Malpractice medica  -  Federico Basso  -  07/01/2023

L’utilizzo di dispositivi medici difettosi tra responsabilità del produttore e dimensione protettiva della prestazione sanitaria

SOMMARIO: 1. Introduzione – 2. I danni cagionati da emoderivati infetti, vaccini e farmaci difettosi. – 3. La responsabilità del produttore di dispositivi medici e la “dimensione protettiva” della prestazione sanitaria. – 4. Conclusioni

 

  1. Introduzione

Ai fini di un corretto inquadramento generale del problema occorre, in primo luogo, chiarire i rapporti della responsabilità medica e da prodotto difettoso con la disciplina generale di cui agli artt. 2043 e ss. c.c.

Secondo un’opinione costante e pacifica della dottrina e della giurisprudenza la prima tipologia di responsabilità si pone in un rapporto di specialità rispetto alla disciplina generale di cui agli artt. 1218 e 2043 c.c., essendo caratterizzata da un regime derogatorio destinato a trovare applicazione in luogo delle regole generali. Ciononostante, essa costituisce pur sempre responsabilità per inadempimento o per fatto illecito, con la conseguenza per cui l’eventuale azione esperibile dal danneggiato troverà pur sempre fondamento, alternativamente o cumulativamente, negli artt. 1218 e 2043 c.c.

Viceversa, la responsabilità da prodotto difettoso costituisce certamente una species del più ampio genus della responsabilità civile di cui agli artt. 2043 e ss. c.c., ma da essa scaturisce un’azione ulteriore e diversa, con il logico corollario per cui il danneggiato potrà agire, in primis, ex artt. 114 e ss. Cod. Cons., e, qualora ne ricorrano gli estremi, in via alternativa o in via subordinata anche ai sensi degli artt. 2043 e ss. (rectius, ai sensi dell’art. 2050 c.c., stanti le peculiarità della materia in esame). La differenza, in altri termini, si coglie meglio sul piano processuale, nell’ambito del quale è possibile apprezzare il diverso fondamento delle due azioni, al contrario ascrivibili sul piano sostanziale all’unitario fenomeno della responsabilità extracontrattuale. Si è, infatti, affermato in giurisprudenza che “in tema di danno da prodotto difettoso […] le norme di fonte comunitaria, volte a realizzare un'armonizzazione globale - e non già minima non trovano […] applicazione in via esclusiva, ma vengono ad affiancarsi e non si sostituiscono alla disciplina dettata dall'ordinamento interno (v. Cass., 1/6/2010, n. 13432; Cass., 29/4/2005, n. 8981, Cfr. anche, da ultimo, Cass., 7/11/2019, n. 28626), non rimanendo pertanto da quella del c.d. Codice del consumo esclusa, stante la diversità di ratio e ambito applicativo, l'operatività (anche) della norma di cui all'art. 2050 c.c. (cfr., da ultimo, Cass., 7/3/2019, n. 6587)” (Cassazione civile sez. III - 10/05/2021, n. 12225).

Orbene, ciò premesso in via generale, pare opportuno, innanzitutto, delineare i tratti essenziali della responsabilità da prodotto difettoso, l’illustrazione dei quali non può prescindere da alcune premesse di ordine storico.

Invero, è noto come l’evoluzione della tecnica e la progressiva trasformazione dell’economia europea da agricola a industriale avvenuta nel XX secolo abbiano comportato una crescente produzione e commercializzazione dei beni di consumo; donde l’impellente necessità di approntare adeguati mezzi di tutela a fronte di danni cagionati da eventuali difettosità dei medesimi.

In assenza di una disciplina ad hoc, la giurisprudenza di legittimità dei primi anni ’60, a partire dal celeberrimo caso Schettini c. Saiwa (1964), aveva cercato di incrementare la tutela dei consumatori facendo ricorso nei giudizi di risarcimento danni da prodotto difettoso ad una presunzione di colpa in capo al produttore (e, talvolta, anche di causalità), al fine di esonerare l’utilizzatore dalla dimostrazione della negligenza o dell’imperizia del fabbricante.

