Deboli, svantaggiati  -  Alceste Santuari  -  06/06/2022

La Riforma del Terzo settore rafforza il “modello 231” – d. lgs. nn. 112/2017 e 117/2017

L’adozione del “modello 231” rafforza la responsabilità amministrativa degli enti del terzo settore

“[…] Nell’indagine riguardante la configurabilità dell’illecito imputabile all’ente [anche non lucrativo], le condotte colpose dei soggetti responsabili della fattispecie criminosa (presupposto dell’illecito amministrativo) rilevano se riscontrabile la mancanza o l’inadeguatezza delle cautele predisposte per la prevenzione dei reati previsti dal d.lgs. n. 231/01” (cfr. Corte di Cassazione, Penale, sez. 4, 15 febbraio 2022, n. 18413).

Le carenze organizzative, in quanto atte a determinare le condizioni per le quali si verifica il reato presupposto, giustificano l’imputazione dell’illecito al soggetto collettivo, che potrà andare esimente se sarà in grado di dimostrare di aver adottato tutte le misure gestionali ed organizzative ed idonee a prevenire la commissione del reato presupposto.

E’ dunque il “modello 231”, set di procedure e controlli interni, che è finalizzato a rafforzare la protezione giuridica di quanti sono chiamati ad assumersi responsabilità amministrative e gestionali, le quali aumentano all’aumentare della complessità e della dimensione organizzativa degli enti.

Ma il “modello 231” si applica anche agli enti non lucrativi? La risposta è affermativa, in quanto le disposizioni contenute nel d.lgs. n. 231/2001 si applicano anche “agli enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica”. E’ di tuta evidenza che, dunque, nel novero degli enti giuridici cui si può applicare il “modello 231” rientrano le associazioni, riconosciute e non riconosciute, le fondazioni, nonché le cooperative sociali, in quanto società.

L’estensione delle disposizioni in materia di responsabilità amministrativa degli enti alle organizzazioni non profit è giustificata non soltanto dal tenore letterale della norma, ma anche dal fatto che il variegato mondo del non profit ricorre sempre più frequentemente all’esercizio di attività imprenditoriale che, nonostante il presunto carattere strumentale, diviene economicamente rilevante.

A ciò si aggiunga che, molto spesso, gli enti del terzo settore, collaborano con la P.A., assumendo responsabilità e obbligazioni, circostanza dalla quale, tra l’altro, può discendere la commissione di reati contro la pubblica amministrazione.

Da quanto sopra emerge, conseguentemente, l’applicabilità delle disposizioni contenute nel d. lgs. n. 231/2001 e, in parte, delle misure anticorruzione ex l. n. 190/2012 e di quelle in materia di trasparenza anche alle associazioni e alle fondazioni, nonché alle imprese sociali.

Muovendo dalla loro specifica mission, si può dunque ben comprendere perché il “modello 231” risulti compatibile e applicabile anche alle organizzazioni non profit. Le procedure ivi previste sono vieppiù funzionali soprattutto quando gli enti non profit presentano un’articolazione e una gestione interne complesse, nella quale è necessario – alla stregua di quanto accade nelle imprese tradizionali – individuare precisamente il sistema delle responsabilità e le procedure adeguate per assicurare un corretto funzionamento e un adeguato livello di accountability dell’associazione, fondazione o cooperativa sociale.

In quest’ottica, infatti, l’art. 4, comma 1, lett. g) della legge n. 106 del 2016, nel disciplinare gli obblighi di controllo interno e di accountability nei confronti dei diversi stakeholders della compagine organizzativa, ha previsto, tra gli altri, anche l’adozione del “modello 231”.

