Deboli, svantaggiati  -  Redazione P&D  -  27/01/2022

La richiesta di referendum abrogativo denominato ‘per l’eutanasia legale’, la sentenza della Corte costituzionale n.242/2019 e la legge 219/2017 – S.Trentanovi - G. B. Gottardi

 – Ipotesi di interventi normativi e limiti. 

Con questa nota, redatta a quattro mani, gli autori proseguono gli studi sulla legge 219/2017 (già pubblicati in 5 numeri di Persona e Danno dal 2019 al 2021, l’ultimo dei quali “Il consenso informato- Commento alla Legge 219/17. Sofferenza e cura, dolore e terapie (art.2) - le DAT (art.4)”parte 5, consultabile in https://www.personaedanno.it/articolo/il-consenso-informato-commento-alla-legge-219-2017-parte- quinta-s-trentanovi-g-bgottardi) e sulla sentenza della Corte Costituzionale 242/2019 (commento quest’ultimo già editato il 6/2/2020 da Persona e Danno, pubblicato il 24/2/2021 dal Servizio Studi della Corte Costituzionale nella raccolta ‘Aiuto al suicidio e profili giuridici di fine vita dopo la sentenza della Corte Costituzionale 242/2019’). La nota vuol riassumere la attuali problematiche sul fine vita alla luce dei principi costituzionali, anche in relazione alla proposta referendaria intitolata ‘per l’eutanasia legale’, parzialmente abrogativa dell’art. 579 CP (omicidio del consenziente). Essa si conclude con una sintetica valutazione dell’ammissibilità costituzionale di futuri interventi normativi nella delicatissima materia. Gli autori (Gottardi, attualmente Presidente del Comitato etico per la pratica clinica dell’Aulss 7 del Veneto e Trentanovi, membro dello stesso) danno atto che gli approfondimenti sulle problematiche trattate sono per una parte significativa frutto di analisi svolte all’interno del Comitato Etico, ma che le valutazioni espresse sono riconducibili esclusivamente a riflessioni personali degli autori stessi che non impegnano in alcun modo lo stesso Comitato. 

Capitolo 1- La richiesta referendaria abrogativa dell’art.579 CP - L’affievolimento dei diritti e dei doveri 

fondamentali degli artt. 2 e 3 della Costituzione -------------------------------------------------------- 

Capitolo 2- Terminologie e problematiche bioetiche--------------------------------------------------- 

Capitolo 3- Le conseguenze del referendum abrogativo dell’art.580 CP--------------------------- 

Capitolo 4- Un’interpretazione errata degli effetti del referendum, vietata dalla Costituzione 

Capitolo 5- Il quesito referendario ed il contrasto con i principi della Costituzione ------------ 

Capitolo 6- La sentenza della Corte costituzionale 242/2019 sull’art.580 CP-Limiti e condizioni

Capitolo 7-Il parere del Comitato etico competente

Capitolo 8- Le ragioni costituzionali dei limiti e delle condizioni della non punibilità dell’art.580 CP 

Capitolo 9- Il riconoscimento della dignità della persona nella fase finale della vita: principi costituzionali, art.2 legge 219/2017 e legge 38/2010

Capitolo 10- Prospettive normative. Profili di incostituzionalità della proposta Trizzino-Bazoli -----

Capitolo 1- La richiesta referendaria e l’affievolimento dei principi fondamentali degli artt.2 e 3 della Costituzione 

Il Comitato per ‘l’eutanasia legale’, ha presentato, con richiesta pubblicata su GU 21/4/2021, proposta di referendum abrogativo parziale dell’art. 579 CP ( omicidio del consenziente ), intitolandola ‘per l’eutanasia legale’; con essa si chiede di cancellare l’ipotesi-base del reato ( l’omicidio del consenziente in quanto tale ), mantenendo la rilevanza penale del fatto – pena dell’omicidio- per le sole ipotesi aggravate della norma ( cioè quando la vittima è persona minore di anni 18 – caso n.1 - o inferma di mente o in condizioni di infermità o deficienza psichica – caso n.2-; oppure quando si tratti di persona il cui consenso sia stato estorto o carpito con violenza, minaccia , suggestione o inganno - caso n. 3 -). 

Per comodità di lettura si riporta in corsivo il testo dell’art.579 CP (di cui rimarrebbe la rubrica generale “omicidio del consenziente”, comprensiva di tutti i casi che possono rientrare, appunto, nell’ampio fatto o fattispecie di omicidio del consenziente, non previsto come tale da nessun’altra disposizione) come risulterebbe se il referendum venisse approvato, mettendo tra parentesi e sovrapponendo una riga alla parte di disposizione che il quesito abrogativo vuol cancellare: 

‘ Chiunque cagiona la morte di un uomo col consenso di lui è punito con (la reclusione da 6 a 15 anni. Non si applicano le aggravanti indicate nell’art. 61) le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso: 

  • 1)  contro una persona minore di anni 18;
  • 2)  contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti;
  • 3)  contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno.

In sostanza se il quesito abrogativo, per il quale sono già state raccolte più di un milione di firme convalidate dalla Cassazione, venisse ammesso dalla Corte Costituzionale e poi approvato in sede referendaria, non si verrebbe affatto a legalizzare, o comunque a considerare penalmente irrilevante, ‘soltanto’ (come da intenzione dichiarata dai proponenti ed ingannevole intitolazione del referendum) ogni forma di eutanasia attiva e passiva, ma si legalizzerebbe addirittura ogni omicidio volontario, per qualsiasi causa, purché ‘consentito’ in qualsiasi modo dalla stessa vittima. Ciò senza la previsione di alcuna causa, motivo o ragione di sofferenza ‘legittimante’ e senza necessità di nessun accertamento, preventivo o successivo all’evento- morte, nemmeno sulle motivazioni e sulle caratteristiche del consenso; e, naturalmente, senza la previsione di alcun preventivo percorso di ‘cura’ né in qualsiasi modo dissuasivo. Venuto meno il reato-base, non potrebbe esser perseguito penalmente nemmeno l’omicidio del consenziente realizzato per motivi abietti o futili ( art.61 n.1 CP) oppure adoperando sevizie e/o agendo con particolare crudeltà ( art.61 n.4 CP) o provocando alla vittima gravi dolori e sofferenze ed offendendone la stessa dignità. 

Capitolo 2- Terminologie e problematiche bioetiche 

Il termine eutanasia deriva dal greco e letteralmente significa “buona morte”. 

Il significato condiviso del termine, medicalmente accettato, indica la condotta di chi procuri intenzionalmente la morte di una persona che, liberamente e consapevolmente, chiede di esser uccisa per sottrarsi a gravi e prolungate sofferenze provocatele da una patologia irreversibile ed inguaribile. Presuppone (‘eu’+thanatos’) che l’azione che causa la morte, tendenzialmente rapida, non causi a sua volta dolori o sofferenze alla persona malata, non potendosi altrimenti neanche parlare di ‘eutanasia’. 

La condotta eutanasica può essere definita attiva, se realizzata mediante un comportamento ‘commissivo’ (ad esempio, ma non necessariamente, attraverso la somministrazione di farmaci o veleni) intenzionalmente diretto a provocare la morte del malato. Può esser definita passiva quando è realizzata attraverso un comportamento omissivo intenzionalmente diretto a causare la morte della persona sofferente omettendo, senza giustificazione, di utilizzare i trattamenti terapeutici appropriati rispetto alle condizioni del paziente. 

Devono esser escluse dal concetto di eutanasia tutte le condotte intenzionalmente dirette non già a provocare la morte del malato, ma a realizzare una ‘appropriata terapia del dolore’ per il paziente, che, come prevede il primo comma dell’art.2 della legge 219/2017, deve esser ‘sempre garantita’. 

Nella garanzia di un’appropriata terapia del dolore’ rientra, ‘in caso di prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte’ con ‘sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari’, il ricorso alla ‘sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore’ (art.2 comma 2 della l.219/2017). In nessun caso, infatti, il ricorso alla terapia del dolore è intenzionalmente diretto a causare la morte del paziente, ma solo a lenirne (o ridurne grandemente) il dolore-sofferenza; anche se in alcuni casi (in particolare quando venga utilizzata la sedazione palliativa profonda continua) può indirettamente provocare la riduzione del restante tempo di vita del malato e quindi l’accelerazione della sua morte. 

Suicidio assistito. Spunti per una riflessione bioetica. (*) 

Chi governa la biomedicina che sta rivoluzionando il mondo? “Ci si aspetterebbe che fossero i medici a capire dove sta portando l’onda (della biomedicina, N.d.R.) che essi hanno creato”. È ad essa che dobbiamo la novità di situazioni “oltre il limite” che spesso minano le certezze decisorie dei curanti. Questioni inedite si pongono, nelle società multiculturali, creando “un nuovo spazio, percepito come necessario dai più, per l’inquadramento normativo delle pratiche mediche”; una sorta di “stampella” per decisioni critiche, non più recintate dai limiti autoimposti, sin dai tempi antichi, dai medici stessi, nei loro codici valoriali di pratica. Un esempio per tutti, la legge n. 219/17 sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento. 

Ciò non frena, tuttavia, la necessità di riflettere se sia questa, quella normativa, l’unica strada per sciogliere nodi etici profondi. È il caso, confinante con il primo citato, che si ascrive al rispetto dell’autonomia della persona, quando si affacciano richieste disperate, ben “oltre il limite”, che giungono ai curanti da persone sofferenti in modo umanamente “intollerabile”, attraverso la loro drammatica richiesta di essere aiutati a porre fine alla propria esistenza. 

Qualsiasi discussione sul tema dell’aiuto al suicidio deve fare riferimento ad una premessa “quadro” circa la “pertinenza al campo dell’etica di tale dibattito”. 

Lo sviluppo tecnologico ha profondamente segnato la sopravvivenza degli esseri umani, fino a rendere la medicina capace di influenzare, anche socialmente, il perimetro del fine vita. La conclusione inevitabile circa la “non naturalezza” del vissuto dell’evento morte appare quindi legata principalmente alla possibilità di prendere decisioni a contenuto scientifico. Da ciò consegue la necessità di disporre di riflessioni etiche a supporto delle scelte, assistenziali, da farsi in uno scenario di fondo, orientato, oggi, a garantire, il più possibile, dignità al termine biologico della vita. Le scelte più ardue appaiono essere quelle da operare allorquando l’uomo viene mantenuto in vita grazie, per lo più, a supporti tecnologici, in situazioni di grandissima sofferenza. 