L’ingente crescita economica a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 e la successiva introduzione ad opera delle fonti comunitarie della libertà di circolazione delle merci tra gli Stati membri resero necessario l’intervento del legislatore europeo, il quale con la Direttiva 85/374/CE introdusse una disciplina minima di armonizzazione in materia di responsabilità da prodotto difettoso, recepita dal legislatore italiano con il D.P.R. 224/1988 e poi trasfusa negli artt. 114 e ss. Cod. Cons. Tale disciplina, lo si anticipa, è caratterizzata dalla sussistenza di una responsabilità oggettiva in capo al produttore, introdotta appositamente dalle fonti comunitarie al fine, da un lato, di agevolare il danneggiato, dall’altro, di incrementare la funzione preventiva e repressiva di tale strumento[1], stimolando i produttori a controllare gli standard di qualità dei beni da essi prodotti e poi posti in commercio.

Venendo all’analisi del dettato normativo, l’art. 114 Cod. Cons. dispone che il produttore e, qualora questi non sia individuato, il fornitore, sono responsabili del danno cagionato da difetti del “prodotto”, per tale intendendosi qualsiasi bene mobile, anche se incorporato in altro bene mobile.

L’art. 117 definisce “difettoso” quel prodotto che non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere, ovverosia la sicurezza normalmente offerta dagli altri esemplari della medesima serie (c. 3); tuttavia, ciò che preme precisare è che la nozione di sicurezza del prodotto diverge da quella di vizi della cosa o da quella di difetto di conformità ex art. 129 Cod. Cons., non essendo a questi sovrapponibile in alcun modo: invero, un prodotto può qualificarsi sicuro anche qualora anomalie tali da renderlo inidoneo all’uso ovvero da diminuirne in modo apprezzabile il valore; così come, al contrario, può considerarsi non sicuro un prodotto privo di vizi ex art. 1490 c.c.

Ulteriori precisazioni si rendono, inoltre, necessarie in relazione alla legittimazione attiva: invero, nonostante la disciplina della responsabilità da prodotto difettoso sia contenuta nel Codice del Consumo, deve, tuttavia, ritenersi che legittimato ad agire in giudizio sia qualsiasi soggetto danneggiato, a prescindere dalla sua qualità di consumatore.

Con riguardo, invece, all’onere della prova della difettosità, l’art. 120 sancisce esplicitamente che il danneggiato deve provare il difetto, il danno e il nesso causale tra difetto e danno, spettando invece al produttore provare l’esistenza delle (uniche) cause di esenzione da responsabilità elencate dall’art. 118. Pertanto, la responsabilità de qua costituisce un’ipotesi di c.d. responsabilità oggettiva, giacché, come evincibile dagli art. 118 e 120, il produttore risponde del danno a prescindere da un qualsiasi coefficiente colposo a lui imputabile: ed infatti, le cause di esclusione di cui all’articolo 118 attengono non tanto alla mancanza di colpa, quanto alla mancanza di nesso causale tra fatto del produttore ed evento dannoso.

Più precisamente, la giurisprudenza di legittimità (cfr. ex multis Cass. sez. III - 07/04/2022, n. 11317) suole affermare che la responsabilità da prodotto difettoso ha natura presunta, e non oggettiva, poiché prescinde dall'accertamento della colpevolezza del produttore, ma non anche dalla dimostrazione dell'esistenza di un difetto del prodotto: si tratterebbe, dunque, di una sorta di responsabilità oggettiva “limitata”.

Infine, il Codice del Consumo pone alcune limitazioni sia con riferimento al quantum del danno risarcibile (potendo essere risarciti solamente i danni cagionati dalla morte o dalle lesioni personali e quelli derivanti dalla distruzione o dal deterioramento di una cosa diversa dal prodotto difettoso), sia con riferimento all’esercizio dell’azione risarcitoria, prevedendo un termine di prescrizione pari a tre anni e un termine di decadenza di dieci anni decorrente dal giorno in cui il produttore ha messo in circolazione il prodotto.

Ora, ciò detto in relazione alla responsabilità da prodotto difettoso, occorre esaminare, seppur in via generale, i tratti caratteristici della responsabilità medica per come delineata dalla l. 24/2017 (c.d. legge Gelli-Bianco).

