-  Redazione P&D  -  25/07/2014

LA VERITA LE VERITA – Gianmichele FADDA

La verità è che i fratelli Karamazov sono quattro e non tre: Dmitrij, Ivan, Alëša e Smerdjakov. Si dirà, ma cosa c"entra il romanzo di Dostoevskij con l"ideale della verità? Il grande romanziere russo affronta il problema dei limiti dell"uomo nell"aspirazione all"assoluto nella ricerca della verità, della giustizia, creando appunto quattro personaggi la cui vita ruota intorno al tirannico padre. Il padre verrà ucciso ma chi è il parricida?

La verità processuale dirà il primogenito, Dmitrij, ma si tratta di una verità basata sulla vox populi, sul pregiudizio secondo cui, in realtà, l"abito fa il monaco; in altri termini si persegue il reo, non il fatto.

Invece, il lettore può dubitare che il colpevole sia in realtà Smerdjakov, il figlio illegittimo, per la semplice ragione che è l"ultimo ad essere rimasto con il padre ancora in vita, al contrario di quel che crede lo stesso Dmitrij.

Gli altri due fratelli incarnano due facce della stessa medaglia: l"aspirazione ad elevarsi al di sopra dell"umana finitezza, l"uno (Ivan) però guarda alla ragione terrena, è un materialista, l"altro (Alëša), è innocente perché è l"innocenza, la purezza, che gli deriva dalla fede in Dio che lo illumina.

Il fratello illegittimo è l"uomo-animale il quale obbedisce ai propri istinti bestiali (l"irrazionalità); il primogenito è l"uomo civilizzato schiavo però di falsi valori (il denaro, le convenzioni sociali); Ivan, come Alëša, sono intellettualmente superiori ma il fallimento del primo è conseguenza del suo materialismo, mentre la superiorità del secondo è merito del fatto che egli alza gli occhi al cielo "accogliendo Dio".

Quattro personaggi, quattro verità. Dove solo la verità intesa come rivelazione, svelamento, fede è l"unica che libera l"uomo dalle sue colpe. Gli altri, innocenti o colpevoli che siano, non riescono a conoscere la verità o perché la cercano nell"uso della ragione (Ivan), o perché la confondono con il comune sentire di tutti (Dmitrij), o perché se ne disinteressano del tutto (Smerdjakov).

L"idea che vi siano più verità, più livelli di conoscenza, è una costante della speculazione intellettuale ed è accreditata anche fra i giuristi. La cosiddetta "verità processuale" si rivela invero un comodo espediente per giustificare il fatto che non sempre l"esito di un processo è corretto, giusto, in ultima analisi non sempre la sua maieutica funziona. Esisterebbe dunque una verità relativa (per esempio, per Dostoevskij, la verità che può conoscere l"intellettuale è comunque fallace, ben diversamente da colui che, toccato dalla fede, abbraccia Dio) ed una verità assoluta irraggiungibile all"uomo proprio per la sua finitezza.

Non paghi, i giuristi accreditano anche l"idea che la verità processuale è diversificata a seconda dell"oggetto della sua indagine: una verità prossima alla certezza nel caso del processo penale secondo la regola dell"oltre ogni ragionevole dubbio, approssimata nel processo civile o amministrativo secondo il canone del più probabile che non.

Dunque il problema è duplice: se il processo tende alla ricerca della verità e quale debba essere il parametro per accertarla perché poi al processo altro non si chiede se non di applicare un giudizio di verità o falsità intorno ad un fatto.

La verità invece non è altro che un predicato della realtà. È il nome che si dà alle cose[1]. La verità è il verbo (non nel senso del "Verbo", cioè Dio), vale a dire l"enunciato sulla realtà: la congruenza fra dichiarazione sul fatto e il fatto stesso[2]. Non esistono dunque più verità ma esistono delle limitate possibilità di accertarla. Possibilità che scemano grandemente quando l"approccio epistemologico non è corretto.