Le richieste di assistenza ed accompagnamento sono assolutamente individuali, così come sono non categorizzabili le condizioni di contesto che realizzano l’esperienza di cura. Tuttavia, rifacendosi ad uno scenario generale, lungo la strada esperienziale dell’intima sofferenza, il singolo può giungere, consapevolmente, a chiedere dapprima la sospensione dei sostegni vitali, sino, al termine di ogni speranza, di essere aiutato a porre fine alla propria esistenza. 

Nel dibattito etico che va, dunque, a legittimarsi, in tema di assistenza al morente, giusta enfasi va mantenuta, preliminarmente, nei riguardi della tematica di astensione da trattamenti di sostegno vitale. La logica riflessiva, tuttavia, circa la loro natura di pratica appropriata o inappropriata e, quindi, sproporzionata, può aiutare a superare le divergenze etiche fra diverse posizioni che appaiono ancora oggi divergenti, mentre il piano giuridico, al contrario, ne ha determinato con sicurezza la divisione certa dalla pratica eutanasica. 

Ben più complesso il dibattito in tema di suicidio assistito, soprattutto se si cerca di trovare un bilanciamento fra diritti, come nel caso del “riconoscimento del valore da attribuire all’espressione di volontà della persona”, espressione di autonomia del capace, e la salvaguardia della vita umana. 

L’analisi approfondita delle riflessioni bioetiche sul tema presentate nel rapporto del 18 luglio 2019 a cura del Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB), va ritenuta illuminante ed esaustiva nella descrizione che fa delle diverse posizioni espresse dagli esperti presenti al suo interno. Essa appare densa di sfaccettature sui concetti elaborati nel merito. Ad essa si rimanda, in particolare, per la presentazione delle diverse argomentazioni morali (nella presentazione ne vengono delineate tre divergenti, la prima centrata sulla difesa dell’essenzialità del principio di difesa della vita – non bilanciabile con altri – la seconda, che accetta il bilanciamento tra rispetto della vita e autodeterminazione, contestualizzabile secondo rigorosi parametri di condizioni e procedure, la terza, che pone l’enfasi sui rischi del pendio scivoloso che una realizzazione normativa percorrerebbe nella nostra realtà), istanze sociali ed inquadramento etico giuridico. 

Qui ci limitiamo a sottolineare l’irricevibilità, sul piano etico medico, di qualsiasi coinvolgimento attivo nell’aiuto al suicidio, “medicalizzato” o meno, in qualsivoglia determinazione di contesto cui si faccia riferimento, di medici che rispondono al loro codice deontologico. L’astensione da tale partecipazione, ispirandosi la prassi medica a principi di beneficenza e tutt’al più non maleficenza, non può essere, nemmeno qui, ritenuta, riduttivamente, baluardo difensivo di quel paternalismo medico, posto sotto costante critica, in un contraltare con il rispetto dell’autonomia espressa dalla persona malata e/o sofferente, difesa sistematicamente dalla pratica del consenso informato. I “giochi” sono molto più complessi e non basta l’auspicio di costruire un efficace incontro fra le diverse autonomie, quella del tecnico, il medico, che propone e quella della persona, che, nel consapevole e libero consenso alla proposta, contribuisce alla realizzazione di una relazione di cura; spirito, questo, che illumina la legge 219, già menzionata. 

Forse l’aiuto a dipanare una situazione così complessa non può arrivare nemmeno dal contributo di una definizione di dettaglio, ancorché ineccepibile e condiviso, di presenza simultanea di condizioni contestuali che traccino i confini di liceità, come si scorge in alcune interpretazioni biogiuridiche. Ma, nemmeno, “la più ampia partecipazione dei cittadini alla discussione etica e giuridica”, come auspicata dal CNB, sembra poter aspirare a strumento definitorio delle condizioni, socialmente accettabili, di un buon fine vita, viatico alla definizione “pacificata” di accettazione della richiesta drammatica cui si fa riferimento. 

Infine, la salvaguardia della dignità umana, minacciata da sofferenze intrattabili, ci deve interrogare tutti, se la definizione di appropriatezza dell’impianto organizzativo, degli strumenti a disposizione delle équipe impegnate, dei livelli di formazione degli operatori, della correttezza di risposta ai bisogni presentati, della loro “giusta” ed equilibrata distribuzione territoriale, che sono appannaggio del sistema delle cure palliative erogabili ed erogate a quanti si trovano attanagliati dalla sofferenza, siano condizioni oggi equamente garantite a tutti. 

Ma così, lasciatecelo dire, non si farà che affidarsi, ancora una volta, alla mano, beneficente, proprio di quei professionisti cui si vorrebbe ridefinire il perimetro “paternalistico”, oggi ritenuto sovradimensionato dallo strapotere della tecnologia, inducendolo, questa volta, ad un ruolo umanizzato, di testimone attivo dell’accompagnamento finale: il medico e l’équipe di cure palliative. 

All’interno di un episodio di cura ove si instauri una relazione medico – paziente, in ogni caso il medico è ‘tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente’, maggiorenne e pienamente in grado di autodeterminarsi, che rinunci o rifiuti trattamenti sanitari, anche quando siano necessari alla sopravvivenza, o ne chieda l’interruzione ( art.1 comma 5 della legge 219/2017); tale ‘rispetto’ impedisce fisiologicamente (salvo casi eccezionali previsti dalla legge a ‘tutela della salute come ‘interesse della collettività’- ad esempio, in certi contesti, l’obbligo vaccinale-) l’esecuzione di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente ‘capace di intendere e di volere’ ( art.32 Cost.). Questo atteggiamento non integra in alcun modo una condotta eutanasica, perché non può ritenersi tale il rispetto della scelta consapevole del paziente ‘competente’ (e cioè dotato di piena autonomia valutativa e decisionale) di consentire, ma anche di rifiutare, l’indicazione, proveniente dal medico, del trattamento sanitario più appropriato. Per questo motivo, strettamente connesso all’autodeterminazione/autonomia decisionale del paziente, il medico è “tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente” in grado di comprendere e volere di rifiutare (-o interrompere-) il trattamento sanitario anche quando consista in un trattamento necessario alla propria sopravvivenza’; ma la delicatezza della problematica e la tendenziale irreversibilità/irreparabilità pratica della scelta negativa impone, secondo l’espressa previsione dell’art.1 comma 5 della l. 219/2017, che siano prospettate al paziente le più appropriate ‘alternative’ e sia stata promossa ‘ogni azione di sostegno’ per permettere al malato ‘di modificare la propria volontà’ (art.1,comma 5 della l.219/2017). Peraltro, il singolo medico può, in ogni caso legittimamente, partecipare personalmente all’eventuale interruzione del trattamento sanitario oppure astenersi da tale diretta partecipazione, ritenendola in contrasto con ‘norme di legge o deontologia professionale o buone pratiche clinico- assistenziali’ (si vedano le due previsioni alternative del sesto comma dello stesso articolo). 

(*) La “scheda bioetica” è già stata ampiamente trattata in “Il consenso informato- Commento alla Legge 219/17. Sofferenza e cura, dolore e terapie (art.2) - le DAT (art.4)” parte 5, sitografia: https://www.personaedanno.it/articolo/il-consenso-informato-commento- alla-legge-219-2017-parte-quinta-s-trentanovi-g-bgottardi). 

Letture di riferimento: 

  1. Presidenza del Consiglio dei ministri. Comitato Nazionale per la Bioetica. “Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito”. 18 luglio 2019.
  2. “Questioni di vita. Un’introduzione alla bioetica”. A cura di C. Viafora. F. Angeli ed. Milano 2019. pp. 319-344.

È in ogni caso escluso che possa qualificarsi come eutanasico, nelle situazioni di ‘pazienti con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte’, il comportamento del medico che si astenga ‘da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati’ (comma 2 dell’art.2 della legge 219/2017). Questi trattamenti sono espressamente vietati dalla legge, integrando condotte non solo superflue, ma ‘distanasiche’ (il cosiddetto ‘accanimento terapeutico’) e cioè che aggravano inutilmente la sofferenza del malato prolungandola artificialmente, in contrasto, tra l’altro, con il rispetto della stessa dignità del malato (art.2,3, 32 Cost. e commi 1 dell’art.1 e dell’art.2 della l.219/2017: obbligo di alleviare le sofferenze-). 

Con le parole ‘suicidio assistito’ si qualificano le condotte convergenti di chi (per qualsiasi causa, tra cui la sofferenza personale causata dalla malattia, ma anche per ogni altro motivo ipotizzabile) si suicida, eseguendo ‘personalmente’ l’atto estremo e finale che provoca la sua morte e quelle del terzo che ‘si inserisce’ nel ‘percorso’ autodistruttivo agevolandone in qualsiasi modo l’esecuzione. 

Costituisce elemento essenziale per qualificare la morte della persona come suicidio assistito (e, in conseguenza, per poter configurare il reato di assistenza-agevolazione al suicidio) il fatto che l’ultimo e decisivo atto che causa la morte sia comunque realizzato dallo stesso suicida; è a tale condotta che si unisce il comportamento del terzo che ‘in qualsiasi modo’ ne agevola l’esecuzione, di fatto rendendola possibile. Questo è l’elemento fondamentale distintivo del reato di agevolazione al suicidio, sanzionato dall’art. 580 CP, rispetto al fatto-reato di omicidio del consenziente, previsto dall’art.579 CP (per cui è stato promosso il referendum abrogativo). 

L’agevolazione al suicidio è, limitatamente all’intervento del terzo, punita dall’art.580 CP con la stessa pena prevista da questo stesso articolo per le diverse condotte di ‘istigazione o aiuto al suicidio’, e, in particolare, per quelle di chi ‘determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio’. 

Solo in relazione al comportamento di chi ‘agevola in qualsiasi modo l’esecuzione’ del suicidio la Corte costituzionale è intervenuta dichiarando l’incostituzionalità della sanzione penale nei confronti di chi agevoli l’esecuzione del suicidio di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale ed affetta da patologia irreversibile che ne provochi intollerabili sofferenze. 

Con la sentenza 242/2019 la Corte costituzionale si è limitata a creare una ristretta causa di non punibilità unicamente all’interno del reato di aiuto al suicidio (art. 580 CP), di cui è stata pienamente confermata, per il resto, la piena legittimità costituzionale e l’integrale vigenza. Essa ha escluso in ogni caso l’esistenza di un ‘diritto ad ottenere un aiuto al suicidio’ anche quando si rientri nel caso di condotta (comunque oggettivamente caratterizzata da finalità eutanasica) non punibile perché ‘giustificata’ dalla eccezionalità della situazione; sicché il comportamento di aiuto al suicidio resta sempre reato anche quando la singola condotta di chi ha agevolato il suicidio nella sua esecuzione (in presenza delle eccezionali condizioni e degli specifici requisiti richiesti dalla Corte ed accertati dalle strutture del servizio sanitario nazionale), potrebbe esser giudicata, a seguito del procedimento penale relativo, non punibile. 