Superando il risalente dibattito tra sostenitori della natura extracontrattuale e i sostenitori della natura contrattuale (da “contatto sociale”), della responsabilità in esame, l’art. 7 della predetta legge ha sancito, da un lato, che il medico risponde nei confronti del paziente danneggiato a titolo extracontrattuale, salva l’esistenza di un rapporto contrattuale tra i medesimi, e, dall’altro, che la struttura sanitaria pubblica o privata che, nell’adempimento della propria obbligazione, si sia avvalsa dell’opera di un esercente la professione sanitaria, risponde in via contrattuale delle loro condotte dolose o colpose. Da tale disposizione consegue che il paziente danneggiato che agisca nei confronti dell’operatore sanitario sarà onerato di provare tutti gli elementi costitutivi della responsabilità aquiliana, e, in particolare, il dolo o la colpa del danneggiante; mentre, qualora agisca nei confronti della struttura sanitaria, egli potrà limitarsi ad allegare l’inadempimento e a provare il titolo, il danno e, secondo parte della giurisprudenza di legittimità, anche il nesso causale tra condotta ed evento.

Ulteriori peculiarità della responsabilità medica sono rappresentate dall’esistenza di due condizioni di procedibilità della domanda (che dovrà essere proposta con ricorso ex art. 702-bis c.p.c.), ovverosia l’obbligatorio esperimento di una consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite ex art. 696-bis c.p.c. o, in alternativa, la mediazione obbligatoria prevista dal d.lgs. 28/2010.

Infine, l’art. 10 prevede uno specifico obbligo di assicurazione in capo alle strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche o private, mentre il successivo art. 12 prevede la possibilità per il soggetto danneggiato di agire direttamente nei confronti dell’impresa di assicurazione che presta la copertura assicurativa ai predetti enti.

 

  1. I danni cagionati da emoderivati infetti, vaccini e farmaci difettosi.

Orbene, ciò posto, prima di addentrarsi nell’analisi dei rapporti tra responsabilità medica e responsabilità da prodotto difettoso nei casi di danni cagionati dall’impiego di dispositivi medici difettosi, pare opportuno distinguere quest’ultima ipotesi da quella dei danni derivanti dall’impiego di farmaci difettosi e da emoderivati infetti ovvero dalla somministrazione di vaccini.

Invero, con riguardo ai danni derivanti da trasfusioni di sangue infetto la giurisprudenza effettua una distinzione, a seconda che l’emoderivato sia stato realizzato mediante donazioni gratuite di sangue ovvero sia stato prodotto da una casa farmaceutica. Nel primo caso, secondo un ormai costante orientamento (Cass. n. 11609/2005; Cassazione civile sez. un., 11/01/2008, n. 576) il danneggiato potrà agire ai sensi dell’art. 2043 c.c. nei confronti del Ministero della Salute, quale soggetto deputato alla sorveglianza e al controllo sull’impiego di tali prodotti; dovrà, invece, escludersi un’azione ex art. 2050 c.c. o ex artt. 114 e ss. Cod. Cons., giacché al Ministero non è imputabile alcuna attività di produzione, né ad esso può essere attribuita la qualità di produttore, in quanto l’attività di raccolta di sangue gratuitamente donato non può, secondo la giurisprudenza, essere qualificata quale attività d’impresa volta alla produzione o allo scambio di beni o servizi (così Ufficio del Massimario, Relazione n. 35, 21 marzo 2007). Al contrario, allorquando l’emoderivato sia stato prodotto da una casa farmaceutica, senza alcuna forma di controllo esercitabile sul prodotto da parte del Ministero, allora il paziente danneggiato potrà agire esclusivamente nei confronti della prima ex art. 2050 c.c. o ex artt. 114 e ss. Cod. Cons.

A tali forme di riparazione, applicabili allorquando sussista un coefficiente doloso o colposo in capo al danneggiante, occorre aggiungere anche l’indennizzo previsto dalla l. 210/1992, erogabile al danneggiato in presenza di un danno cagionato da un’infezione post-trasfusionale, pur in assenza di qualsiasi condotta dolosa o colposa imputabile al Ministero o all’operatore sanitario. Resta, ovviamente, impregiudicata la possibilità di agire in via risarcitoria qualora ne ricorrano gli estremi, salva l’operatvità dell’eventuale compensatio lucri cum damno con l’eventuale indennizzo già ottenuto.