Vi è da dire che, a seguito della riforma dell"art. 111 Cost., la convinzione secondo cui la verità che è lecito attendersi dal processo dipenda anche dall"oggetto della sua indagine (penale o civile) trova un solido argomento nell"affermazione per cui "nel processo penale la prova si forma nel contraddittorio delle parti": nel processo penale ma non negli altri riti. Il che comporta inevitabilmente che il rito accusatorio (ed il relativo approccio epistemologico) è costituzionalmente imposto soltanto per il rito penale.

Le conseguenze sono due: 1) la responsabilità penale merita una ricerca della verità più rigorosa che in ogni altro giudizio; 2) le verità mutano a seconda del rito applicato.

La stessa possibilità che vi sia un"alternativa possibile tra sistema accusatorio (riservato alla materia penale) e inquisitorio (anche se in letteratura si preferisce parlare di sistema misto) contiene in nuce l"idea della relatività dell"esito di un processo.

Ora, però, che il processo penale debba concludersi con un accertamento certo, e non probabilistico, è un convincimento che può giustificarsi soltanto se si ragiona in termini di fattispecie e non sui fenomeni. È chiaro allora che i beni meritevoli di tutela penale rappresentano i massimi valori di un ordinamento. Quando tuttavia si consideri che la fattispecie non è altro che un"astrazione del fatto, e che in ogni figura della realtà si perde qualcosa della realtà stessa, ben si comprende che la violazione di un diritto civile non è necessariamente meno lesivo rispetto all"aggressione di un bene che l"ordinamento ha elevato a tutela penale.

In altri termini, rispetto al quisque de populo l"ordinamento è un tutt"uno e ad esso si rivolge per aver una tutela piena e la più celere possibile. E quando si rivolge alla giustizia chiede all"autorità giudiziaria di applicare un giudizio di verità o falsità alla propria affermazione intorno a un fatto. Esemplificando dal punto di vista del cittadino tutelare la sua proprietà contro un"azione espropriativa illegittima di un istituto di credito ovvero il proprio diritto a che l"ente di riscossione non pignori la propria pensione in misura superiore al quinto, detratto il minimo per la sopravvivenza, significa difendere valori, per lui vitali non meno del bene vita stesso. Diritti dunque che meritano un"indagine, un accertamento dei presupposti di fatto richiesti dalla legge per il loro operare, non meno rigoroso di quello che lo Stato ritiene di dover accordare ad un imputato nell"accertamento di un fatto di reato.

Nella realtà, dunque, la gradazione dei valori in gioco non è possibile perché i valori, tradotti in diritti, appartengono all"uomo e questi vive nel mondo reale, non in quello ordinato dal diritto. Nel mondo reale le forme di aggressione alla sua persona, alla sua personalità ed ai suoi beni sono sempre nuove e mai completamente prefigurabili. Ed allora l"idea che un reato rappresenti una lacerazione del sistema e che la pena miri anche a ricucire quella lacerazione non è nulla di più che una metafora. Agli occhi della vittima di un reato, invece, la ferita incide la propria carne viva, entra nel proprio intimo, nondimeno la lesione dei diritti del lavoratore, la perdita dell"abitazione di famiglia, l"inadempimento dei doveri genitoriali verso un figlio, rappresentano tutte lacerazioni non ricucibili per la persona che le subisce.

Ora, se questa tutela è raggiunta nel processo ed il processo è lo strumento attraverso il quale il sistema giuridico cerca di far sì che il mondo reale si adegui al mondo del dover essere, qual è l"ordinamento, allora è evidente che non hanno alcuna dignità gnoseologica le moltiplicazioni inutili del concetto di verità.

Il predicato di vero o falso sul fatto oggetto del processo potrà essere verificato alla luce della regola bard o del più probabile che non, ma un conto è lo standard di accertamento altra questione è la formazione della prova. Un conto è richiedere che, per privare della libertà una persona, la verità processuale sia affermata oltre ogni ragionevole dubbio, altro è affermare che il Giudice possa elevare a rango di prova in un processo ciò che prova non è in un altro contesto processuale. L"uomo della strada non può capire siffatto bizantinismo ed anche la logica lo rifiuta.

