-  Redazione P&D  -  08/02/2010

LE NUOVE REGOLE SULL'ISCRIZIONE ANAGRAFICA DEI SENZA FISSA DIMORA – Paolo MOROZZO DELLA ROCCA

Ma cosa vuol dire «senza fissa dimora»? Questa domanda, pur essendo fondamentale, sembra oggi ricevere risposte tanto scontate quanto inesatte, che segnano il punto di arrivo di un processo di fraintendimento del significato originario della definizione normativa. È infatti accaduto, con questo breve sintagma, quello che spesso accade allo svogliato studente di una lingua straniera quando incontra una espressione così familiare alla propria lingua da presumerne subito, con illusoria sicurezza, il significato, salvo poi scoprire che il «burro» spagnolo non è esattamente ciò che a Bolzano si spalma sulla fetta di pane.
«Senza fissa dimora», nel linguaggio tecnicizzato del legislatore anagrafico [che conferisce al termine un’accezione diversa da quella attribuitagli da altre scienze sociali (1)], è colui che, non fermandosi mai a lungo in uno stesso luogo e non avendo dunque un progetto di residenzialità in alcuno dei comuni italiani, nè in una località straniera (almeno per i cittadini italianiche si trovino all’estero), non possiede i requisiti per essere considerato, in senso stretto, residente in alcun luogo e necessita dunque di un trattamento giuridico differenziato che consiste, appunto, nel fare coincidere la residenza anagrafica con il domicilio.
Le legge anagrafica, come s’è appena visto, non si è però soffermata sulla definizione di domicilio, nè si è posta il problema di differenziare questa da quella di residenza; differenza di cui cercherò invece di dare conto nelle successive considerazioni.
D’altra parte — è bene talvolta ricordarlo — il legislatore anagrafico non usa concetti di sua esclusiva creazione, ma nozioni che derivano dal diritto civile, nel cui linguaggio è custodito il vocabolario comune a tutti gli operatori giuridici che si occupino della persona e delle sue relazioni sociali.
Anche il civilista ha però trovato non poche difficoltà nel tracciare una esatta linea di distinzione tra i concetti di domicilio [tra cui campeggia, in primo luogo, quello di «domicilio generale » (2)] e di residenza, che peraltro nel processo di codificazione delle leggi civili non erano sempre ben distinti (3).
Tuttavia, già nel vecchio codice civile italiano del 1865 la differenza tra le due nozioni prese
corpo a partire dalla considerazione che talvolta la persona possa avere la sede dei suoi affari
(il domicilio) in un luogo diverso dalla sede dei suoi affetti (la residenza).
A scorrere le numerose norme che in qualche modo utilizzano, differenziandole, queste due
definizioni, entrambe contenute nell’art. 43 cod. civ., emerge (in perfetta continuità con il vecchio codice del 1865) come il domicilio costituisca il luogo di imputazione di posizioni giuridiche soggettive prevalentemente patrimoniali del soggetto. Il riferimento agli affari della persona, già esplicitato dalla norma strumentale (l’art. 43, co. 1 cod. civ.) viene infatti specificato da una molteplicità di norme finali che riferiscono al domicilio il luogo di pagamento di certe obbligazioni, l’apertura della successione ereditaria, etc.
La residenza sembra invece coincidere con il luogo dell’esistenza tout court, il luogo degli affetti familiari, dei bisogni elementari ed esistenziali del soggetto (4).
Si tratta di una differenziazione — problematica nei suoi confini, ma ben percepibile dall’esperienza comune — che non pare contraddetta, bensì avvalorata, dalla stessa Relazione del Guardasigilli, il quale, al n. 65, semplicemente rilevava: «non è raro che una persona abbia in un luogo la dimora abituale (residenza) e in un altro luogo la sede principale degli affari (domicilio)».
Questo vuol dire che quanto più la somma degli «affari» risulti esigua, fino alla piena coincidenza con le preoccupazioni della mera sussistenza,tanto più il domicilio stesso assumerà i connotati esistenziali e solo marginalmente patrimoniali che in coloro che hanno ben distinte una sfera esistenziale ed una patrimoniale (aziendale, affaristica, da libero professionista, etc.) coinciderebbero invece con i tratti tipologici della residenza.
Come applicare, dunque, le due nozioni di residenza e di domicilio a persone che sono senza una dimora fissa, cioè che non collegano stabilmente ad un luogo né il proprio patrimonio affettivo esistenziale nè quello reddituale o patrimoniale? Proprio di queste persone — girovaghi, artigiani itineranti, circensi, marinai e camminanti di ogni genere — dovette occuparsi, per i suoi specifici compiti funzionali, la legge anagrafica all’art. 2, co. 3, successivamente dettagliato dal regolamento anagrafico e dalle direttive dell’ISTAT (autorità nazionale di controllo delle anagrafi assieme ed oltre al Ministero dell’Interno).
Fu infatti l’ISTAT, nelle sue note illustrative della legge anagrafica e del regolamento, a suggerire l’istituzione in ogni Comune di una sessione speciale «non territoriale» nella quale fossero elencati e censiti come residenti tutti i senza tetto e i senza fissa dimora che desiderassero eleggere domicilio al fine di ottenere la residenza anagrafica, individuando allo scopo una via territorialmente non esistente.
Fu dunque detto all’ufficiale di anagrafe di non fare indagini sull’abitualità del domicilio del senza fissa dimora, perchè questo era sostanzialmente oggetto di una libera elezione da parte sua. Ed in tal senso si espresse lo stesso Ministero dell’Interno. Significativa, al riguardo, la Circolare n. 1 del 1997, di cui riporto solo questo breve passaggio: «Per alcune particolari categorie di persone nei cui confronti non è riscontrabile il requisito della dimora abituale, la legge anagrafica n. 1228 del 24 dicembre 1954 ha preso in considerazione un solo Comune, e cioè quello eletto a domicilio dall’interessato».
Eleggere il domicilio ai fini anagrafici è stata dunque, sin qui, una scelta incondizionatamente libera ed esclusiva del richiedente l’iscrizione anagrafica come senza fissa dimora; a condizione, ovviamente, che davvero si trattasse di una persona senza alcuna dimora stabile.
La domanda che ora ci poniamo — non irrilevante per comprendere correttamente le più recenti novità legislative — è se sia stata corretta l’interpretazione data negli anni passati dall’Amministrazione (sia l’ISTAT che il Ministero dell’Interno) dell’art. 2, co. 3 della legge anagrafica (che anche a seguito della recente novella rimane immutato), nell’intendere il riferimento al domicilio come una libera elezione del richiedente, pur trattandosi, indubbiamente, di una figura normativa di domicilio non automaticamente coincidente con quella di un semplice domicilio elettivo dedicato alla cura di un singolo affare. […]

Tratto da Lo Stato Civile, 11/2009, 834 ss.





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