In questo contesto l’inesistenza di qualsiasi ‘diritto soggettivo’ ad ottenere un aiuto al suicidio è espressamente confermata dal paragrafo 6 della motivazione della sentenza stessa, che specifica : “Quanto al tema dell’obiezione di coscienza ( la cui previsione può esser connessa soltanto all’ esistenza di un diritto soggettivo ad ottenere da altri l’aiuto al suicidio - nota dei redattori- ) del personale sanitario, vale osservare che la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita ad escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato”. 

Nel caso della proposta referendaria relativa all’abrogazione pressoché totale (eccetto i casi particolari sopra ricordati) del reato di omicidio del consenziente ( art 579 CP), questo reato viene invece radicalmente cancellato a prescindere da ogni limite o condizione o contesto di sofferenza e/o da ogni intendimento eutanasico; pertanto non sarebbe necessario, per ‘legittimare’ l’omicidio del consenziente, accertare, prima e/o dopo la morte della vittima, il rispetto di nessun presupposto o di qualsiasi causa, motivo, limite , condizione o modalità della condotta omicida. 

Capitolo 3- Le conseguenze del referendum abrogativo 

Si attuerebbe così , in violazione dei principi fondamentali degli artt. 2 (che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, tra i quali, primo e presupposto, il diritto alla vita e ‘richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà’ per la loro concreta attuazione), 3 (che stabilisce il principio di pari dignità e di eguaglianza formale e sostanziale tra i cittadini e in conseguenza dichiara ‘compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana’) e 32 della Costituzione ( che ‘tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività’) , l’opposto principio di totale ed incondizionata disponibilità della vita umana . 

Naturalmente l’abnorme estensione dell’ipotizzata abrogazione della norma penale travolgerebbe anche qualsiasi limite ad ogni forma di eutanasia. Non avrebbe perciò nessuna rilevanza il motivo del consenso, né la superabilità del ‘disagio esistenziale’ attraverso una qualsiasi forma di ‘compassione’ o ‘immedesimazione e sostegno’; e neanche la prospettazione di alternative utili a superarlo. Il comportamento del terzo, che causasse direttamente e volontariamente la morte di un essere umano che per qualsiasi causa avesse espresso il suo consenso, resterebbe comunque oggettivamente lecito e penalmente irrilevante e perciò non potrebbe in alcun caso esser sottoposto a giudizio e sanzione penale. 

In quest’ambito, la depenalizzazione proposta potrebbe per esempio riguardare un omicidio in cui consenso sia dato in una situazione di depressione o di scoraggiamento/ sconforto, anche momentaneo (condizioni certamente non qualificabili come infermità di mente o deficienza psichica per altra infermità –ipotesi n.2 dell’art.579 CP-), di noia o fastidio di vivere seppur occasionale, di disagio economico, di sensazione di inutilità o di peso per gli altri, di pessimismo anche passeggero, di malattia pur guaribile, di prognosi infausta ma a lunghissimo termine, di patologie che cagionino dolori di qualsiasi grado e natura, più o meno temporanei, ‘terapizzabili’, alleviabili e perfino eliminabili; e, ancora, il consenso potrebbe esser dato a seguito di una qualsiasi riduzione, totale o parziale, di autonomia ( anche temporanea), di paura del futuro, di impossibilità o difficoltà di socializzazione, di sensazione di solitudine esistenziale, anche quando ‘provocata’ o indotta o rafforzata in qualsiasi modo dall’omicida (tutte situazioni di per sé certamente non qualificabili come frutto di ‘suggestione’ o ‘inganno’ da parte dell’omicida – art.579 n.3 CP). Non avrebbe alcuna rilevanza neanche la transitorietà del fatto-causa del consenso. Così come sarebbe irrilevante qualsiasi altra causa della richiesta o dell’accettazione da parte della vittima della proposta omicida, anche se essa fosse unicamente la momentanea decisione di non voler più vivere, affidando a terzi l’esecuzione dell’atto che ne cagionerà la morte. 

In tutti questi casi, citati solo come esempio, se il referendum radicale parzialmente abrogativo dell’art.579 CP venisse approvato, l’omicida non potrebbe esser processato né, tantomeno, punito. Diventerebbe anche penalmente lecito, non essendo mai perseguibile penalmente il concorso di più persone in un fatto depenalizzato (art.110 CP in relazione all’art.579 CP come modificato), l’eventuale istigazione all’esecuzione dell’omicidio del consenziente e, comunque, ogni tipo di partecipazione o concorso (morale o materiale) di più persone nel fatto omicidiario. 

Relativamente alla ‘forma del consenso’, non essendo previsto alcun limite e/o modalità per rendere lecita l’utilizzazione dello stesso consenso, sarebbe sufficiente una semplice dichiarazione o richiesta orale della vittima, formulata in qualsiasi modo, anche se non motivata né motivabile, per rendere lecito l’omicidio. 

Ancora, il quesito referendario non richiede, per rendere penalmente lecito l’omicidio del consenziente, nessuna verifica ‘attualizzata’ della permanenza del consenso fino al momento dell’effettuazione dell’atto omicidiario; pertanto, salvo un’espressa revoca del consenso da parte della vittima, il suo omicidio diventerebbe sempre, seppur in base ad un consenso non ‘attuale’ (anche se datato o superato), un fatto penalmente irrilevante. 

Il consenso (o la richiesta) della vittima libererebbe l’omicida da ogni responsabilità penale anche se frutto di ‘pressioni esterne dirette o indirette’ (non qualificabili come violenza, minaccia o suggestione/inganno - ipotesi n.3 dell’art.579 CP-) e perfino su proposta dello stesso omicida, senza che sia previsto nemmeno un tempo di necessario di ripensamento. 

Così, mentre resterebbe punibile ex art.580 CP la proposta, l’istigazione ed il rafforzamento del proposito suicida nonché ogni condotta che agevoli il suicidio (salvo l’ipotesi ‘eccezionale’ prevista dalla Corte Costituzionale), diventerebbe invece penalmente irrilevante l’esecuzione diretta dell’omicidio del consenziente (art.579 CP) da parte dell’ autore dell’atto, volontario ed intenzionale, che causa la morte della vittima; con evidente ulteriore profilo di irrazionalità e irragionevolezza della disciplina introdotta dal referendum , che anche sotto questo profilo contrasterebbe con l’art.3 della Costituzione ( principi di eguaglianza e di ragionevolezza). 

Analogo profilo di irrazionalità (con conseguente inammissibilità del quesito referendario) emergerebbe tenendo conto che la sua approvazione renderebbe penalmente irrilevante ogni omicidio volontario e intenzionale, purché consentito; mentre resterebbe penalmente perseguito l’omicidio colposo (art.589 CP) e cioè quello causato per negligenza, imperizia o violazione di legge, ma senza alcun dolo e volontarietà. 

Ancora, mentre le lesioni volontarie, anche se provocate con il consenso della vittima, resterebbero penalmente perseguibili (artt.582-583 CP), verrebbe irragionevolmente meno la rilevanza penale dell’attentato alla vita, all’incolumità ed alla salute della persona consenziente (solo) qualora ‘portato’ alle ‘estreme conseguenze’, costituite della soppressione stessa della vita. 

Se venisse approvato il referendum, verrebbe radicalmente violato nella sostanza il principio fondamentale previsto dall’art.5 CC , secondo cui ‘sono vietati gli atti di disposizione del proprio corpo quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica’; eppure esso costituisce la conseguenza necessaria del riconoscimento e della garanzia dei diritti alla vita, alla salute ed alla dignità stessa di ogni persona ( artt.2- 3-32 Cost., artt. 1-2-3 della carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, art. 1 legge 219/2017 ). 

Capitolo 4- Un’interpretazione errata vietata dalla Costituzione e dalla legge penale 

E’ necessario accennare a questo punto anche ad una interpretazione ‘forzata’ ( giuridicamente, oltreché culturalmente, inammissibile) del quesito referendario, formulata da alcuni con l’intento (fallace) di ridurre le conseguenze negative dell’enorme ed abnorme portata ‘eversiva’ dell’ eventuale approvazione del referendum abrogativo ; e da altri con l’intenzione di nascondere il vero significato e gli effetti dello stesso referendum e cioè l’abrogazione pressoché totale del reato di omicidio del consenziente ( quest’ultima intenzione emerge dalla stessa ingannevole titolazione del quesito: “per l’eutanasia legale”) . 

Secondo questa prospettazione , a seguito della cancellazione in via referendaria del reato di omicidio del consenziente (art. 579 CP), si potrebbe applicare direttamente a questo fatto, senza necessità di alcun intervento del legislatore, la disposizione generale del reato di omicidio ( art. 575 CP : ‘chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni 21’); riducendo però l’ampiezza punitiva della disposizione ipotizzando l’applicabilità, anche al fatto costituito dall’omicidio del consenziente, di quanto disposto dalla Corte Costituzionale nella sentenza n.242/2019 , invece espressamente limitata al diverso reato di aiuto al suicidio ( art. 580 CP), per il quale soltanto ha creato una specifica, limitatissima causa di non punibilità. 

Pertanto ‘in via analogica’ dovrebbero applicarsi anche al reato di omicidio del consenziente (già art.579 CP) - che dovrebbe esser ‘trasformato’ e ‘riqualificato’ nel più generale reato di omicidio (art. 575 CP) proprio a seguito dall’abrogazione referendaria - i limiti e le condizioni previste dalla Corte per la dichiarazione di non punibilità di chi agevoli il suicidio altrui. 

In conseguenza dell’approvazione del referendum verrebbe così legalizzata, secondo questa tesi, ‘soltanto’, ogni forma di eutanasia, attiva e passiva, nei limiti della condizione di non punibilità prevista per l’aiuto al suicidio dalla sentenza della Corte costituzionale. Invece ogni altra ipotesi di omicidio del consenziente diventerebbe perseguibile con la disposizione penale generale dell’omicidio (art. 575 CP) e perciò con la reclusione non inferiore ad anni 21; che è la stessa pena prevista, peraltro, per le ipotesi ‘qualificate’ di cui ai numeri 1, 2 e 3 dell’art. 579 CP, uniche superstiti dell’abrogazione referendaria. 

Si sottolinea innanzitutto come, se questa interpretazione fosse ammissibile, non avrebbe avuto alcun senso il mantenimento, attraverso la proposta referendaria, dell’autonomia del reato di omicidio del consenziente nemmeno per le tre ipotesi che ne costituiscono circostanze aggravanti (art.579, numeri 1,2 e 3 ), di cui è ‘conservata’ la vigenza dalla proposta referendaria abrogativa; esse sarebbero infatti ricomprese nell’unico reato di omicidio (art. 575 CP) e dovrebbero esser già sanzionate di per sé, secondo questa stessa tesi, con la stessa pena prevista per quest’ultimo reato ‘generale’. 