La somministrazione della giustizia è ben più di un servizio, è un rito liturgico, la cui credibilità riposa nell"autorevolezza delle proprie decisioni. Non basta a sorreggere la decisione del giudice l"autorità sovrana del potere che esercita. E allora, può mutare il parametro richiesto per l"accertamento della verità ma non la dialettica processuale che ne assicura la capacità maieutica perché la persona deduce nel processo, in qualsiasi processo, il proprio vissuto, i fatti che lo hanno coinvolto, e anela ad un giudizio che dica se sono veri o no i fatti su cui fonda la propria pretesa. Quand"anche l"esito sia per lui sfavorevole è di vitale importanza che tale esito gli appaia ragionevole, convincente, in altri termini che lo iato fra la verità del processo e la verità materiale sulla realtà oggetto del processo sia stato limato sino ad essere praticamente impercettibile.

Non è possibile dunque accreditare l"idea che esistono più verità, perché la persona che domanda giustizia conosce una sola verità e su quella chiede una risposta chiara non razionalmente falsificabile. La verità è unica e sempre vi deve tendere il processo, qualsiasi processo. L"idea che esiste una "verità processuale" diversa dalla verità materiale inficia la funzione del processo non colmando più la distanza tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere.

Come diceva Croce: tutto è nella storia. Valga allora l"idea della giustizia presso le società barbare post disfacimento dell"impero romano.

La giustizia presso i germani è una faccenda privata che riguarda il singolo o i suoi familiari, ma non tocca la comunità. Essa perciò si risolve nella faida o vendetta, cioè in un privato regolamento di conti fra l"offeso e l"offensore. Ciò non vuol dire che la faida sia l"unica soluzione possibile per riparare ad un offesa; anzi, via via che i germani passano a forme di vita associata, più evolute, alla faida si sostituisce il guidrigildo, cioè il risarcimento del danno, la composizione in denaro, accettata dalle due parti, su giudizio dei sacerdoti. Quando mancano prove sicure di colpevolezza a carico dell"uno o dell"altro dei contendenti, si ricorre a duello o giudizio di Dio o ad altre prove, quali il passare attraverso le fiamme o l"immergere il braccio nell"acqua bollente: nella barbara convinzione che dio favorisca l"innocente e in tal modo denunzi il colpevole. (Desideri Antonio, Storia e storiografia, Ed. Dell"Anna, p. 23)

La giustizia in una società civilizzata, fondata sulla ragione e non su superstizioni o false convinzioni, che si ammantano di plausibilità, non è questione fra privati, non può essere dunque privatizzata, lasciata alla faida o al mero accordo economico (o alla mediazione professionale). La ragione o il torto non possono essere dichiarati attraverso un giudizio divino o per il tramite di una "convenzione sui fatti fra i contendenti".

È necessario che la verità, il predicato sul fatto, emerga perché gli obblighi e i diritti che ne derivano siano sanciti all"esito di un dibattito che stringa ai fatti attraverso il confronto, anche aspro, ma il cui esito sia ritenuto credibile dalla comunità, e quindi autorevole e perciò condivisibile in modo che i comportamenti si conformino al diritto sempre più spontaneamente.

Al contrario in giurisprudenza si leggono obiter di tal guisa " [il processo del lavoro] pur non attuando un sistema inquisitorio puro, tende a contemperare, in considerazione della particolare natura dei rapporti controversi, il principio dispositivo - che obbedisce alla regola formale del giudizio fondata sull'onere della prova - con quello della ricerca della verità materiale", dove la verità materiale è quella che attiene al rapporto di corrispondenza fra i fatti così come realmente accaduti e l"affermazione su di essi mentre la verità processuale è il rapporto fra i fatti che si possono acquisire al processo ed la decisione del giudice.

Al giudice del lavoro si riconosce dunque il diritto-dovere di ricercare la verità eventualmente anche oltre le allegazioni delle parti, diversamente da quanto avviene nell"ordinario giudizio civile.

