una crisi strutturale. Oppure si pensi all'ipotesi in cui, prima della decisione, il lavoratore abbia trovato altra occupazione equivalente




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