“L’insensatezza” di questa lettura del quesito emerge dalla semplice constatazione che, in tal modo, a seguito dell’abrogazione referendaria della norma-base di omicidio del consenziente, tale omicidio verrebbe perseguito da altra norma (art. 575 CP) con pena addirittura più grave (reclusione non inferiore ad anni 21) di quella prevista dalla disposizione che si vuole cancellare (reclusione da 6 a 15 anni). Inoltre tale norma penale verrebbe ‘creata’ attraverso un referendum abrogativo, che non ha tale potere, essendo ‘riservata’ dalla Costituzione al legislatore l’emanazione di norme penali solo attraverso una legge ( art. 25, secondo comma Costituzione : ‘nessuno può esser punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso’; art. 1 CP : ‘nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge’ : cosiddetti principi di ‘riserva di legge’ e di ‘tipicità’ del reato) . 

Questa interpretazione non è neanche prospettabile ‘in fatto’ perché la Corte Costituzionale, con la sentenza 242/2019, esige, tra i presupposti e i limiti per l’applicazione della condizione di non punibilità dell’aiuto al suicidio ( art.580 CP), che si tratti, appunto, di un suicidio, in cui l’atto “finale”, irreversibile e definitivo, causa ultima e diretta della morte, sia compiuto dallo stesso suicida ( che, come pretende la Corte, deve essere messo in condizione di poter revocare fino all’ultimo istante la sua decisione ). Evidentemente questa possibilità non può esservi in nessun caso di omicidio del consenziente (art. 579 CP), perché “l’atto finale” e definitivo, causa diretta della morte della vittima, è necessariamente opera del terzo omicida. 

Ancora, la Corte Costituzionale pretende, per l’applicazione della non punibilità dell’agevolatore dell’altrui suicidio, che la condotta dell’agevolatore non sia tale da rendere superfluo o ininfluente il ‘gesto finale e definitivo’, che deve comunque esser realizzato dal suicida; come può appunto avvenire nel fatto-reato dell’aiuto all’esecuzione del suicidio, ma ‘non può’ fisicamente avvenire nel fatto-reato di omicidio del consenziente. 

Senza voler analizzare nei dettagli i profili di ‘impossibilità giuridica’ di questa interpretazione, su queste premesse è facile constare che essa contrasterebbe con tutti i principi costituzionali che regolano il referendum abrogativo ( art. 75 primo comma della Costituzione) oltreché con i principi di ‘riserva di legge’ e ‘tipicità’ della sanzione penale; nonché con quelli di stretta interpretazione e divieto di applicazione analogica delle norme penali incriminatrici ( art. 25, secondo comma della Costituzione : ‘nessuno può esser punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso’; art. 1 CP : ‘nessuno può esser punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano dalla legge stabilite’; art. 14 Preleggi : ‘le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali...non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati’). 

Qualora venisse cancellato dal referendum il reato-base dell’art.579 CP, nessun giudice potrebbe così legittimamente perseguire e punire la condotta di chi, con il consenso della vittima, ne provocasse la morte uccidendola, a prescindere da ogni eventuale motivazione eutanasica e da ogni presupposto, limite o condizione. 

Sarebbe in questo contesto giuridicamente e tecnicamente ‘impossibile’ fornire un’interpretazione ‘costituzionalmente orientata’ dal riconoscimento e dalla garanzia del diritto alla vita (artt.2-3 Cost.) che consentisse, in casi diversi da quelli di cui ai numeri 1, 2 e 3 dell’art.579 CP, l’applicazione di una qualsiasi sanzione penale per una qualsiasi ipotesi di omicidio del consenziente. Di conseguenza, costituirebbe evidente abuso di potere da parte di un giudice sanzionare la condotta dell’omicida secondo l’interpretazione ipotizzata dai referendari, in base alla quale potrebbe applicarsi la pena del reato di cui all’art. 575 CP ( reclusione non inferiore ad anni 21 ) a tutti i casi in cui l’omicidio del consenziente non sia realizzato in presenza delle condizioni previste dalla sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale per applicare la condizione di non punibilità creata per il diverso reato di agevolazione al suicidio ( art. 580 CP). Il fatto- reato generale costituito dall’omicidio del consenziente resterebbe dunque penalmente irrilevante e non sanzionabile finché non intervenisse il legislatore con una nuova legge che reintroducesse il reato di omicidio del consenziente (anche articolato in maniera diversa da quella dell’art.579 CP attualmente vigente). 

A tale proposito si sottolinea nuovamente anche il fatto che la ‘rubrica’ dell’art. 579 CP (non compresa nel quesito referendario) resterebbe, anche dopo l’eventuale approvazione del referendum, quella attuale, comprensiva di ogni caso rientrante nel concetto generale di omicidio del consenziente; l’unica disposizione sanzionatoria applicabile resterebbe così, nei suoi nuovo limiti, solo l’art. 579 CP, intitolato appunto, genericamente, ‘omicidio del consenziente’. Pertanto, anche utilizzando soltanto un’interpretazione letterale dell’articolato penale, qualora venisse cancellata dal referendum la rilevanza penale del fatto-reato base di omicidio del consenziente (nella cancellazione rientrano tutti i casi diversi da quelli attualmente previsti come aggravanti nn. 1-2 e 3 dall’art.579 CP), resterebbe comunque, come previsto espressamente dalla legge, solo quella dell’art.579 CP (pur eccezionalmente limitata nella sua estensione dal referendum) l’unica norma penale attraverso cui poter sanzionare il fatto-reato costituito dall’ omicidio del consenziente; questa disposizione sarebbe per l’appunto quella ‘chiamata’ (dalla rubrica) ‘omicidio del consenziente’. 

Capitolo 5 – Il quesito referendario ed il contrasto con il sistema costituzionale 

Si tralasciano in questa sede altri pur gravi dubbi ‘tecnico-formali’ sull’ammissibilità del quesito in relazione alla mancanza di chiarezza, passando subito alla sua valutazione sostanziale : è evidente il contrasto diretto del quesito (da cui discende inammissibilità costituzionale) con i principi fondamentali di cui agli artt. 2-3- 32 Cost. , posti a base della sentenza della Corte Costituzionale 242/2019 e della stessa legge 219/2017 ( art.1 comma 1: ‘la presente legge...tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità ed all’autodeterminazione della persona...’). 

Il quesito referendario cancella ogni ‘bilanciamento’ ipotizzabile tra questi fondamentali diritti costituzionali, facendo prevalere su tutti un generico ed apparente rispetto dell’autodeterminazione individuale, che annullerebbe ogni altro diritto inviolabile ed i doveri di tutela che gravano sull’intera collettività; consentendo ad ognuno di avvalersi senza alcun controllo di un’apparente richiesta o adesione della vittima alla proposta di esser uccisa per realizzare impunemente il suo omicidio. 

In particolare poiché, in conseguenza della sua approvazione, diventerebbe sempre penalmente irrilevante l’uccisione di un essere umano, purché con il suo consenso, ciò contrasterebbe radicalmente con gli obblighi di ‘garanzia e tutela dei diritti inviolabili dell’uomo’ ( e tra di essi, primo e presupposto, il diritto alla vita ) che la Repubblica si assume il “compito” di assicurare direttamente , anche richiedendo a tutti “l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà” ( artt.2-3 Cost.). 

La Corte Costituzionale ha da oltre quarant’anni affermato, in reiterate e mai smentite sentenze che , a fronte di beni primari e fondamentali quali quelli alla vita ed alla salute, vi sono “leggi costituzionalmente necessarie....in quanto dirette a rendere effettivo un diritto fondamentale della persona” che una volta venute ad esistenza, mentre possono esser modificate o sostituite dal legislatore, “non possono essere puramente e semplicemente abrogate, così da eliminare la tutela precedentemente concessa, pena la violazione diretta di quel medesimo precetto costituzionale della cui attuazione costituiscono strumento” (Corte Costituzionale n.45/2005). La palese violazione di questo principio (conseguente, nel nostro caso, alla protezione assicurata dagli art. 2-3 della Costituzione al diritto alla vita), che verrebbe provocata dall’approvazione del quesito referendario, rende anche sotto questo aspetto inammissibile la richiesta referendaria. E’ evidente anche il contrasto con i principi di eguaglianza e ragionevolezza, perché, mentre resterebbe punito dall’art. 580 CP il meno grave reato di aiuto al suicidio (salvo la circoscritta causa di non punibilità di cui alla sentenza della Corte Costituzionale), diverrebbe penalmente lecito (eccetto che per le ipotesi aggravate attualmente previste ai numeri 1-2-3 ) l’ancor più grave attentato al diritto alla vita costituito dall’uccidere una persona con il suo consenso ( art.579 CP). 

Capitolo 6 -La sentenza 242/2019 della Corte costituzionale: limiti e condizioni della non punibilità di chi agevola al suicidio. 

La sentenza della Corte costituzionale 242/2019 non ha abolito un reato (art.580 CP), ma ha soltanto previsto una limitatissima causa di non punibilità di chi agevoli l’altrui suicidio solo nella fase esecutiva, collegandola a tassative condizioni di eccezionale sofferenza del suicida. 

Si riporta di seguito il testo del dispositivo di questa sentenza, che, come espressamente indicato nella parte (che non si riporta in questa per evitare eccessivi appesantimenti linguistici) dedicata ai fatti anteriori alla pubblicazione della decisione, si integra necessariamente con la motivazione, che ne costituisce parte essenziale: 

“La Corte costituzionale 

Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 CP, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22/12/2017 n.219 ......, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.” 

La Corte costituzionale ha ribadito che per tutti gli altri casi previsti dall’art.580 CP (in particolare determinazione, istigazione o rafforzamento dell’intenzione suicida) deve rimanere integralmente applicabile, senza eccezioni, la pena prevista per l’aiuto al suicidio. 

E’ opportuno ribadire ancora che, a differenza che nell’omicidio del consenziente, nel reato di aiuto al suicidio la ‘decisione ultima e l’atto esecutivo irreversibile e definitivo’ sono comunque compiuti dallo stesso suicida; la Corte sottolinea anzi che per l’applicazione della non punibilità dell’agevolatore deve restare “ferma la possibilità per il paziente di modificare la propria volontà fino all’ultimo...,il che è insito nel fatto stesso che l’interessato conserva, per definizione, il dominio dell’atto finale che innesca il processo letale”(n.d.r.: le frasi e le espressioni così virgolettate” sono tratte direttamente dal testo della sentenza). Invece nell’omicidio del consenziente (art.579 CP) è sempre il terzo che provoca, anche esecutivamente e direttamente, la morte della persona. 