Peccato però che i padri del diritto processuale (Chiovenda, Carnelluti, Calamandrei etc.) immaginavano un processo retto dall"oralità, dall"immediatezza, dalla concentrazione. Principi tutti ritenuti perfettamente compatibili con il principio dispositivo perché ben può essere onere delle parti l"indicazione dei fatti su cui si fonda il diritto che si vuol far valere, come pure le prove a sostegno dei fatti dedotti, ma ciò non significa che poi il Giudice debba appiattirsi alla lettura dei verbali di causa, peraltro non più stesi dal Cancelliere alla presenza del Giudice Istruttore, ma dagli avvocati stessi, oramai esperti incartatori di prove testimoniali.

Non è dunque corretto contrapporre il principio dispositivo alla verità materiale. Il problema è che la stessa attività di raccolta delle prove, in un sistema efficace sul piano epistemologico, dovrebbe precedere il processo nel cui dibattimento dette prove, raccolte dalle parti, dovrebbero poi essere esaminate. Anzi la dialettica processuale funziona meglio in un giudizio in cui tutte le parti sono tenute ad affermare il vero, dovendone raggiungere la prova, rispetto al processo penale in cui l"imputato non ha oneri di prova e non è tenuta a dire il vero.

Va detto che neppure nella patria per eccellenza del rito accusatorio la comunità riconosce valore euristico incondizionato al processo ma ciò avviene perché, agli occhi dell"uomo comune, può accadere che gli avvocati (parte pubblica o privata che sia) mistificano la verità, che le ragioni della contesa siano travolte dalla contesa stessa. Tuttavia, nessuno dubita che il processo, inteso come confronto fra accusatore e accusato, debba portare alla luce la verità. Così come nessuno dubita dell"idea che affermare il vero sia un dovere sacro la cui violazione comporta il biasimo in ogni contesto sociale: in famiglia, fra gli amici, a livello istituzionale, e persino nel processo penale dove esiste la cd confession of vultnerability (le giurie, infatti, essendo cooptate, non amano che l"accusato si sottragga al processo evitando il confronto con il proprio accusatore, motivo per cui si va a dibattimento quando si vuole sostenere la propria innocenza benché non debba essere provata). Nella cultura anglosassone, peraltro, la verità è concepita come un sacro dovere della persona che non può ritenersi responsabile, e quindi meritevole di accampare diritti, se prima non assolve ai suoi doveri, in primis l"essere corretto e dire il vero.

Resta però che la famosa decisione della Suprema Corte americana (In Re Daubert) dove si fissano i criteri cui il Giudice deve attenersi nell"utilizzo delle conoscenze scientifiche è pronunciata a definizione di una controversia civile e non penale. In altri termini, se le leggi scientifiche sono leggi esplicative della realtà, ed il ricorso ad esse si rivela necessario per esprimere un giudizio di verità o falsità intorno ad un fatto, il loro impiego non può essere diverso a seconda della legge giuridica che si vuol applicare. Non solo, proprio in quella decisione si chiarisce come il ricorso alle scienze non è acritico ma sarà l"ascolto del perito, quale testimone (non diversamente dalla parte, almeno nei giudizi civili), a consentire il tentativo di falsificazione della teoria scientifica offerta a supporto di una certa tesi. Allora, l"esito del processo non può essere "relativo", ma dovrà essere razionale, convincente senza per questo richiedere un convincimento oltre ogni ragionevole dubbio confinato all"ambito penale.

Sull"approccio ad una verità "intuitiva", liberamente formatasi nella testa del giudice, e quindi con il rischio di essere, alla fin fine, arbitraria, soggettiva o peggio capricciosa valga quanto fa dire ai suoi personaggi Leonardo Sciascia nel breve romanzo "Una storia semplice". Sono a confronto un anziano professore ed il Giudice Istruttore, ex allievo tronfio del suo titolo di magistrato nonostante i tre in italiano collezionati sui banchi di scuola. Il magistrato chiede al professore come mai una volta invece che il solito tre gli tributava un quattro. La risposta è che in quell"occasione il futuro magistrato aveva copiato meglio, precisando però "vede, l"italiano non è "l"italiano" (una materia come un"altra), l"italiano è il ragionare". Si potrebbe dire che anche il diritto è ragionare, ed il ragionare è frutto di un metodo.



[1] «rem tene, verba sequentur»

[2] «nomina sunt conseguentia rerum».




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