-  Valeria Cianciolo  -  27/06/2016

La natura ha smesso di essere la custode dei limiti biologici – di Valeria Cianciolo

 Bella e articolata la sentenza del Tribunale di Pisa, 19.06.2015,  n. 687 che riassume le posizioni espresse dalla giurisprudenza nazionale e comunitaria in tema di maternità surrogata.

Gli imputati si sarebbero resi responsabili dell'alterazione dello stato civile relativo a due neonati che, mediante falsa dichiarazione, erano stati fatti risultare figli legittimi e naturali della coppia mentre, in realtà, il concepimento e la gestazione erano avvenuti in Ucraina mediante il ricorso alla cd. surrogazione di maternità.

Il capo della Cancelleria consolare dell"Ambasciata aveva, però con apposita nota informativa, comunicato alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Pisa, competente per territorio, alcuni elementi che avevano fatto ipotizzare il ricorso della coppia alla pratica, legalmente praticata in Ucraina, della surrogazione di maternità.

La normativa vigente in tema di ordinamento dello stato civile - in particolare l'art. 15 del D.P.R. n. 396/2000 recante Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile - prevede che le dichiarazioni di nascita relative a cittadini italiani nati all'estero debbano essere compiute davanti alle autorità locali secondo le forme e le prescrizioni vigenti nel Paese ospitante. Copia dell'atto, poi, deve essere inviata all'autorità consolare e diplomatica perché provveda alla trasmissione del documento all'ufficiale di stato civile del comune di residenza che ne cura l'annotazione nei registri del nostro Paese.

Pertanto, in una vicenda come quella in esame l'atto di nascita non viene ad essere stilato secondo le norme italiane, ma secondo la lex loci con l'inevitabile conseguenza che gli imputati avevano il dovere in tale sede di attenersi alle prescrizioni della legge ucraina.

Non essendovi elementi sulla base dei quali poter affermare, oltre ogni ragionevole dubbio, che l'atto di nascita non sia conforme alle legge ucraina, ad avviso del Tribunale, si deve necessariamente concludere che il documento sia stato formato nel rispetto della legge del luogo dove il bambino/i è nato e all'esito di una procreazione medicalmente assistita validamente praticata all'estero.

Il giudice pisano rileva che, in relazione allo specifico tema della maternità surrogata, sono di recente intervenute due pronunce della Corte europea dei diritti dell'uomo (Mennesson c. Francia Labassee c. Francia) nelle quali la Corte ha affermato la violazione dell'art. 8 della Convenzione (diritto al rispetto della vita privata e familiare) in un caso in cui le autorità nazionali hanno rifiutato di riconoscere valore legale alla relazione tra un padre e i suoi figli biologici nati all'estero facendo ricorso a surrogazione di maternità.

Conclude il Tribunale pisano che nel caso di specie si tratterebbe di un falso innocuo.

E come dottrina autorevole insegna, è giuridicamente irrilevante il falso che non può ledere e neppure mettere in pericolo gli interessi specifici che trovano una garanzia nella genuinità e veridicità dei mezzi probatori.

La sentenza si allinea all"orientamento maggioritario della giuriosprudenza di merito.

Ma merita una riflessione.

Il problema della maternità surrogata trova sempre più spazio nelle aule dei Tribunali.

A questo proposito, conviene precisare che la lettera della legge n. 40/2004 non costituisce un ostacolo all'accoglimento della soluzione ermeneutica proposta dal Tribunale di Pisa nella sentenza in commento. La legge n. 40, infatti, vieta il ricorso a qualsiasi forma di surrogazione di maternità e sanziona penalmente chi «realizza, organizza o pubblicizza» tale tecnica di procreazione medicalmente assistita (art. 12 co. 6); ma il suo ambito di applicazione è circoscritto alle sole condotte commesse in Italia. Manca, invece, nell'ordinamento una disciplina specifica che regoli il caso di chi decida di recarsi all'estero per concepire un figlio ricorrendo alla maternità surrogata. Tale vuoto normativo, pertanto, può essere legittimamente colmato in via ermeneutica.

La scelta di introdurre il divieto, allora, non trova aggancio in Costituzione, ma è il risultato di una valutazione di natura essenzialmente morale in merito alla superiorità/preferibilità di quel modello di famiglia. Ma, come ricorda la Corte EDU, considerazioni di ordine morale non sono sufficienti a giustificare il divieto. È per questo motivo che il legislatore non avrebbe dovuto stabilire sanzioni (penali o amministrative, poco conta)41 allo scopo di difendere precetti morali.

La scelta procreativa non dipende dalle convinzioni morali e religiose del legislatore ma da quelle dei genitori. Spetta a loro decidere in forza del principio di autodeterminazione e della libertà di coscienza.

Il legislatore (o un giudice, fa lo stesso) non può imporre il proprio codice morale anche se è condiviso dalla maggioranza dei cittadini.

Di fronte a questioni eticamente controverse, il legislatore può scegliere due strade alternative: lasciare che ciascuno sia libero di scegliere i propri valori e fini, e di agire conseguentemente, a condizione che non siano sacrificati interessi di altre persone oppure  sostenere che il diritto abbia lo scopo di conservare la moralità del gruppo sociale adeguandosi alle visioni etico/religiose prevalenti.

Al momento assistiamo a dei provvedimenti che suscitano frequenti controversie, non realizzano un adeguato bilanciamento fra i vari interessi in ballo e si pongono in contrasto con alcuni principi supremi dell"ordinamento: laicità, pluralismo, eguaglianza.




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