Al di là di ogni valutazione sul merito della decisione, è indiscutibile che la sentenza della Corte costituzionale sull’art.580 CP si preoccupa di limitare al massimo la possibilità che in una situazione di gravissima sofferenza si verifichino interventi esterni non dissuasivi di propositi suicidari e prevede che sia dichiarato non punibile chi abbia agevolato l’esecuzione del proposito di suicidio soltanto se sussistano contemporaneamente le seguenti condizioni tassative: 

a) tale proposito si sia formato “liberamente ed autonomamente”: pertanto non devono esservi stati condizionamenti o pressioni, da chiunque provenienti, che possano aver spinto la vittima alla decisione suicida (formazione autonoma della decisione suicida); 

b) la persona sia tenuta in vita da “trattamenti di sostegno vitale”: possono definirsi tali solo quelli previsti dal quarto periodo del comma 5 dell’art.1 della legge 219/2017 e pertanto i trattamenti sanitari artificiali prescritti dal medico, essenziali per la sopravvivenza del paziente (tra di essi rientrano, ai fini della legge stessa, l’idratazione e la nutrizione artificiale);
c) la persona stessa deve essere affetta da patologia irreversibile: può definirsi tale solo una patologia inguaribile e sicuramente avviata a progressiva e ragionevolmente rapida evoluzione negativa (l’art.2, secondo comma della l. 219/2017 parla di ‘paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte). La Corte costituzionale richiama tale precisazione con l’espresso riferimento, nel dispositivo e nella motivazione della sentenza, alle “modalità di cui agli art. 1 e 2 della l.219/2017”; 

d)  La patologia irreversibile gravante sulla persona deve esser “fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili”: questo requisito, in particolar riferimento alla intollerabilità, introduce inevitabilmente un metro soggettivo della sofferenza umana, ma lo collega indirettamente all’obbligo del medico di ‘adoperarsi per alleviare le sofferenze del paziente avvalendosi di mezzi appropriati allo stato’ dello stesso (comma 1 dell’art. 2 l. 219/2017). Ciò implica che siano stati concretamente introdotti tutti i possibili strumenti di palliazione e terapia del dolore, compresa – a fronte di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari- la ‘sedazione profonda continua in associazione con la terapia del dolore’ (comma 2 dell’art. 2 della legge). E presuppone che siano state prospettate al paziente tutte ‘le possibili alternative’ (comma 5 dell’art.1) e ‘promossa ogni azione di sostegno’, così come deve avvenire a fronte della stessa dichiarazione del paziente di voler rinunciare o rifiutare ‘trattamenti necessari alla propria sopravvivenza’;
e)  la patologia che grava sul paziente deve esser assimilabile a quella prevista dagli artt. 1, comma 5 e 2 comma 2 della legge 219/2017 per i pazienti che possono rifiutare o chiedere di interrompere trattamenti sanitari artificiali salva-vita: pertanto le condizioni del paziente agevolato nell’esecuzione del suicidio devono esser di gravità tale da potersi ritenere ‘con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte’. Ciò è specificato in modo tassativo dalla motivazione della sentenza in collegamento con gli stessi articoli richiamati in dispositivo, nel passo in cui si legge : “La declaratoria di incostituzionalità attiene infatti in modo specifico ed esclusivo all’aiuto al suicidio a favore di soggetti che già potrebbero alternativamente lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti sanitari necessari alla loro sopravvivenza, ai sensi dell’art. 1, comma 5, della legge ora citata: disposizione che, inserendosi nel più ampio tessuto delle previsioni del medesimo articolo, prefigura una ‘procedura medicalizzata’ estensibile alle situazioni che qui vengono in rilievo;
f)  Il paziente deve essere comunque ‘pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli’:
questa precondizione è strettamente collegata ai requisiti della maggiore età del paziente e dell’assenza di misure protettive che ne riducano la piena ‘capacità di intendere e di volere’ (interdizione o amministrazione di sostegno che riduca l’autonomia decisionale del paziente in campo sanitario). Di fatto il paziente, nonostante le sue condizioni di malattia e di intollerabile sofferenza, deve essere, in ogni momento del suo percorso decisionale fino all’esecuzione del suicidio, in condizione di ‘piena autonomia valutativa e decisionale’ (‘attualità’ dell’autonomia decisionale in diritto e in fatto);
g)  la decisione suicida sia comunque preceduta e poi confermata nonostante un percorso di cura volto ad alleviare le sofferenze del paziente e per quanto possibile a superare le ragioni della sua decisione : il richiamo espresso del dispositivo al collegamento necessario tra non punibilità dell’agevolatore e artt.1-2 della legge 219/2017 è valorizzato specificamente dalla motivazione che, citando la legge, richiama, oltre all’obbligo specifico del medico di “prospettare al paziente le conseguenze della sua decisione e le possibili alternative, promuovendo ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica”, anche “l’esigenza di coinvolgimento dell’interessato in un percorso di cure palliative...spesso idonee a rimuovere le cause della volontà del paziente di congedarsi dalla vita”. Il fatto che la non punibilità di chi agevoli l’esecuzione del suicidio sia condizionata dalla concreta ed effettiva realizzazione di un adeguato e personalizzato percorso di cura e dissuasione a favore del paziente, coinvolgendo per quanto possibile anche i familiari, è sottolineata dalla stessa Corte che ha ribadito : “il coinvolgimento in un percorso di cure palliative deve costituire...un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente” ; e, ancora, riportando una riflessione del Comitato Nazionale per la bioetica, che “la necessaria offerta di cure palliative e di terapia del dolore-che oggi sconta molti ostacoli e difficoltà, specie nella disomogeneità territoriale dell’offerta del SSN, e nella mancanza di una formazione specifica nell’ambito delle professioni sanitarie- dovrebbe rappresentare, invece, una priorità assoluta per le politiche della sanità. Si cadrebbe, altrimenti, nel paradosso di non punire l’aiuto al suicidio senza aver prima assicurato l’effettività del diritto alle cure palliative”; 

h) l’intervento dell’agevolatore dell’esecuzione del suicidio, pur prospettato, non deve in alcun modo aver contribuito a rafforzare il proposito e/o la decisione suicida : come ribadito dalla Corte Costituzionale, se questo effetto si fosse realizzato, il fatto-reato commesso dall’agevolatore porrebbe in essere ‘anche’ la diversa e più grave fattispecie descritta dallo stesso art.580 CP con le parole ‘chiunque ...rafforza l’altrui proposito di suicidio’; pertanto la persona che agevola il suicidio resterebbe punibile sotto questo profilo diverso, la cui punibilità è stata espressamente confermata dalla sentenza. 

i) attualità-modificabilità-revocabilità della decisione suicida: un’attenta lettura della sentenza permette di comprendere come il filo rosso che lega il percorso sanitarizzato che passa dall’iniziale proposito suicida alla sua conferma ed esecuzione attraverso l’aiuto materiale dell’agevolatore, deve essere il ‘carattere attuale’ della decisione suicida; solo così è possibile giudicare non punibile l’intervento dell’agevolatore. La Corte costituzionale pretende insomma che non si tratti di un proposito o di una decisione ‘datata’, ‘ora per allora’, distante nel tempo (come potrebbe teoricamente avvenire se la scelta suicida fosse espressa con le DAT- art.4 l. 219/2017); ma che la decisione suicida rimanga tale fino all’ultimo, fino al momento della sua esecuzione materiale da parte dello stesso suicida. E questo deve avvenire nonostante un percorso dissuasivo, di prospettazione di alternative, di supporto e sostegno analogo a quello previsto dal quinto comma dell’art.1 legge 219/2017 per la conferma e l’esecuzione del rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla sopravvivenza. Il requisito dell’attualità della decisione suicida si collega necessariamente a quello della possibilità di revocare/modificare fino all’ultimo la decisione suicida, come pretende la sentenza della Corte: “ferma restando la possibilità per il paziente di modificare la propria volontà; il che, peraltro, nel caso dell’aiuto al suicidio, è insito nel fatto stesso che l’interessato conserva, per definizione, il dominio dell’atto finale che innesca il processo letale”; 

j) le condizioni sopraindicate e le modalità di esecuzione devono essere state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico competente: in sostanza è necessario, per poter giudicare non punibile dell’agevolatore, che siano avvenuti, durante il ‘percorso medicalizzato’ sopra descritto e/o dopo il suicidio: 

-1)- il controllo e la verifica ( positiva e preventiva) da parte di strutture organizzate all’interno del SSN di tutto il procedimento medicalizzato’ antecedente all’esecuzione del suicidio, compresi i suoi presupposti (in particolar riferimento alla capacità di autodeterminazione/autonomia valutativa e decisionale ed alla consapevolezza e libertà della decisione).Questi accertamenti, per esser ritenuti adeguati rispetto all’assoluta irreparabilità dell’esecuzione del suicidio, devono esser operati, ai fini del riconoscimento dell’eventuale non punibilità dell’agevolatore, da struttura pubblica del SSN. Tale struttura, necessariamente ‘esterna ed estranea’ al percorso decisionale del suicida e dell’agevolatore, può però partecipare al ‘percorso di cura’ che costituisce requisito essenziale (lett.g) per il riconoscimento dell’eventuale non punibilità dell’agevolatore. Si sottolinea comunque che le strutture del servizio sanitario nazionale sono incaricate soltanto di verificare la sussistenza delle condizioni e dei requisiti previsti per l’eventuale riconoscimento della non punibilità, ma che non hanno, né possono avere, secondo il quadro costituzionale delineato dalla sentenza, compiti diretti nell’esecuzione del suicidio (o nella sua agevolazione); suicidio che hanno invece il compito , per quanto possibile, di ‘prevenire’ attraverso la prospettazione di alternative e la promozione di efficaci azioni di sostegno anche psicologico, al paziente ( art. 1, comma 5 legge 219/2017, anche in relazione alle previsioni dell’art.2: dovere di alleviare le sofferenze, dovere di erogare cure palliative e la più appropriata terapia del dolore fino al ricorso alla sedazione palliativa profonda continua). 