Principi simili, ma in parte diversi, valgono per la responsabilità conseguente alla somministrazione di farmaci difettosi, in relazione ai quali è da escludersi l’indennizzo statale, stante l’espressa limitazione del medesimo ai danni derivanti da emoderivati infetti o da vaccini, secondo quanto previsto dalla l. 210/1992. In tal caso, sempre che il Ministero non effettui alcuna attività di produzione o di controllo, il danneggiato potrà agire esclusivamente nei confronti della casa farmaceutica ai sensi degli artt. 114 e ss. Cod. Cons. ovvero, alternativamente o in subordine, ai sensi dell’art. 2050 c.c.; con la precisazione, però, che in tale ultimo caso, ai fini della sussunzione della fattispecie nell’ambito della predetta disposizione, il giudice dovrà effettuare il passaggio logico dalla pericolosità del bene alla pericolosità dell’attività che ha ad oggetto quel bene, ossia dovrà dedurre dalla difettosità-pericolosità del prodotto la pericolosità dell’attività che ad oggetto la produzione del medesimo.

Peraltro, con specifico riferimento ai farmaci difettosi, la più recente giurisprudenza ha affermato che solamente le indicazioni contenute nel foglietto illustrativo che risultino adeguate, specifiche e frutto di procedimenti scientificamente verificabili integrino gli standard medi di sicurezza del prodotto e, dunque, siano idonee ad escludere la responsabilità del produttore. Viceversa, qualora tali indicazioni risultino generiche, incomplete, inesatte, allora non potranno dirsi soddisfatti i predetti standard, con conseguente sussistenza della responsabilità del produttore per i danni eventualmente cagionati dall’assunzione del farmaco. Si è, infatti, ritenuto che “[…] ad escludere la responsabilità del produttore di farmaci non è invero sufficiente nemmeno la mera prova di aver fornito - tramite il foglietto illustrativo (c.d. "bugiardino") - un'informazione che si sostanzi in una mera avvertenza generica circa la non sicurezza del prodotto (cfr. Cass., 15/3/2007, n. 6007), essendo necessaria un'avvertenza idonea a consentire al consumatore di acquisire non già una generica consapevolezza in ordine al possibile verificarsi dell'indicato pericolo in conseguenza dell'utilizzazione del prodotto, bensì di effettuare una corretta valutazione (in considerazione delle peculiari condizioni personali, della particolarità e gravità della patologia nonchè del tipo di rimedi esistenti) dei rischi e dei benefici al riguardo, nonchè di adottare tutte le necessarie precauzioni volte ad evitare l'insorgenza del danno, e pertanto di volontariamente e consapevolmente esporsi al rischio (con eventuale suo concorso di colpa ex art. 1227 c.c., in caso di relativa sottovalutazione o di abuso del farmaco) […]” (Cassazione civile sez. III - 10/05/2021, n. 12225).

Infine, i principi precedentemente esaminati in tema di responsabilità da farmaci difettosi saranno applicabili anche ai casi di danni derivanti dalla somministrazione di vaccini, con l’unica differenza che in tale eventualità al danneggiato sarà riconosciuto anche l’indennizzo previsto dalla l. 210/1992.

 

  1. La responsabilità del produttore di dispositivi medici e la “dimensione protettiva” della prestazione sanitaria.

Così delineato il regime di responsabilità derivante dall’impiego di farmaci e di emoderivati infetti, occorre ora analizzare le peculiarità caratterizzanti la responsabilità da prodotto difettoso e la responsabilità medica nell’ipotesi di utilizzo di dispositivi medici, quali protesi, pacemakers, plantari, ecc.

Iniziando dalla prima, abbisogna fin da subito effettuare alcune precisazioni circa l’onere della prova gravante sul danneggiato. Come già accennato, l’art. 120 Cod. Cons. stabilisce che il danneggiato deve provare il difetto, il danno e il nesso causale tra difetto e danno, spettando, invece, al produttore provare l’esistenza delle (uniche) cause di esenzione da responsabilità elencate dall’art. 118.

