Cultura, società  -  Paolo Cendon  -  05/03/2023

Lina Bigliazzi Geri, un ricordo

Malinconia, pessimismo?  Un po’ sì senza dubbio; e ogni volta con delle ombre aggiunte, quando tornavo a incontrarla, quasi sempre in Toscana. Ma le piaceva anche scandagliare l’animo altrui, provocare con estro; tesa a far emergere di continuo cose nuove, ascoltando, ravvivando a  ogni passo, festeggiando. 

   Mestizie che le accendevano una luce nel viso, qualche volta fioca, comunque inedita. Un’inclinazione che il tempo non avrebbe cambiato. 

   Schiettezza toscana, parlar chiaro, scorticare? Ovvio che sì: con tocchi che però quando occorreva (per non urtare la vulnerabilità dell’interlocutore) sapevano farsi assai leggeri;  meno di un soffio, allora, del suono di una pagina voltata. Un tepore rispettoso  in quei casi,  odori e  piume di casa verso il “topino” di  turno (chiamava a volte anche me così).  

   Una certa vocazione alla tenerezza   (al di là  degli orgogli  o  del riserbo aristocratico): questo forse il  nucleo più profondo. Sì  questo. Certo anche la disponibilità a perdonare, la capacità di partecipare intensamente: Lina  non ti faceva mai sentire solo,  una volta che eri stato accolto sotto la manica larga e scura dei suoi eleganti cappotti, qualcuno  di Parigi.

   Ma soprattutto  - ripeto - il suo palpitare all’improvviso, il lasciarsi  prendere dalla bellezza:  il gusto per la grande letteratura,   ecco, per  ciò che di fresco emanava dalla vita, magari da uno sconosciuto di passaggio (kiss me again stranger). Qualcosa che saliva verso le sue tempie, allora, che neanche tanto invisibilmente   la  incantava.

 




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