Pubblica amministrazione  -  Federico Basso  -  20/02/2023

L’art. 21-octies, comma 2, l. 241/1990, tra questioni irrisolte e problematiche applicative

SOMMARIO: 1. Introduzione – 2. L’art. 21-octies, c.2, primo periodo – 3. L’art. 21-octies, c.2, secondo periodo – 4. Le varie tesi sull’inquadramento dell’art. 21-octies, c. 2 e le ricadute applicative. – 5. Conclusioni

 

  1. Introduzione

Ad ormai quasi diciotto anni dalla sua introduzione, l’art. 21-octies, comma 2 della legge 241/1990 continua a porre delicate questioni interpretative e a sollecitare un interessante dibattito dottrinale e giurisprudenziale, foriero di rilevanti ricadute pratiche.

Come noto, l’art. 21-octies, comma 2 venne introdotto dalla legge 15/2005 al fine di recepire la precedente elaborazione giurisprudenziale volta ad evitare esiti demolitori in presenza di vizi formali o procedimentali inidonei ad incidere sul contenuto concreto del provvedimento impugnato.

La norma, invero, costituì espressione di quella tendenza, manifestatasi all’indomani dell’approvazione della legge sul procedimento amministrativo e ancora certamente sentita dal legislatore, tesa a sminuire le conseguenze derivanti dalla violazione di regole formali e procedimentali che, pur comportando un vizio del provvedimento, tuttavia, non ne mutino nella sostanza il contenuto precettivo; e ciò al fine di semplificare e velocizzare l’attività amministrativa, evitando di imbrigliarla in uno sterile formalismo, foriero di un elevato, dannoso e -soprattutto- inutile contenzioso giudiziario.

La ratio della norma va, dunque, rinvenuta in un’esigenza di economia dei mezzi giuridici, processuali e procedimentali, giacché l’annullamento di un provvedimento affetto da vizi formali o procedurali inidonei ad incidere sul suo contenuto sostanziale non apporterebbe alcuna utilità al ricorrente, in quanto l’Amministrazione ben potrebbe nel riesercizio del potere adottare un successivo atto emendato da quel vizio, ma perfettamente identico, quanto al contenuto, al precedente. Ben si comprende, quindi, l’utilità di tale disposizione, rinvenibile nella necessità di evitare un vano dispendio di attività processuale e procedimentale per raggiungere un risultato che sul piano sostanziale non avvantaggerebbe in alcun modo il ricorrente. Ed è appena il caso di sottolineare come da tale previsione possa evincersi anche un’ulteriore importante conseguenza sul piano sistematico, ovverosia la progressiva trasformazione del processo amministrativo da giudizio sull’atto a giudizio sul rapporto intercorrente tra P.A. e cittadino.

Orbene, così analizzate le esigenze e le ragioni sottese all’art. 21-octies, comma 2, può, dunque, procedersi ad una più approfondita disamina del medesimo.

 

  1. L’art. 21-octies, c.2, primo periodo

Il primo periodo della disposizione in esame sancisce che non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Più precisamente, l’operatività del meccanismo appena descritto è subordinata alla presenza di tre condizioni: a) che il provvedimento sia affetto da un vizio formale o procedurale, b) che si verta in un’ipotesi di attività vincolata e c) che risulti palese che il contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello effettivamente adottato.

Ciò premesso in via generale, occorre ora soffermarsi sull’analisi dei singoli presupposti appena descritti. Con riguardo alla prima condizione ci si domanda se nell’ambito dei vizi formali o procedimentali posano essere annoverati la carenza di motivazione e il vizio di incompetenza.

In riferimento al primo vizio, sono ravvisabili in dottrina e in giurisprudenza due orientamenti.

Secondo un primo orientamento, sostenuto anche dalla Corte Costituzionale, il difetto di motivazione non potrebbe ritenersi un vizio formale ex art. 21-octies, c.2, giacché:

  1. il processo amministrativo si atteggerebbe ancora, in via prevalente, quale giudizio sull’atto, e non sul rapporto, con la conseguenza per cui, in presenza di una violazione di legge, quale il difetto di motivazione, il giudice non potrebbe far altro che annullare l’atto impugnato;
  2. l’obbligo di motivazione costituisce un presidio di legalità sostanziale dell’agire della P.A., nonché una delle maggiori novità introdotte dalla legge 241/1990: ammettere la dequotazione del difetto di motivazione a vizio puramente formale significherebbe non solo minare le garanzie procedimentali sancite dal legislatore a favore del cittadino, ma anche sminuire le innovazioni apportate dalla legge sul procedimento amministrativo, con conseguente violazione dei principi costituzionali di cui all’art. 97 Cost.