-2)-l’acquisizionedelpareredelcomitatoeticoterritorialmentecompetente:per“garantire tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità” la Corte ritiene necessario “ l’intervento di un organo collegiale terzo, munito di adeguate competenze, il quale possa garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità “e, a legislazione vigente, individua tale organo nei “comitati etici territorialmente competenti”, cui è affidata l’espressione del parere bioetico previsto; 

-3)- la verifica sulle modalità di esecuzione del proposito suicida : a garanzia delle caratteristiche effettivamente eutanasiche del suicidio e dell’aiuto materiale prestato dall’agevolatore, la sentenza impone, ai fini del riconoscimento della condizione di non punibilità dell’agevolatore, una verifica positiva ( ragionevolmente ‘anche’ successiva all’esecuzione del suicidio), da parte di strutture pubbliche individuate all’interno del SSN, delle modalità esecutive dello suicidio, riguardante anche l’intervento dell’agevolatore. Esse “dovranno essere evidentemente tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze”. Anche le verifiche relative alle modalità di esecuzione dovranno esser precedute dal parere del Comitato etico competente. 

Per un commento analitico di questi requisiti, così come per una più diffusa analisi della sentenza della Corte, si rinvia al nostro articolo, citato in premessa, pubblicato il 24/2/2021 dal Servizio studi della Corte costituzionale. 

Capitolo 7- Il parere del Comitato etico territorialmente competente 

L’acquisizione del parere del Comitato etico territorialmente competente (anche se non è vincolante nel contenuto) è un presupposto necessario per la definizione da parte del giudice del procedimento penale per il reato di cui all’art. 580 CP nei confronti di chi abbia agevolato l’esecuzione del suicidio altrui, con il riconoscimento (o il disconoscimento) della causa di non punibilità prevista dalla sentenza della Corte costituzionale. 

Secondo quanto dispone la sentenza è infatti necessario, ai fini del giudizio sulla non punibilità del comportamento dell’agevolatore, non solo l’accertamento-verifica delle condizioni-requisiti indicati nel precedente capitolo, ma, in particolare, il preventivo parere, su tutti gli estremi della vicenda specifica, da parte “di un organo collegiale terzo, munito di adeguate competenze, il quale possa garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità”. Tali comitati, secondo la Corte, sono attualmente, fino a diversa previsione del legislatore, gli unici “organismi di consultazione e di riferimento per i problemi di natura etica che possano presentarsi nella pratica sanitaria”, con “funzioni che involgono specificamente la salvaguardia di soggetti vulnerabili”. 

Le analisi dei casi da parte di un Comitato Etico per la Pratica Clinica: un profilo sintetico. 

L’analisi etica di casi clinici, sia essa a carattere retrospettivo (su casi, cioè, già conclusi, per lo più condotta a scopo formativo/analitico) o prospettico (su casi “in essere”, a carattere analitico/consultivo/deliberativo), costituisce il fulcro dell’essenza stessa dei Comitati Etici (per la Pratica Clinica, d’ora in avanti “CEPC”). 

Di norma, l’affidamento ad un CEPC, costituito con compiti deliberativi, avviene perché le soluzioni pratiche non trovano adeguato e completo supporto né nei codici deontologici (base per l’analisi teleologica dell’agire nella cura), né nelle norme giuridiche (che costituiscono un’altra, essenziale, cornice di riferimento dell’azione). Con la sua attività d’analisi il CEPC facilita la soluzione nei confronti di problemi a potenziale natura conflittuale. Esso affianca, senza sostituirsi, la faticosa scelta di fronte a situazioni difficili in cui clinici, pazienti, familiari di malati, équipe d’assistenza si possono trovare ad agire. 

Il documento finale che un CEPC redige al termine di un iter deliberativo è frutto di un percorso di confronto ad arricchimento reciproco, all’interno di un gruppo multidisciplinare, nel quale proprio le differenti voci costituiscono l’ossatura delle scelte. Tale documento è, di norma, il prodotto finale di un percorso rigoroso, in cui il ragionamento centrale riguarda il processo decisionale che tenga conto dello sfondo incerto, ma che contempli le alternative nelle scelte d’azione, ma soprattutto le conseguenze nei protagonisti. 

Per una buona prassi operativa il CEPC si dota, solitamente, di un percorso logico deliberativo nel quale alcune tappe sono irrinunciabili: 

  • -  discussione analitica dell’area clinico sanitaria (anamnesi) ed analisi in profondità del contesto sociale (approccio bio-psico-sociale) delle problematiche del caso;
  • -  individuazione delle aree di responsabilità delle azioni pratiche e profilazione di dettaglio dei protagonisti e delle situazioni;
  • -  individuazione ed analisi degli snodi etici (problemi, dilemmi, valori, conflitti fra principi da rispettare);
  • -  deliberazione di un percorso decisionale per un’azione morale condivisa, previa individuazione dei diversi corsi d’azione (alternative);
  • -  giustificazione delle scelte ed analisi delle possibili conseguenze sui soggetti protagonisti coinvolti.
    Tale schema operativo, largamente utilizzato dai CEPC, appare ben applicabile anche ad un intervento quale viene a profilarsi, qualora vi sia la necessità, da parte del giudice, di fare preventivo ricorso al CEPC territorialmente competente, nel caso specifico di richiesta di suicidio medicalmente assistito. La mancanza di esperienze precedenti, con una normativa in introduzione, non sembra costituire un ostacolo ad una buona pratica, soprattutto se, all’interno del CEPC, qualora già non fossero previste figure riferibili a competenze che appaiono in questo caso come irrinunciabili (qui da riferirsi ad un esperto in cure palliative, un neurologo, un farmacologo), esse possono essere utilmente temporaneamente associate come consulenti.

Capitolo 8 – Le ragioni costituzionali dei limiti e delle condizioni per l’applicazione della non punibilità 

Pur essendo la sentenza auto-applicativa e di immediata eseguibilità, sarebbe opportuno che su alcuni specifici elementi, in particolare quelli relativi alle verifiche-accertamenti richiesti, al controllo delle modalità di esecuzione del suicidio ed al parere del comitato etico, intervenisse, come auspica la sentenza, il legislatore con una “sollecita e compiuta disciplina ... conformemente ai principi precedentemente enunciati”. Questo per assicurare, all’interno del quadro costituzionale delineato e nel rispetto dei limiti posti dalla stessa sentenza, una effettiva uniformità di trattamento nel rispetto, pur nelle diversificate realtà e territoriali ed ambientali, dei principi costituzionali e del loro corretto bilanciamento. 

La Corte, come appare evidente dalla stessa lettura dei requisiti richiesti per l’applicazione della limitata condizione di non punibilità del reato di aiuto al suicidio, ha ritenuto che non fosse costituzionalmente corretto lasciare che, a seguito di un eventuale “annullamento secco”, seppur limitato, di una norma penale ritenuta parzialmente incostituzionale, si creassero “intollerabili vuoti di tutela generando il pericolo di abusi per la vita di persone in situazione di vulnerabilità’ “; per questo, avvalendosi dei suoi poteri integrativi, ha previsto condizioni, modalità , limiti, accertamenti e verifiche indispensabili per poter dichiarare non punibile chi abbia agevolato il suicidio altrui. Ed ha necessariamente ricavato la disciplina contenuta nel dispositivo e nella motivazione (da leggere unitariamente) dal sistema normativo vigente, in particolare facendo riferimento agli artt.1 e 2 della l.219/2017, di cui ha dato, naturalmente, una interpretazione vincolante costituzionalmente orientata (artt.2, 3 e 32 della Costituzione). 

Anche se la norma ‘attaccata’ dal referendum radicale è quella dell’art.579 CP, diversa e ancor più grave di quella (art.580 CP) per cui è intervenuta la Corte costituzionale, è però evidente, in questo contesto, che per il controllo di costituzionalità del quesito referendario proposto valgono gli stessi principi costituzionali sottolineati dalla Corte con la sentenza 242/2019, trattandosi in entrambi i casi di norme poste a tutela e garanzia del rispetto della vita umana. 

Riteniamo opportuno riportare di seguito alcuni passi tratti dalla sentenza 242/2019, che illuminano la ‘ratio’ che ha guidato la decisione della Corte e, indirettamente, evidenziano il contrasto radicale tra il referendum abrogativo dell’art.579 CP ed i principi (ed i limiti) posti dalla nostra Costituzione, sottolineati dalla stessa sentenza: 

. il “diritto alla vita (è) riconosciuto implicitamente... come primo dei diritti inviolabili dell’uomo...in quanto presupposto per l’esercizio di tutti gli altri... dall’art.2 della Costituzione...nonché, in modo esplicito, dall’art.2 CEDU (Convenzione Europea diritti dell’uomo); 

. “dal diritto alla vita discende il dovere dello Stato di tutelare ogni individuo ; non quello, diametralmente opposto, di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire”; che dal diritto alla vita, garantito dall’art.2 CEDU, non possa derivare il diritto di rinunciare a vivere, e dunque un vero e proprio diritto a morire, è stato del resto da tempo affermato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, proprio in relazione alla tematica dell’aiuto al suicidio”. 

. da ciò consegue che, essendo negato dalla Corte costituzionale ogni ‘diritto al suicidio’ e, ancor di più, il diritto ad ottenere, dallo Stato o da terzi, un aiuto al suicidio, non può nemmeno esser prevista la possibilità “dell’obiezione di coscienza del personale sanitario, perché la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita ad escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici”; 

. in relazione all’aiuto al suicidio (ma naturalmente ed a maggior ragione anche in relazione all’omicidio del consenziente) la protezione penale si impone per la “tutela del diritto alla vita, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio – (e, naturalmente, dell’omicidio, pur consentito, n.d.r.) -. Essa assolve allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di attuare il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere”; 

. nonèlegittimocontestareildivietopenale“innomediunaconcezioneastrattadell’autonomiaindividuale che ignora le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite. Anzi è compito della Repubblica attuare politiche pubbliche volte a sostenere chi versa in simili situazioni di fragilità, rimovendo, in tal modo, gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art.3, secondo comma, Cost.)”. 

La Corte, dunque, ha bilanciato le esigenze costituzionali fondamentali costituite dal riconoscimento e dalla garanzia del diritto alla vita (ed alla salute) ed il parallelo compito della sua tutela e garanzia da parte dello Stato con i principi di autonomia decisionale, proporzionalità e di ragionevolezza nell’ applicazione della sanzione penale, creando, all’interno dell’art. 580 CP, una limitata area di non sanzionabilità penale. Essa è circoscritta solo a chi si limiti ad aiutare materialmente l’esecuzione del suicidio di una persona che, a fronte di sofferenze intollerabili conseguenti ad una patologia irreversibile, essendo tenuta in vita da trattamenti di sostegno artificiali, abbia consapevolmente ed autonomamente deciso di ricorrere al suicidio, nonostante abbia completato un percorso di cura e assistenza terapeutica quale quello descritto dagli artt.1 e 2 della legge 219/2017. 