Tuttavia, con particolare riferimento all’utilizzo di dispositivi medici difettosi risulta spesso assai difficile per l’attore provare il difetto originario del prodotto: si pensi, ad esempio, ai frequenti casi di rottura di protesi ovvero all’eventualità in cui il bene sia andato distrutto in un fenomeno di autocombustione. In tali ipotesi per il consumatore è, dunque, assai arduo, se non impossibile, fornire la prova del difetto, giacché a manifestarsi nella realtà esterna non è quest’ultimo, bensì solamente gli effetti materiali (rotture, esplosioni, incendi, ecc.), scaturenti dal vizio originario. Ciò premesso, occorre, tuttavia, tenere a mente che l’art. 117 Cod. Cons. definisce “difettoso” quel prodotto che non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere, ovverosia la sicurezza normalmente offerta dagli altri esemplari della medesima serie (c. 3). Da tale disposizione la Cassazione (cfr. Cass. civ. n. 20985/2007, c.d. caso Wella) ha dedotto che l’oggetto del thema probandum del danneggiato non si identifica con la dimostrazione dell’esistenza del difetto, bensì con la dimostrazione di quegli effetti verificabili nella realtà empirica che costituiscano manifestazione dell’insicurezza del prodotto; in altre parole, il consumatore deve semplicemente provare che -il pur normale- uso del prodotto ha comportato risultati anomali, tali da evidenziare la sussistenza di un difetto. Con la conseguenza per cui l’art. 120 Cod. Cons. andrà riletto nel senso di ritenere che l’attore dovrà provare i predetti eventi, il danno e il nesso causale tra questi, mentre sarà onere del produttore, ai sensi degli artt. 118 e 120 cod. cons., provare che il difetto non esisteva ancora nel momento in cui il prodotto era stato messo in circolazione. Come si è sostenuto in dottrina, infatti, “il difetto, per comportare una responsabilità del produttore, non deve rimanere allo stato latente, ma deve causare nel mondo naturale degli effetti di carattere materiale o fisico (rotture, incendio, esplosione, allagamento, corto circuito, effetti collaterali nocivi per l'uomo, ecc.). Il consumatore, una volta dimostrata la "insicurezza" del prodotto, dovrà provare − e sarà sufficiente − che i suddetti effetti di carattere materiale o fisico derivati dal difetto hanno causato il danno di cui chiede il risarcimento: tali effetti rappresentano la causa prossima del danno, mentre la causa remota risale al difetto. L'art. 120 fa testuale riferimento alla prova di un nesso causale tra difetto e danno per brevità e perché in ultima analisi tutto risale causalmente all'esistenza del difetto. Ma tale prova potrà essere data solo dimostrando il nesso causale tra gli effetti materiali del difetto (svuotamento della protesi, rottura della forcella, effetti collaterali nocivi, incendio dell'apparecchio, presenza del frammento di nocciolo nel prodotto alimentare, ecc.) e il danno all'integrità fisica o ai beni dell'utente di cui si chiede il risarcimento” (U. Carnevali, Prodotto difettoso e oneri probatori del danneggiato. Nota a Cass. civ. 08 ottobre 2007, n.20985, in Resp. civ. prev., 2/2008, pag. 354 e ss.).

In particolare, il ragionamento della Cassazione fa perno sull’istituto delle presunzioni semplici ex art. 2929 c.c., tramite le quali è possibile inferire da un fatto secondario (la rottura, l’esplosione, ecc.) l’esistenza del fatto primario, ossia il difetto del prodotto, purché, ovviamente, tali presunzioni siano gravi, precise, e concordanti; in tal senso, si veda anche Cassazione civile sez. III, 29/05/2013, n.13458, secondo cui nulla “[…] esclude, ovviamente, che la prova della difettosità del prodotto possa basarsi su presunzioni semplici, ergo che il giudice, una volta acquisita, tramite fonti materiali di prova (o anche tramite il notorio o a seguito della non contestazione) la conoscenza di un "fatto secondario" deduca, in via indiretta, l'esistenza del "fatto principale" ignorato (nella specie "il difetto" del prodotto), purché le presunzioni abbiano il requisito della gravità (il che significa che l'esistenza del fatto ignoto deve essere desunta con ragionevole certezza, anche probabilistica), della precisione (il che impone che il fatto noto, da cui muove il ragionamento probabilistico, e il percorso che si segue non siano vaghi ma ben determinati nella loro realtà storica), della concordanza (il che postula che la prova sia fondata su una pluralità di fatti noti convergenti nella dimostrazione del fatto ignoto).”

Ora, ciò detto, occorre altresì precisare -soprattutto con riferimento ai dispositivi medici- che il danneggiato, oltre a dover dare la prova del difetto nei termini appena descritti, non deve aver utilizzato il prodotto in maniera anomala e irrazionale, ossia contraria al normale uso del bene, specialmente allorquando la res sia accompagnata da dettagliate istruzioni. Con la conseguenza per cui andrà esente da responsabilità il produttore che riesca a dimostrare che l’utilizzo del prodotto è stato anomalo, abnorme o imprudente; così come, nelle medesime ipotesi, egli potrà eventualmente ottenere una riduzione del risarcimento del danno ai sensi dell’articolo 1227 comma 1, come espressamente previsto dall’art. 122 Cod. Cons.