Pur condividendo le istanze garantistiche sottese a tale impostazione, ma valorizzando la progressiva evoluzione del processo amministrativo da giudizio sull’atto a giudizio sul rapporto, altra parte della dottrina ha, tuttavia, osservato come anche il difetto di motivazione possa essere considerato un vizio formale in presenza di attività vincolata e qualora il contenuto del provvedimento non possa essere diverso da quello in concreto adottato. Risulta evidente, infatti, come, in assenza di discrezionalità, non essendo ipotizzabile alcun sindacato sulla motivazione circa scelte operate dall’Amministrazione, l’annullamento per difetto di motivazione di un provvedimento sostanzialmente corretto non può apportare alcuna utilità al ricorrente, per il quale risulta indifferente la sussistenza o meno di tale elemento.

Alla luce di tali considerazioni la predetta dottrina ha, conseguentemente, ammesso la possibilità per la P.A. di integrare in giudizio, ex post, la motivazione; e ciò anche in ragione della possibilità per il ricorrente di impugnare con i motivi aggiunti l’eventuale motivazione sopravvenuta, nonché in ragione del principio di concentrazione e di effettività della tutela sancito dall’art. 7, c.7 c.p.a., il quale impone che, ove possibile, tutte le censure relative allo stesso atto impugnato debbano svolgersi nel medesimo giudizio.

Analoghe perplessità sono sorte in relazione al vizio di incompetenza (relativa), giacché parte della dottrina e della giurisprudenza ha ritenuto che la mancanza di legittimazione dell’organo incompetente ad adottare l’atto impugnato impedisca di qualificare il vizio de quo come meramente formale.

Da parte di altri si è, invece, sottolineato come, essendo l’incompetenza una species del vizio di violazione di legge, nulla osterebbe in astratto a che la medesima possa essere considerata come un vizio formale. Inoltre, si osserva come, in presenza di attività vincolata e di un provvedimento sostanzialmente legittimo, poco cambierebbe per il ricorrente se ad adottare l’atto fosse un certo organo piuttosto che un altro, pur comunque appartenente allo stesso plesso organizzativo.

Così esaminate le principali questioni relative alla nozione di vizi formali e procedurali, occorre ora analizzare più a fondo il secondo presupposto della norma in esame, ovverosia la sussistenza di attività vincolata.

Come sottolineato dalla dottrina (R. Giovagnoli, Compendio di diritto amministrativo, Torino, 2022, II edizione, 489), la ratio di tale requisito va ravvisata nell’esigenza di garantire la separazione dei poteri, non potendosi il giudice amministrativo sostituire all’Amministrazione nell’effettuazione di scelte discrezionali ad essa riservate.

Parimenti, anche l’interpretazione di tale requisito risulta controversa in dottrina, in quanto, secondo una prima tesi, dovrebbe considerarsi “attività vincolata” ai fini della disposizione in esame solo quella originariamente prevista come tale dalla legge.

Secondo altri, invece, la nozione di attività vincolata ex art. 21-octies, c. 2 potrebbe ricomprendere anche le ipotesi di c.d. autovincolo e di c.d. vincolo in seguito a procedimento, il primo ravvisabile allorquando sia la stessa P.A. a porre dei vincoli alla propria attività, il secondo allorquando i margini discrezionalità riconosciuti ab origine all’Amministrazione si consumino nel corso del procedimento. In particolare, secondo questa impostazione, dovrebbe riconoscersi al giudice la possibilità di valutare in giudizio se, pur a fronte di un’attività inizialmente discrezionale, al termine del procedimento non residui più alcun margine di scelta nell’esercizio del potere.