La Corte costituzionale sottolinea ancora “l’esigenza di coinvolgimento dell’interessato in un percorso di cure palliative”, specificando che “l’art.2 della legge n.219/2017 prevede che debba esser sempre garantita al paziente un’appropriata terapia del dolore e l’erogazione delle cure palliative previste dalla legge n.38/2010”; ha anche constatato che l’adozione della più adeguata palliazione “spesso si presta...a rimuovere le cause della volontà del paziente di congedarsi dalla vita”. In ogni caso deve esser sempre garantita” la possibilità per il paziente di modificare la propria volontà”. 

La stessa Corte ribadisce, istituendo un qualche parallelismo tra condizioni di non punibilità dell’aiuto al suicidio ed il rifiuto di ‘trattamenti terapeutici necessari alla propria sopravvivenza’ (art.1, comma 5 della l.219/2017), che non solo devono esser prospettate le “possibili alternative”, ma che va promossa “ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica”. 

È pertanto necessaria la prosecuzione della ‘cura’ fino al termine della vita. La cura è costituzionalmente irrinunciabile (impossibilità di ogni ‘abbandono della cura’) nonostante la rinunciabilità dei singoli trattamenti terapeutici; pertanto “il medico, avvalendosi di mezzi appropriati allo stato del paziente, deve adoperarsi per alleviarne le sofferenze, anche in caso di rifiuto o di revoca del consenso al trattamento sanitario indicato dal medico” (art.2, primo comma della legge 219/2017). 

Capitolo 9- Principi costituzionali, art.2 della legge 219/2017 e legge 38/2010- Il riconoscimento della dignità nella fase finale della vita: prospettive normative. 

La sentenza della Corte costituzionale 242/2019 è auto-applicativa ed è pertanto immediatamente esecutiva, a prescindere da ogni intervento del legislatore. Esso è però opportuno per assicurare, nell’alveo dei principi dettati dalla Corte costituzionale, una più efficace capacità di cura della persona sofferente; ciò è possibile attraverso “scelte discrezionali che solo il legislatore può adottare” (seppur vincolate dalle esigenze di protezione costituzionale affermate dalla sentenza). Questo al di là dei limiti che la stessa Corte non ha potuto superare dovendosi limitare a fornire con la sentenza un’interpretazione, anche se integrativa e ‘creativa’, del tessuto normativo già vigente (per questo utilizzando ampiamente, in particolare, le disposizioni della legge 219/2017 sul consenso informato, ma anche quelle della legge 38/2010 sulle cure palliative e del DL 158/2012 sui comitati etici). 

In questo senso va letta l’esortazione al legislatore, contenuta nella stessa sentenza, a prevedere in un campo così delicato quale quello della sofferenza umana, “una sollecita e compiuta disciplina... conformemente ai principi precedentemente enunciati” (che sono quelli sintetizzati nel commento alla sentenza contenuto nei capitoli precedenti). Solo con interventi del legislatore mirati in questo senso, si potrà assicurare, all’interno del quadro costituzionale delineato e nel rispetto dei limiti posti dalla Corte, una effettiva uniformità di trattamento, superando “molti ostacoli e difficoltà, specie nella disomogeneità territoriale dell’offerta del SSN e nella mancanza di una formazione specifica nell’ambito delle professioni sanitarie. ..”, mentre “la necessaria offerta effettiva di cure palliative e di terapia del dolore...dovrebbe rappresentare una priorità assoluta per le politiche della sanità. Altrimenti si cadrebbe nel paradosso di non punire l’aiuto al suicidio senza aver prima assicurato l’effettività del diritto alle cure palliative”. 

“L’esigenza del coinvolgimento dell’interessato in un percorso di cure palliative”, la cui effettività deve esser sempre garantita, così come il “promovimento di ogni azione di sostegno al paziente, comprensive soprattutto delle terapie del dolore” costituiscono - secondo la sentenza n.242/2019- requisito essenziale per l’effettività della cura dei pazienti che si trovano nella fase terminale della vita e presuppongono “una conoscenza accurata delle condizioni di sofferenza”. 

Questa constatazione-esortazione della Corte focalizza, positivamente e negativamente assieme, lo stato dell’arte nell’approccio socio-sanitario alla fase finale della vita , da un lato con la grandezza di molti principi dettati (quali quello secondo cui “il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura’: comma 8 della legge 219/2017; o quello secondo cui “è sempre garantita un’appropriata terapia del dolore, con il coinvolgimento del medico di medicina generale e l’erogazione delle cure palliative di cui alla legge n.38/2010”: art.2 comma 2 della stessa legge) e dall’altro, con l’insufficienza della loro concreta attuazione nei diversi contesti territoriali e nelle concrete condizioni di difficoltà organizzative generali ed ‘emergenziali’, più o meno previste o prevedibili. 

Valga, quale esempio, la situazione del nostro servizio socio-sanitario che, di fatto non è stato messo davvero in grado, dopo due anni di emergenza-covid, di fronteggiare adeguatamente (per mezzi , organizzazione e numeri del personale socio-sanitario utilizzabile) le pur eccezionali difficoltà collegate alla pandemia; tenendo conto però che esse hanno solo acuito carenze già prima facilmente rivelabili e –almeno in buona parte- superabili ( anche per obbligo costituzionale connesso al carattere primario della tutela dei diritti alla vita ed alla salute: artt. 2-3-32 Cost.) con l’acquisizione ed il miglior impiego di risorse che sono (e/o sarebbero state) a qualsiasi livello disponibili. 

Capitolo 10- Prospettive normative. Profili di incostituzionalità della proposta Trizzino-Bazoli. 

In questo contesto si pone l’assoluta essenzialità di attuare effettivamente, nell’organizzazione del servizio socio-sanitario, al di là di ogni costo e di ogni impossibile ‘clausola di invarianza finanziaria’ ( art.7 della l.219/2017) o insufficiente finanziamento (art.12 l.38/2010), i diritti alla cura individuale, alla palliazione ed al sostegno previsti dalle leggi 217/2019 e 38/2010; leggibili a loro volta, come indica la Corte Costituzionale, quali tentativi di permettere l’ attuazione concreta dei fondamentali artt. 2-3-32 della Costituzione ( si veda in tal senso, espressamente, il primo comma dell’art. 1 della legge 219/2017). 

Gli interventi nell’intero campo sociosanitario vanno focalizzati alla loro effettiva rapida attuazione, con visione ampia, coordinata ed inserita in una programmazione unitaria, a tappe ravvicinate adeguatamente finanziate. Questo vale soprattutto nel campo delle cure palliative e della terapia del dolore, in cui è necessario superare ogni particolarismo, ogni frammentazione ed egoismo territoriale per garantire davvero a tutti, nell’intero territorio nazionale, ‘livelli essenziali di assistenza’: di essi fanno parte, a pieno titolo, ‘il programma di cura individuale per il malato e per la sua famiglia’ , ‘il diritto all’assistenza domiciliare’ anche specialistica, il diritto ad un ‘adeguato sostegno sanitario e socio-assistenziale della persona malata e della famiglia’, il ‘diritto alle cure palliative’ e il ‘diritto ad un’appropriata terapia del dolore’, fino alla ‘sedazione palliativa profonda continua’. Questo esigono non solo la Costituzione (attraverso la declinazione, negli artt. 2-3 e 32, dei diritti inviolabili e dei doveri inderogabili) ma, già a legislazione vigente, gli artt.1 e 2 della legge 38/2010 e l’art.2 della legge 219/2017. Pertanto, deve esser organizzata concretamente la loro effettiva attuazione in tempi ravvicinati, anche attraverso un’adeguata formazione e campagne istituzionali di informazione. Per garantire l’attuazione dei principi espressi sono necessarie, quanto meno, linee-guida nazionali unitarie assieme ad effettivi finanziamenti che privilegino la permanenza e l’assistenza domiciliare e realizzino una vera ‘continuità assistenziale anche specialistica’ (art. 2, comma 1 della legge 219/2017 che richiama le specifiche previsioni dell’intera legge 38/2010). 

In specifica relazione alla sentenza della Corte costituzionale 242/2019 va previsto, nell’ambito dei compiti di verifica e controllo sulle condizioni e i requisiti indispensabili per il giudizio di non punibilità dell’aiuto al suicidio, uno schema attuativo unitario e non frammentato o dipendente solo da iniziative regionali e/o delle singole AULSS, con precisazione di competenze e tempistiche d’intervento, prima e dopo la realizzazione del suicidio assistito. Un parallelo intervento normativo sarebbe opportuno anche per precisare meglio le modalità di espressione del parere “dell’organo collegiale terzo, munito di adeguate competenze, il quale possa garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità”; organo attualmente identificato - in base alla legislazione vigente- nel Comitato etico territorialmente competente. 

Negli interventi normativi vanno rispettati rigorosamente tutti i principi ed i limiti/condizioni posti dalla sentenza della Corte costituzionale, sottolineati nei capitoli precedenti. Va ribadito che la scelta del paziente di suicidarsi (anche con l’aiuto di terzi) non costituisce diritto soggettivo, né crea alcun dovere di esecuzione da parte di strutture pubbliche o private o comunque di terzi (è perciò inammissibile ogni problematica relativa all’obiezione di coscienza, di cui manca il presupposto, costituito da un obbligo di partecipazione che nel caso di specie non può esser previsto). La struttura del SSN incaricata ha infatti solo compiti di accertamento-verifica delle condizioni di non punibilità dell’aiuto al suicidio, e non può partecipare attivamente e/o direttamente alla sua esecuzione; il suo compito anzi, connesso alla ‘cura del paziente’, si sostanzia anche nel contribuire a realizzare le condizioni per cui la persona sofferente possa modificare/revocare il proposito suicida. 

Rimane esclusa dalla discrezionalità del legislatore, per i limiti stessi che pone la sentenza della Corte Costituzionale 242/2019 in attuazione degli artt.2-3-32 della Costituzione, la possibilità di prevedere una causa di giustificazione o di non punibilità per chi attui o comunque in qualsiasi modo concorra nell’ omicidio di una persona consenziente (art. 579 CP), anche se per motivazioni riferibili ad intenzioni eutanasiche. Resta invece affidata alla scelta discrezionale del legislatore la possibilità di prevedere in questi casi, rientranti nel reato di omicidio del consenziente, una circostanza attenuante speciale quando l’omicidio stesso sia effettivamente motivato da serie circostanze di carattere eutanasico. 

La delicatezza della materia e la sua connessione diretta con esseri umani sofferenti impongono con particolare forza al legislatore di utilizzare, per l’eventuale intervento normativo, un frasario semplice, non burocratico e comprensibile anche da persone non particolarmente qualificate, evitando di ricorrere, per quanto possibile, a rinvii formali ad altre leggi e/o normative. 