Parimenti, ai sensi del secondo comma del medesimo articolo il risarcimento non sarà dovuto in tutti quei casi in cui il danneggiato sia stato informato dei rischi inerenti all’uso del prodotto e, ciononostante, egli vi si sia volontariamente esposto.

Così delineati i tratti peculiari del regime probatorio della responsabilità del produttore nei casi in esame, è necessario a questo punto indagare se e a quali condizioni la struttura sanitaria e/o il medico possano essere chiamati a rispondere dei danni cagionati dalla difettosità del dispositivo utilizzato.

Innanzitutto, qualora la struttura ospedaliera abbia modificato il prodotto ovvero abbia contribuito alla costruzione del medesimo, anch’essa sarà soggetta alla responsabilità ex art. 114 e ss. Cod. Cons, potendosi qualificare come co-produttrice del bene.

La tematica si complica, invece, allorquando la struttura sanitaria si sia limitata a fornire e/o impiantare il dispositivo medico, senza svolgere alcuna attività di produzione.

Prima di analizzare nel dettaglio le eventuali responsabilità dell’ente, occorre premettere che, come noto, il rapporto intercorrente tra quest’ultimo e il paziente è inquadrabile nel c.d. contratto atipico di spedalità, comprendente, oltre al facere professionale del medico, una serie di prestazioni ulteriori, di tipo essenzialmente alberghiero e assistenziale, spesso indicate come “obblighi di protezione, ma che sarebbe più corretto qualificare come “obblighi accessori”, in quanto riconducibili alla causa stessa del contratto, e non alla buona fede integrativa. In altri termini, la struttura sanitaria sarà tenuta a garantire al paziente tutta una serie di prestazioni accessorie di varia natura (alberghiere, organizzative, di sorveglianza, di controllo e custodia dei prodotti e dei dispositivi utilizzati, ecc.) volte a garantire appieno al medesimo la tutela della sua salute, nell’ottica della c.d. “dimensione protettiva” della prestazione sanitaria. “A carico della medesima struttura sanitaria, pubblica o privata, gravano, quindi, prestazioni non solo di diagnosi e cura, ma anche di tipo organizzativo, connesse all’ “assistenza sanitaria”, alla sicurezza delle attrezzature […] e dei macchinari, alla vigilanza e alla custodia dei pazienti, a quelle prestazioni più propriamente riconducibili al contratto d’albergo, oltre che alla messa a disposizione di prodotti sicuri” (G. Passarelli, Responsabilità civile e prodotti medici difettosi, in Rass. dir. civ., 2/2018, 559 e ss.).

Ebbene, da quanto detto, può, pertanto, dedursi che nel caso di danni da dispositivi medici difettosi la struttura sanitaria potrà essere ritenuta responsabile solo allorquando alla stessa possano imputarsi carenze organizzative nella scelta, nella custodia e nella predisposizione delle misure di sicurezza e di igiene per l’utilizzo del prodotto. «In questa circostanza, quindi, pare decisivo il ruolo dell’interprete, che non solo deve valutare se il difetto del dispositivo sia addebitabile all’azienda sanitaria, ma anche stabilire se nella custodia di questo siano state rispettate tutte le norme di settore, ossia quelle che impongono misure di sicurezza, di igiene, e quindi di “buona organizzazione”» (G. Passarelli, Responsabilità civile e prodotti medici difettosi, in Rass. dir. civ., 2/2018, 559 e ss.).