Ciò detto in relazione alla nozione di “attività vincolata”, rimane ora da esaminare più a fondo l’ultimo requisito previsto dall’art. 21-octies, c.2, ovverosia la “palese” irrilevanza del vizio formale o procedurale in relazione al contenuto dispositivo del provvedimento in concreto adottato. Come ben evidenziato dalla dottrina (R. Giovagnoli, Compendio di diritto amministrativo, Torino, 2022, II edizione, 489), anche tale presupposto risponde ad una specifica ratio, consistente nell’esigenza di economia delle risorse processuali, le quali non possono essere impiegate per l’accertamento di fatti e situazioni che, normalmente, dovrebbero formare oggetto di esame dell’istruttoria procedimentale. Tale requisito, in altri termini, risponde ad un’esigenza di “liquidità”, ossia di pronto accertamento, che l’irrilevanza del vizio formale o procedurale deve necessariamente presentare in relazione al contenuto dispositivo del provvedimento in concreto adottato. In tal modo il giudice può immediatamente comprendere se sussista o meno un nesso di consequenzialità tra vizio formale o procedurale ed effettivo contenuto precettivo del provvedimento emanato dalla P.A.; qualora non emerga ictu oculi tale irrilevanza, il giudice amministrativo dovrà necessariamente annullare il provvedimento impugnato, anche se, per ipotesi, nel caso concreto, il vizio da cui è affetto l’atto non abbia effettivamente inciso sul suo contenuto finale.

Dall’analisi appena svolta, emerge, dunque, una perfetta armonia del sistema, il quale, nel delineare agli artt. 31, c.3 e 34, lett. c) c.p.a. le condizioni affinché il G.A. possa pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa, riproduce esattamente quelle previste dall’art. 21-octies, c.2, primo periodo. Invero, i due requisiti della natura vincolata dell’attività (sussistente anche ove non residuino ulteriori margini di esercizio della discrezionalità) e della non occorrenza di ulteriori adempimenti istruttori rispondono alle medesime ragioni sottese a quelli di cui all’art. 21-octies, c.2, primo periodo, ossia il rispetto, da un alto, del principio di separazione dei poteri, e, dall’altro, di quello di economia delle risorse processuali.

Ad uno sguardo più attento, inoltre, l’illustrata coesione del sistema pare essere, altresì, simmetrica, posto che, se nell’art. 21-octies, c.2, primo periodo, la sussistenza delle condizioni precedentemente elencate porta al rigetto della domanda, quale conseguenza della non annullabilità del provvedimento, nelle disposizioni concernenti la c.d. condanna pubblicistica, invece, la stessa situazione porta ad un accoglimento del ricorso, unitamente ad una pronuncia sulla fondatezza della pretesa del privato.

In conclusione, pare opportuno sottolineare come dall’analisi parallela delle predette norme possano, altresì, trarsi argomenti a favore della tesi che interpreta l’espressione “attività vincolata” di cui all’art. 21-octies, c. 2, primo periodo, come riferita anche alle ipotesi di autovincolo e di vincolo in seguito a procedimento: è agevole notare, infatti, come l’art. 31, c.3 c.p.a. menzioni espressamente tali fenomeni, laddove compare il riferimento all’inesistenza di “margini residui di discrezionalità”. Invero, la ratio di tale presupposto è quella di garantire il rispetto della separazione dei poteri, così come avviene nel caso dell’art. 21-octies, c.2, primo periodo, mediante l’utilizzo del sintagma “natura vincolata del provvedimento”. Ora, se la ragione giustificatrice delle due disposizioni è la medesima e se, parimenti, la statuizione del G.A. sulla fondatezza della pretesa nei casi di c.d. riduzione a zero della discrezionalità risulta rispettosa del principio costituzionale di separazione dei poteri, non si vede come non si possa interpretare l’art. 21-octies, c.2, primo periodo, nel senso di ricomprendere nel concetto di “attività vincolata” anche i casi di autovincolo e di vincolo in seguito a procedimento, con un conseguente allargamento dello spettro applicativo della predetta norma, in ossequio alle sempre maggiori istanze di un giudizio amministrativo incentrato sul rapporto, nonché di risparmio delle risorse pubbliche.