Costituisce, a nostro avviso, un esempio di intervento normativo inadeguato la cosiddetta “proposta Trizzino- Bazoli” (su cui le Commissioni II e XII della Camera dei deputati hanno già espresso parere favorevole) intitolata ‘Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita’, con cui si vorrebbe integrare, con disposizioni attuative, la sentenza della Corte costituzionale 242/2019. 

Questa proposta trascura la necessità, reiteratamente sottolineata dalla Corte costituzionale, di inserire la limitata causa di non punibilità di chi, nei ristretti casi previsti, agevoli esecutivamente il suicidio della persona sofferente, in un quadro socioassistenziale generale che possa effettivamente garantire per tutti, nell’intero territorio nazionale, l’accesso e la fruizione delle cure palliative e della terapia del dolore. Questo impegno attuativo, di fatto, fino ad oggi non è stato realizzato, ma non è neanche stato preso in esame dalla proposta Trizzino-Bazoli. 

Eppure, esso dovrebbe essere il presupposto legittimante della non punibilità dell’aiuto al suicidio e dovrebbe già esser stato realizzato in attuazione degli artt. 1 e 2 della legge 219/2017 e degli artt. 1, 2 e 3 della legge 38/2010. Solo così si sarebbero potuti e si potrebbero superare, come indica la sentenza della Corte, “molti ostacoli e difficoltà, specie nella disomogeneità territoriale dell’offerta del SSNN, e nella mancanza di una formazione specifica nell’ambito delle professioni sanitarie, che dovrebbe rappresentare, invece, una priorità assoluta per le politiche della sanità.” Come sottolinea ancora la Corte, “si cadrebbe altrimenti nel paradosso di non punire l’aiuto al suicidio senza aver prima assicurato l’effettività del diritto alle cure palliative”. 

La proposta Trizzino-Bazoli, ove approvata dal Parlamento, rafforzerebbe proprio questo effetto negativo e paradossale, poiché finalizza ogni intervento solo a burocratizzare macchinosamente, evitando ogni onere per lo Stato, le disposizioni della sentenza 242/2019, realizzando un articolato procedimento medicalizzato ‘neutro’, che ne travolge, oltre ai limiti giuridici, anche ogni finalità dissuasiva; e trascura le preoccupazioni e le esigenze culturali e deontologiche che animano la sentenza e ne configurano gli argini costituzionali. 

Trattandosi ancora di una proposta, si ritiene superfluo in questa sede un esame analitico di tutte le singole disposizioni, bastando alcune osservazioni generali per evidenziarne, ove necessario, anche l’incostituzionalità. 

A) La proposta, al di là delle incertezze tecnico-lessicali e terminologiche, prevede il riconoscimento di un vero e proprio ‘diritto al suicidio e ad ottenere assistenza al suicidio’ nei confronti delle strutture del servizio sanitario nazionale e detta le relative modalità, inutilmente burocratiche (art.5), peraltro senza alcuna efficacia dissuasiva. In sostanza lo Stato, attraverso il SSNN, non verrebbe più ad avere solo un obbligo di controllo e verifica sul ‘procedimento medicalizzato di assistenza al suicidio’ ai fini del riconoscimento eventuale della causa di non sanzionabilità penale creata dalla Corte; ma diventerebbe un vero e proprio diretto co-organizzatore necessario dell’esecuzione del proposito suicida. Chi ha scelto la strada del suicidio assistito potrebbe così ‘pretendere’ dal SSNN la realizzazione dell’aiuto organizzato alla sua esecuzione. 

B) Ciò contrasterebbe con quanto stabilisce espressamente la sentenza 242/2019. In particolare, in relazione alla specifica problematica, la Corte infatti ha disposto, tra l’altro: “Dal diritto alla vita discende il dovere dello Stato di tutelare ogni individuo; non quello diametralmente opposto, di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire”. Essa ha creato soltanto una ‘condizione di non punibilità’ dell’agevolatore, non conferendo al paziente suicida alcun diritto soggettivo nei confronti dello Stato o di terzi; conseguentemente, nessun obbligo di intervento – eccetto il controllo della procedura- grava a carico dello Stato, delle sue strutture o di terzi. 

C) Da questa incostituzionale estensione a diritto soggettivo di una limitata condizione di non punibilità per chi agevoli l’esecuzione del suicidio, operata dalla proposta Trizzino-Bazoli, discende il riconoscimento del diritto all’obiezione di coscienza (art.6) del personale sanitario (anch’esso, per quel che vale, formulato in maniera macchinosa e burocratica). Esso, evidentemente, non avrebbe avuto alcun senso se la proposta si fosse limitata ad esplicitare il riconoscimento di una condizione di non punibilità per i casi di aiuto al suicidio già previsti dalla Corte costituzionale in relazione all’art. 580 CP. Dispone infatti la sentenza: “Quanto al tema dell’obiezione di coscienza del personale sanitario, vale osservare che la presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita ad escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato.” 

D) La stessa disposizione dell’art. 8 della proposta, intitolata ‘esclusione della punibilità’, allarga e stravolge il senso della stessa non punibilità, fino a giungere ad una vera e propria esclusione della rilevanza penale del fatto di agevolazione del suicidio per tutti coloro che l’abbiano realizzata. Questa ‘interpretazione’ contrasta con le indicazioni vincolanti della sentenza, che espressamente limita il suo intervento ( e quello, possibile, del legislatore nel rispetto dei limiti da essa posti) alla creazione di una condizione di non punibilità individuale dell’esecutore. 

Invece l’articolo 8, con allargamento culturale generalizzato e tecnicamente improprio (oltreché incostituzionale), prevede che ‘le disposizioni contenute negli articoli 580 e 593 CP non si applicano al medico e al personale sanitario e amministrativo che abbiano dato corso alla procedura di morte volontaria medicalmente assistita nonché a tutti coloro che abbiano agevolato in qualsiasi modo la persona malata ad attivare, istruire e portare a termine la predetta procedura, qualora esse siano eseguite nel rispetto delle disposizioni della presente legge.’ 

Questa disposizione finisce per superare perfino il limite costituito dal mantenimento, ritenuto dalla Corte costituzionalmente dovuto, della permanente sanzionabilità penale del diverso comportamento di ‘determinazione e/o di rafforzamento’ dell’altrui proposito di suicidio (prima parte dell’art. 580 CP). Infatti l’aver previsto, in generale e senza esclusioni, la ‘non applicabilità’ dell’art. 580 CP, esclude di per sé, tout court, la possibilità di sanzionare penalmente il personale sanitario e quello amministrativo che ha partecipato ‘in qualsiasi modo’ al percorso suicida; ciò anche per i diversi e più gravi reati autonomi di ‘rafforzamento’ o ‘determinazione’ di questo proposito, pur previsti dallo stesso art.580 CP. Questa disposizione contrasta non solo con gli ‘obblighi di garanzia’ del diritto alla vita previsti dall’art. 2 della Costituzione (in particolar relazione al ruolo specifico di ‘cura’ assegnato), ma con gli stessi requisiti espressamente richiesti dalla Corte per la non punibilità dell’agevolazione all’esecuzione del suicidio: cioè che il ‘proposito suicida’ si sia ‘formato autonomamente e liberamente’ e che le decisioni della persona sofferente siano sempre ‘pienamente libere e consapevoli’ ( si vedano in particolare i i punti a-f-h del capitolo 6 di questo articolo). 

E ) La proposta Trizzino-Bazzoli prevede, in sostituzione della necessità dell’acquisizione del parere del Comitato etico territorialmente competente richiesto dalla Corte ai fini dell’eventuale riconoscimento della condizione di non punibilità (capitolo 6 lettera j n.2 e capitolo 7 di questo testo), un intervento ‘diretto ed attivo’, nello stesso procedimento, da parte di un ‘comitato per la valutazione clinica’, da formare appositamente quale struttura interna delle aziende sanitarie locali, seppur con apparente riconoscimento della garanzia di ‘autonomia e indipendenza’ (art.7 del testo). 

I suoi compiti sono totalmente diversi da quelli dei Comitati etici il cui intervento è previsto dalla Corte Costituzionale ( compiti riassumibili nel “garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità “e nella “salvaguardia di soggetti vulnerabili” ) per l’espressione - da parte “di un organo collegiale terzo, munito di adeguate competenze”- di un “parere” non vincolante ai fini del riconoscimento ( o della non applicazione) della condizione di non punibilità prevista dalla sentenza 242/2019. 

I compiti di questo nuovo Comitato, che è tutt’altro che “terzo” nel procedimento, di cui è parte integrante, attiva e propulsiva, invece, non realizzano affatto quelli previsti dalla Corte (di garanzia e di specifica tutela e salvaguardia dei soggetti vulnerabili) ; ma integrano un macchinoso percorso, interno al pur burocratico procedimento medicalizzato organizzato dall’art. 5 della proposta, in cui il ‘parere’ di questo Comitato, sostanzialmente vincolante, può essere addirittura oggetto di ricorso ad un (non specificato né qualificato) giudice territorialmente competente. Anche sotto questo profilo, pertanto, è evidente il contrasto con i principi della sentenza 242/2019. 

F) E’ inevitabile constatare come – a prescindere da ogni ulteriore valutazione giuridica ed etica sulla proposta in analisi - essa aggraverebbe ulteriormente i compiti di intervento attivo delle strutture del SSN e, in particolare, del MMG-medico curante, attribuendogli compiti impropri e ruoli propulsivi senza garantirne, tra l’altro, adeguata preparazione. 

Come si è già sopra sottolineato, questa ‘logica –illogica’ degli interventi politico-legislativi dimentica totalmente le attuali carenze del SSNN, che sono state aggravate dall’inadeguatezza di quelli operati ( o non operati) nel passato remoto e più recente, anche in relazione alla pandemia ormai in corso da oltre due anni ( in particolare, ma non soltanto, nei comparti della medicina e dell’assistenza territoriale nonché delle cure palliative ); ed ‘astrae’ ogni intervento normativo dalla sua effettiva ‘attualizzabilità’ e dalla concreta necessità- costituzionalmente dovuta- di garantire un percorso di effettiva vicinanza e di coinvolgimento nella cura della persona sofferente , limitandolo invece a simboliche etichette formali ( spesso mal redatte, contraddittorie e di mera propaganda ). Così non solo non può esser garantita “l’esigenza di coinvolgimento dell’interessato in un percorso di cure palliative”; ma si rischia di realizzare concretamente e moltiplicare, in settori essenziali e delicatissimi connessi alla sofferenza ed alla vulnerabilità umana, quello che la stessa sentenza 242/2019 definisce “il paradosso di non punire l’aiuto al suicidio senza aver prima assicurato l’effettività del diritto alle cure palliative”. 




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