Letteratura  -  Elisabetta Costa  -  26/11/2021

Lo spazio neutro

- Dai che facciamo tardi, esortava Camilla il figlio Adam, tuo padre ti aspetta allo spazio neutro tra mezz’ora e tu stai ancora trafficando con la cartella.

- Sì mamma, arrivo. Ma cosa gli dirò quando c’incontriamo? Saremo soli o ci saranno gli assistenti [sociali]? E lui mi riconoscerà?

- Quante domande Adam..., sorrideva Camilla al bambino per celare l’ansia che da giorni le levava il sonno. Aveva preso qualche goccia di Xanax, come suggeriva il suo medico, un tipo alto dall’aria rassicurante, e le tremavano le gambe. Sperava di non incrociarlo, Sammy.

Erano anni che non si vedevano e l’ultima volta lui l’aveva chiusa fuori dalla finestra, sul balcone, e aveva tirato giù la tapparella. Urlava: “You can even throw yourself, the bitch you are. I don’t care about you at all, shit junkie. [Buttati pure se vuoi, stronza che non sei altro. Non m’interessa niente di te, drogata di merda”], come se vivere o morire fosse un’opzione. Il marito della vicina si era svegliato e la guardava dalla finestra. Camilla era in camicia da notte e alle prime luci dell’aurora l’aria era fresca alla fine dell’estate.

Dopo non ricordava più nulla, soltanto di essersi svegliata in un letto d’ospedale senza riuscire a dire una parola. Aveva forse un ictus?
L’infermiera le aveva portato il termometro, poi le misurò la pressione. Dall’espressione del suo viso, liscio e senza segni come solo le ragazze gentili possono avere, pareva che non avesse la febbre e che la pressione fosse a posto.

Camilla girò lo sguardo nella stanza a tre letti dove si trovava. Era il nuovo padiglione quello, non più lo stesso del primo ricovero.

Quanti erano i ricoveri? Non ricordava. Ricordava il primo. Il medico che le parlava in cucina e gl’infermieri sulla porta. Lo scatto felino per tentare la fuga e gl’infermieri che le infilavano la camicia di forza. Poi l’ambulanza. La barella con le cinghie e il materasso in corridoio perché non c’erano posti letto.

La notte il buio e le urla.
Si sorprese a non aver paura. Pensava a Adam, che aveva appena incominciato a camminare e ogni due per tre si trovava con il sedere per terra, e sorrideva. Era contenta di averlo tenuto. Sua madre le diceva che quel Sammy era un poco di buono e che era meglio abortire. Ma lei aveva voluto tenerlo e non era pentita.

- Ecco mamma, sono pronto, diceva Adam spingendo Camilla verso l’ascensore. Si era messo il giubbotto preferito e le snickers che la nonna gli aveva preso per Natale. Anche se era di Teheran non mancava mai, la nonna, di fare i regali di Natale al nipotino.
Salirono in auto. Camilla accese la radio, davano il numero delle vittime di Covid-451, il protagonista della pandemia di quell’anno.

Dopo la prima pandemia di Covid-19 nel 2020 ne erano seguite molte altre. Per i primi anni il cts – comitato tecnico scientifico – aveva obbligato la gente a vaccinarsi. Ogni volta lo stesso vaccino, che non era lo stesso perché era stato geneticamente modificato per rispondere alla variante del virus in atto in quel momento.

La propaganda era sempre la stessa: c’è la pandemia, vaccinatevi, chi non si vaccina è un assassino e un pericolo per la società, la pandemia è stata sconfitta grazie al vaccino. Tutto ciò tacendo sulle vittime dei vaccini, sugli affari miliardari delle case farmaceutiche e dei medici e politici di turno e sulle vittime della pandemia tra i vaccinati.

Da qualche anno le cose erano cambiate. La pandemia arrivava puntualmente ma non veniva più propagandata alcuna soluzione. I vaccini venivano messi in vendita e chi voleva

li faceva ma il numero di punture per abitante era tale che la difficoltà di trovare una zona libera sul corpo degli utenti che consentisse un’iniezione da parte del personale sanitario aveva indotto il cts e il governo a lasciare all’arbitrio dei cittadini la decisione se vaccinarsi o meno.

Chi si ammalava non veniva curato. Gli veniva attribuita una diagnosi tramite un QR che entrava direttamente nel QR identificativo, che ciascun cittadino doveva portare sempre sul videofono per esibirlo in caso di richiesta della polizia, e non poteva uscire di casa.

Camilla cercò un canale di musica. Achille Lauro cantava il suo ultimo assolo “Avio-jet” che aveva un pubblico tutto suo, gente che, malgrado l’epoca ipermedicalizzata, aveva scommesso sulla salute intellettuale, anziché sulla salute pubblica.

Arrivata nella piazza dello spazio neutro Camilla parcheggiò l’auto nel silos e prese l’ascensore con Adam per salire in superficie. Quando saliva dal sottosuolo le pareva di avvertire un disturbo, una memoria. Come quando d’improvviso le cose vengono da un altro mondo. Era la sensazione di un istante.

La piazza era immersa nel silenzio e la luce avvolgeva le foglie degli alberi che parevano d’argento. Camilla prese per mano Adam per attraversare sulle strisce in direzione dello spazio neutro. La manina di Adam era fredda e sudaticcia.
- Come va? chiese Camilla guardandolo.

- Bene mamma, le sorrise il bambino.
- Sei emozionato d’incontrare il papà?
- Sì un po’...
- Va bene, fece Camilla con palpiti leggeri alla manina.
Giunti sulla soglia Camilla salutò Adam che prima di seguire l’assistente sociale all’interno, le lanciò un ultimo sguardo che valeva la vita intera.

Camilla attese il tempo dell’incontro del figlio con il padre al bar della piazza, leggendo e scrivendo.
Quando Adam uscì dalla porta vide il suo viso rigato di lacrime.
- Papà non è venuto, disse il bambino con un filo di voce.

Camilla si chinò e prese il bambino tra le braccia. L’incontro tra padre e figlio non avviene mai. Si trattava dell’annunciazione della questione padre, ma questo Adam l’avrebbe constatato, forse, negli anni a venire e dopo molte altre attese allo spazio neutro.




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