 

  1. L’art. 21-octies, c.2, secondo periodo

Il secondo periodo della disposizione in esame prevede, invece, che non è annullabile il provvedimento adottato senza il preventivo invio della comunicazione di avvio del procedimento, qualora l’Amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. I presupposti di operatività della norma sono, dunque, ben diversi da quelli del primo periodo, giacché: a) il provvedimento deve essere affetto da uno specifico vizio, ossia la mancata comunicazione di avvio del procedimento, b) non vi è alcun riferimento all’attività vincolata, dal che la dottrina maggioritaria ne deduce l’applicabilità anche all’attività discrezionale, c) l’Amministrazione risulta gravata di uno specifico onere probatorio, ovverosia la dimostrazione che, nonostante il mancato invio della comunicazione di avvio del procedimento e nonostante la mancata partecipazione dei destinatari della predetta comunicazione, il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

Proprio in riferimento a tale ultimo presupposto è sorta in giurisprudenza e in dottrina la questione relativa all’effettivo riparto di tale onere, nel senso che ci si è chiesti se l’Amministrazione sia gravata o meno di dimostrare quali sarebbero sarebbe state le osservazioni che il privato avrebbe presentato nel procedimento, qualora fosse stato posto nelle condizioni di partecipare.

Secondo una prima impostazione, facente leva sul dato letterale della norma, l’Amministrazione sarebbe onerata di dimostrare sia quali sarebbero state le deduzioni del privato, sia l’irrilevanza delle stesse in relazione al contenuto finale del provvedimento.

A tale visione si è obiettato, tuttavia, come, di fatto, ciò farebbe gravare sull’ente pubblico una probatio, diabolica, poiché risulta evidente come sia estremamente difficile – se non impossibile- per quest’ultimo provare quali osservazioni il privato avrebbe presentato, qualora fosse stato posto nelle condizioni di partecipare.

Ecco, allora, che altra parte della dottrina e della giurisprudenza sostiene che la lettera della norma andrebbe intesa nel senso di ritenere che in capo al privato debba gravare, quantomeno, l’onere di allegazione delle deduzioni, mentre in capo all’Amministrazione debba gravare quello di provare che tali osservazioni non avrebbero comunque influito sul contenuto precettivo del provvedimento finale.

Nonostante, come sottolineato dalla dottrina, tale ultima interpretazione paia essere più conforme ai canoni della ragionevolezza e del giusto processo, il dibattito è ancora aperto tra gli studiosi.

Al di là di tali questioni, sempre in riferimento all’ambito di applicabilità della disposizione in esame occorre, ora, indagare se siano rinvenibili ipotesi -esplicite o implicite- di esclusione della sua operatività.

Una prima ipotesi è rinvenibile nello stesso art. 21-octies, c. 2, per come novellato dal d.l. 76/2020 (c.d. Decreto Semplificazioni) il quale, nell’aggiungere un terzo periodo alla disposizione de qua, ha precisato che essa non si applica ai provvedimenti adottati in violazione dell’art. 10-bis. La citata modifica normativa è intervenuta al fine di sopire un contrasto giurisprudenziale ingeneratosi tra coloro che sostenevano l’applicazione analogica della norma in esame anche al preavviso di rigetto, stanti le affinità di funzione con la comunicazione di avvio del procedimento, e coloro che, invece, interpretandola in maniera restrittiva, escludevano tale possibilità.

Risolto, ormai, per tabulas tale contrasto, occorre ora soffermarsi su un’ulteriore causa di esclusione ricavata in via interpretativa da una parte della dottrina. Secondo alcuni Autori, infatti, (cfr., ad es. M. Immordino, I provvedimenti amministrativi di secondo grado, in Diritto Amministrativo, a cura di F. G. Scoca, Torino, 2022, 2015) l’art. 21-octies, c.2, secondo periodo, non sarebbe applicabile ai procedimenti di autotutela, poiché in tal caso la partecipazione del privato sarebbe essenziale ai fini della valutazione dell’affidamento da questi riposto nella stabilità del provvedimento, valutazione che, come noto, la P.A. ha l’obbligo di compiere ogni qualvolta agisca in autotutela.

 

  1. Le varie tesi sull’inquadramento dell’art. 21-octies, c. 2 e le ricadute applicative.

Ora, così esaminato l’ambito di applicabilità della norma in esame, pare opportuno soffermarsi su alcune questioni problematiche di carattere generale.

In particolare occorre chiedersi, in prima battuta, come possa essere qualificato il provvedimento, pur corretto nella sostanza, ma affetto da vizi non invalidanti; in seconda battuta occorre poi indagare se la norma de qua abbia natura processuale ovvero sostanziale, al fine di comprendere: a) se al privato possa spettare la tutela risarcitoria; b) se l’art. 21-octies, c. 2 sia compatibile con il dettato costituzionale; c) quale pronuncia debba adottare il giudice qualora decida di non annullare il provvedimento ai sensi del medesimo articolo.