In ossequio alle previsioni della legge delega, l’art. 30, comma 6, d. lgs. n. 117/2017, recante “Codice del Terzo settore”, nonché l’art. 10, comma 2, d. lgs. n. 112/2017, recante “Revisione della disciplina in materia di impresa sociale” prevedono che l’organo di controllo interno agli enti del terzo settore, tra i propri compiti, vigili anche sull’osservanza del cd. “modello 231”. A riguardo di questa disposizione, si ritiene, tuttavia, che la funzione di vigilanza sul “modello 231” attribuita all’organo di controllo non debba presupporre la sostituzione di questo organo a quello previsto dal d. lgs. n. 231/2001. Si può verosimilmente ipotizzare che, in ossequio al principio e criterio direttivo impartito nella legge-delega n. 106/2016 riguardante la semplificazione organizzativa e burocratica degli Ets, il CTS abbia inteso, anche in funzione di semplificazione degli adempimenti in capo agli Ets, ridurre gli organi interni. Per contro, non si può sottacere, avuto riguardo alle competenze, responsabilità e funzioni che il d. lgs. n. 231/2001 attribuisce all’organismo di vigilanza, che l’organo di controllo finirebbe per essere investito di funzioni e attribuzioni che potrebbero rischiare di ingessarne e finanche di impedirne il regolare funzionamento. Al fine di evitare una simile sovraesposizione dell’organo di controllo, la previsione contenuta nell’art. 30, comma 6 CTS dovrebbe risultare coordinata con quanto disciplinato dal d. lgs. n. 231/2001 e che, in questi anni, è stato implementato nella prassi organizzativa. Si tratta della presenza all’interno dell’organismo di vigilanza, laddove in composizione collegiale, di un membro dell’organo di controllo ovvero della previsione, nel caso di composizione monocratica dell’organismo di vigilanza, di riunioni periodiche tra quest’ultimo organo e l’organo di controllo, il quale svolgerebbe, in questo modo, la propria attività di vigilanza sulle disposizioni di cui al d. lgs. n. 231/2001 così come previsto dall’art. 30, comma 6 CTS.

Il “Modello di organizzazione, gestione e controllo” presenta determinate caratteristiche essenziali, tali da permettere che, da una parte, il cosiddetto “esimente” della responsabilità dell’ente non profit ovvero della società possa essere addotto in caso di commissione dei reati; dall’altra parte, dette caratteristiche risultano funzionali all’implementazione stessa del modello organizzativo. A questo scopo, l’ente non profit è chiamato ad effettuare una mappatura dei rischi del contesto organizzativo, dei processi e delle prassi aziendali adottate. La mappatura risulta efficace al fine di evidenziare in quale area ovvero settore dell’attività e secondo quali modalità si possano verificare eventi che pregiudichino gli obiettivi indicati dal legislatore. Al termine della mappatura, che in una organizzazione non profit, in particolare, può rivelarsi efficace e utile per identificare con precisioni responsabilità e procedure che, spesso, non sono codificate, si procede alla stesura del sistema di controllo interno. Durante questa fase si analizzano la capacità del sistema di contrastare ovvero di ridurre efficacemente i rischi identificati, così da operare, se necessario, l’eventuale adeguamento del sistema medesimo. La costruzione del modello, che riveste una funzione preventiva e che si esplica nei confronti sia dei soggetti in posizione apicale sia nei confronti di quelli sottoposti all’altrui direzione, richiede di:    

  1. a) individuare le modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedire la commissione dei reati;
  2. b) individuare idonee attività di auditing sistematico e periodico, attraverso le quali monitorare le procedure e i processi delle diverse aree di responsabilità interne;
  3. c) definire un appropriato sistema disciplinare e sanzionatorio a carico del soggetto autore del reato che abbia agito eludendo fraudolentemente quanto disposto nel “modello 231”;
  4. d) la nomina dell’Organismo di vigilanza quale struttura collegiale ovvero monocratica cui affidare il monitoraggio e la verifica del funzionamento e dell’osservanza del “modello 231”.

L’esperienza maturata in questi anni dimostra che l’adozione del “modello 231” nelle organizzazioni non profit incaricate di erogare i servizi socio-sanitari può contribuire ad offrire un valido supporto agli organi di indirizzo e di amministrazione, in specie nel senso di rappresentare un atto di responsabilità sociale. Un supporto valido non soltanto per prevedere un efficace esimente, ma anche per rivedere le procedure e le modalità di assunzione delle decisioni e l’attribuzione delle responsabilità interne, con un conseguente innalzamento del livello di efficienza e di efficacia nel processo di erogazione dei servizi.

In un’ultima analisi, il “modello 231” negli enti del terzo settore dovrebbe servire a: i) rafforzare i sistemi di controllo interni; ii) incrementare l’accountability degli interventi e delle attività, sia nei confronti dei propri associati sia nei confronti delle pubbliche amministrazioni; iii) potenziare la reputazione degli enti.




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