Al di là di tali ipotesi, la struttura ospedaliera, unitamente al personale sanitario, potrà essere chiamata a rispondere dei danni ex artt. 1228 c.c. e 7, l. 24/2017 anche qualora all’operatore medico possa rimproverarsi, alternativamente o cumulativamente, una colpa nella scelta del dispositivo alla luce delle peculiarità del caso concreto ovvero una colpa nella mancata rilevazione della sussistenza di un difetto riconoscibile adoperando l’ordinaria diligenza. Inoltre, qualora l’intervento sia stato eseguito da un’équipe, la giurisprudenza è ferma nel ritenere che tutti i componenti della medesima (e non solo il capo) potranno essere ritenuti responsabili dei danni causati della difettosità del prodotto, allorquando l’insicurezza del medesimo potesse essere rilevata da ciascuno sulla base delle conoscenze del professionista medio; in tal senso, ex multis, Cassazione civile sez. III - 11/12/2018, n. 31966, secondo cui “Ciascun medico componente dell'équipe è responsabile dell'impianto di una valvola cardiaca difettosa da cui sia derivato un danno al paziente, laddove non sia in grado di dimostrare che l'inadempimento sia stato determinato da causa a lui non imputabile, incombendo su ciascun membro l'onere di provare di aver adottato tutti gli accorgimenti necessari ad accertare il regolare funzionamento del prodotto anteriormente all'impianto; e ciò in considerazione del fatto che dal professionista che faccia parte, sia pure in posizione di minor rilievo, di una équipe si pretende pur sempre una partecipazione all'intervento chirurgico non da mero spettatore, ma consapevole e informata, in modo che egli possa dare il suo apporto professionale non solo in relazione alla materiale esecuzione della operazione, ma anche in riferimento al rispetto delle regole di diligenza e prudenza e alla adozione delle particolari precauzioni imposte dalla condizione specifica del paziente che si sta per operare.”

Pertanto, nelle ipotesi appena illustrate il danneggiato potrà agire sia ai sensi degli artt. 114 e ss. Cod. Cons. nei confronti del produttore, sia ex art. 7, l. 24/2017 nei confronti della struttura e/o dell’esercente la professione sanitaria, i quali ai sensi dell’art. 2055 c.c. risponderanno tutti in solido, salva la successiva rivalsa tra danneggianti in ragione del quantum di responsabilità ascrivibile a ciascuno. Invero, come ribadito da Cass. Sez. un. - 27/04/2022, n. 13143 “Ai fini della responsabilità solidale di cui all'art. 2055 c.c., comma 1, che è norma sulla causalità materiale integrata nel senso dell'art. 41 c.p., è richiesto solo che il fatto dannoso sia imputabile a più persone, ancorché le condotte lesive siano fra loro autonome e pure se diversi siano i titoli di responsabilità (contrattuale ed extracontrattuale), in quanto la norma considera essenzialmente l'unicità del fatto dannoso, e tale unicità riferisce unicamente al danneggiato, senza intenderla come identità di norme giuridiche violate.”

Viceversa, al di fuori dei casi summenzionati (e cioè di colpa nell’organizzazione ascrivibile alla struttura ovvero ad un’errata scelta o ad un omesso controllo imputabile al sanitario) nessuna responsabilità potrà sussistere in capo all’ente erogatore della prestazione sanitaria, giacché non pare possibile estendere la portata degli obblighi accessori su di esso gravanti fino a ricomprendervi comportamenti ascrivibili al fatto colposo altrui (del produttore), pena l’introduzione di una fattispecie di responsabilità per fatto altrui al di fuori delle ipotesi tassativamente previste dal Codice civile. Pertanto, in tali eventualità al danneggiato non resterà che agire verso il produttore ex artt. 114 e ss. Cod. Cons., così come confermato da alcuni arresti della giurisprudenza di merito (Trib. Firenze, 18/11/2014, n. 3574; Trib. Venezia, 4 luglio 2022).

 

  1. Conclusioni

All’esito di tale breve disamina risulta, dunque, evidente come la materia in questione sia caratterizzata da un vero e proprio intreccio di azioni, derivanti dalle molteplici sotto-tipologie di responsabilità aquiliana presenti nel nostro ordinamento, le quali nell’ambito dell’utilizzo dei dispositivi medici difettosi sono destinate a concorrere e, in alcuni casi, a sovrapporsi, ponendo l’interprete di fronte ad una delicata operazione di individuazione delle responsabilità gravanti sui vari soggetti coinvolti, con una conseguente e, spesso difficile, ricostruzione del quadro normativo applicabile.

Invero, il moltiplicarsi delle ipotesi speciali di responsabilità extra-codicistiche (quali la responsabilità da prodotto difettoso e la responsabilità medica), nel già complesso quadro degli artt. 2047 e ss. c.c., pone assai di frequente seri problemi di coordinamento, destinati ad essere risolti dalla giurisprudenza e dalla dottrina in maniera assai analitica, mediante un’attività di scomposizione delle singole fattispecie, richiedendo così all’operatore del diritto una meticolosa opera di analisi del caso concreto.

[1] ferma restando anche in tal caso, la funzione compensativo-riparatoria della responsabilità extracontrattuale, la quale, come noto, solo in ipotesi eccezionali può assumere caratteri punitivi.

 




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