Con riguardo alla prima questione, parte della dottrina considera irregolare il provvedimento viziato ex art. 21-octies, c.2, ossia difforme dallo schema legale, ma non affetto da vizi tali da determinarne l’invalidità (così come avviene, ad esempio, per il provvedimento mancante della c.d. clausola di tutela ex art. 3, c. 4, l. 241/1990).

A questa visione si è, tuttavia, obiettato come l’art. 21-octies richieda che il provvedimento sia effettivamente invalido, e non meramente irregolare; inoltre, l’irregolarità è categoria che va valutata ex ante e in astratto, non ex post (in giudizio) e in concreto, come, invece, avviene nella fattispecie in esame.

Ecco, allora, che altra parte della dottrina ha proposto di far ricorso al principio processualcivilistico del raggiungimento dello scopo di cui all’art. 156, c. 3 c.p.c.: invero, secondo questa visione, il provvedimento affetto da vizi non invalidanti dovrebbe ritenersi non annullabile, in quanto, pur viziato, avrebbe comunque raggiunto il suo scopo.

Anche tale impostazione è stata, però, criticata, poiché si è osservato come, nelle fattispecie prese in considerazione dall’art. 21-octies, c. 2, lo scopo della norma violata non possa dirsi mai raggiunto, non contemplando il predetto articolo il compimento di alcun atto idoneo a sanare l’avvenuta infrazione delle regole procedimentali (ad es. l’avvenuta conoscenza del privato della pendenza del procedimento in ragione di un atto informale inviato dall’Amministrazione). In altri termini, raggiungimento dello scopo e correttezza sostanziale del provvedimento si pongono su due piani diversi: nel caso di vizio non invalidante il provvedimento non viene annullato perché ha raggiunto lo scopo, ma perché il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

Sulla scorta di tali considerazioni, la dottrina maggioritaria ha preferito, allora, aderire alla tesi della sanatoria (o della convalida): più precisamente, secondo tale visione, la sanatoria opererebbe in giudizio allorquando il giudice accerti che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato: proprio tale ultima caratteristica costituirebbe il meccanismo alla base della convalida in esame, dal cui accertamento il giudice non potrebbe prescindere ai fini della dichiarazione di non annullabilità del provvedimento.

Così illustrate le varie tesi circa la corretta qualificazione del provvedimento affetto dai c.d. vizi non invalidanti, abbisogna ora esaminare la questione -pur connessa alle problematiche appena analizzate- riguardante la natura (sostanziale o processuale) della norma in esame.

Secondo una prima tesi, infatti, l’art. 21-octies, c.2 avrebbe natura meramente processuale: il provvedimento rimarrebbe viziato sul piano sostanziale, ma il giudice non potrebbe annullarlo. Tale tesi rinverrebbe i suoi fondamenti: a) nel dato letterale dell’art. 21-octies, c.2, il quale prevede espressamente che il provvedimento “non è annullabile” e b) nella carenza di interesse ad agire in capo al ricorrente, giacché dall’annullamento del provvedimento impugnato egli non trarrebbe alcun vantaggio sul piano sostanziale, ben potendo l’Amministrazione adottare un nuovo provvedimento identico nel contenuto, ma emendato del vizio formale da cui il precedente era affetto.

Altra parte della dottrina ha, però, osservato come l’art. 21-nonies, c. 1 sembri smentire tale ricostruzione: la predetta norma, invero, nell’escludere dall’ambito applicativo dell’annullamento d’ufficio i provvedimenti viziati ex art. 21-octies, c.2 sembra ammettere che tali atti debbano considerarsi validi sul piano sostanziale; in caso contrario, infatti, non si vede perché l’Amministrazione non possa annullarli d’ufficio, qualora ricorrano le condizioni di cui all’art. 21-nonies, c.1.

Dunque, secondo tale visione, l’art. 21-octies, c.2 avrebbe natura sostanziale, come confermato, peraltro, anche dalla collocazione sistematica della norma de qua, la quale, essendo inserita nella legge sul procedimento amministrativo, non potrebbe che operare su un piano sostanziale.

Come già anticipato, la soluzione della predetta problematica ha notevoli ripercussioni anche sul piano applicativo.

Invero, dall’accoglimento della prima o della seconda tesi dipende l’esistenza in capo al privato di un diritto al risarcimento, poiché, se si ritiene che il provvedimento sia invalido, ma non annullabile, allora potrebbe ammettersi la sussistenza di un danno derivante dall’illegittimità del medesimo; viceversa, qualora si ritenga che il provvedimento sia legittimo già sul piano sostanziale, allora sarebbe preclusa qualsiasi tutela risarcitoria.

In dottrina (R. Chieppa – R. Giovagnoli, Manuale di diritto amministrativo, Torino, 2021, VI edizione, 707) si osserva, tuttavia, come -anche a voler accogliere la tesi processuale- sia difficile riconoscere in capo al privato un diritto al risarcimento, se non in casi eccezionali, posto che nella fattispecie in esame l’azione dell’Amministrazione risulta corretta sul piano sostanziale, con conseguenti rilevanti difficoltà ad ammettere l’esistenza di un danno risarcibile.

Orbene, così esaminate le ricadute sul piano risarcitorio, occorre ora dar conto dei dubbi di costituzionalità sollevati da una parte della dottrina concernenti la norma in esame.

I sostenitori della tesi sostanzialistica hanno osservato, in particolare, come, a ritenere valido il provvedimento anche sul piano sostanziale, le violazioni di legge ex art. 21-octies rimarrebbero prive di qualsiasi sanzione, anche risarcitoria, con conseguente violazione del diritto di azione sancito dagli artt. 24, 103 e 113 Cost. Si è sottolineato, inoltre, come la mancanza di qualsiasi sanzione per la P.A. che abbia violato regole formali o procedimentali potrebbe indurre quest’ultima a non rispettare le prescrizioni contenute nella legge 241/1990, in palese contrasto con i principi costituzionali di imparzialità e buon andamento (art. 97 Cost.)

Altra dottrina, invece, ha superato tali dubbi di costituzionalità facendo ricorso al disposto dell’art. 113 Cost., il quale, come noto, non ha costituzionalizzato il potere di annullamento in capo al G.A., con la conseguenza per cui sarebbero costituzionalmente legittime forme di tutela nei confronti degli atti della P.A. che prescindano dall’annullamento dell’atto impugnato.

Ciò detto in relazione ai supposti profili di incostituzionalità della norma, occorre ora esaminare l’ultima questione cui si accennava, ovverosia la tipologia di pronuncia che il giudice deve adottare allorquando ritenga di non annullare il provvedimento ex art. 21-octies, comma 2; problematica questa che necessariamente risente della qualificazione della diposizione in esame quale norma processuale o sostanziale.

Invero, qualora si reputi che la medesima abbia natura processuale, il giudice dovrà pronunciare l’inammissibilità del ricorso per carenza di interesse ad agire.

Qualora, invece, si opti per la tesi sostanzialistica, allora il giudice dovrà rigettare il ricorso, stante la validità sul piano sostanziale del provvedimento impugnato, e, di conseguenza, l’infondatezza della pretesa del ricorrente.

 

  1. Conclusioni

Come si è cercato di illustrare in tale breve disamina, pur a distanza di diversi anni dall’introduzione dell’art. 21-octies, comma 2, numerose questioni interpretative travagliano ancora l’esegesi di tale norma. L’esistenza di tali problematiche pare essere dettata, invero, dalla formulazione assai poco chiara della disposizione, la quale, stante la sua importanza sistematica, avrebbe, invece, richiesto una maggiore attenzione del legislatore al momento della sua stesura.

Le predette incertezze applicative, tuttavia, non paiono imputabili solamente ad una carenza di linearità del testo normativo, ma anche alle diverse concezioni che animano la giurisprudenza circa il ruolo da riconoscere al processo amministrativo, essendo incerto se il medesimo debba ritenersi ancora ancorato ad un modello di giudizio sull’atto, ovvero se possa ormai definirsi come un giudizio sul rapporto.

Parimenti, i dubbi sull’effettiva portata delle garanzie e delle innovazioni introdotte dalla legge sul procedimento amministrativo contribuiscono certamente ad aumentare le criticità interpretative della disposizione in esame, la quale, lungi dal poter rinvenire in tempi brevi soluzioni certe ai problemi precedentemente illustrati, è destinata ancora per lungo tempo ad essere oggetto di un intenso e appassionato dibattito dottrinale e giurisprudenziale.




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