-  Redazione P&D  -  01/12/2012

MANCATA PROVA DEL MOBBING E LESIVITA DI SINGOLI COMPORTAMENTI DEL DATORE – Cass. 18927/2012 - RK

P&D il 22 novembre 2012 ha già pubblicato, con eguale catalogazione di lemma e sottovoci, il contributo di Matteo BARIZZA sulla pronuncia della Cass., Sez. Lav., 5 novembre 2012, n. 18927 - Pres. Antonio LAMORGESE, Est. Lucia TRIA, il cui epilogo è consistito nella cassazione della sentenza gravata, con rinvio alla Corte d'appello di Napoli, in diversa composizione, che si dovrà attenre ai principi così enunciati: "Nella ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente vessatoria, il Giudice del merito, pur nella accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall'interessato e quindi della configurabilità del mobbing, è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati - esaminati singolarmente ma sempre in relazione agli altri - pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili alla responsabilità del datore di lavoro che possa essere chiamato a risponderne, ovviamente nei soli limiti dei danni a lui imputabili"; Invitiamo, pertanto, i visitatori del nostro quotidiano, anche per le ricadute di tipo esistenziale di tali condotte, alla consultazione della predetta nota (Paolo M. Storani).

Nelle ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psicofisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro di natura asseritamente vessatoria, il giudice, anche se accerta l'insussistenza del mobbing, è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili alla responsabilità del datore di lavoro che possa essere chiamato a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili.
(Cass. 18927/2012).

La Corte accoglie una interpretazione dei fatti lesivi della dignità e salute della persona sul luogo di lavoro che trascendono la figura del mobbing.

Il termine di derivazione inglese (ed a sua volta di derivazione latina) viene assunto quale sintesi verbale della serie ripetuta di vessazioni soprattutto psichiche che un lavoratore può incontrare sul luogo di lavoro, e causate dal datore di lavoro o dagli stessi colleghi (o da ambedue contemporaneamente). Figura che, stante la sua caratteristica di individuare comportamenti vessatori continui e reiterati è estendibile ad ogni ambito della vita relazionale della persona , li ove la sua salute psichica e fisica e la sua dignità sono particolarmente messe a rischio, dato l"investimento esistenziale che la persona offre (pensiamo all"ambito familiare).

La Corte , come detto, chiarisce che l"integrità psico fisica è tutelata ad ogni livello, anche se le condotte lesive non sono inquadrabili nella struttura del mobbing.

Infatti, il termine è una sintesi concettuale che racchiude in se stessa un insieme di comportamenti vessatori ripetuti , frequenti, che si attuano in un lasso di tempo apprezzabile, uniti dall"elemento psicologico del danneggiante, che vuole, con la serie ci condotte, svilire ed umiliare la persona. Termine sintetico che assume una sua valenza specifica quando, sotto il fattore temporale e quello psicologico racchiude un insieme di condotte di per se lecite, ma aventi come scopo finale, manifesto dalle prove recate nel processo, di sopprimere l"autostima del dipendente (o della persona che intreccia relazioni esistenziali con il danneggiante).

Qui si individua il valore aggiunto della figura (non disciplinata da leggi statali), poiché, al di sotto di essa, i comportamenti lesivi devono necessariamente assumere la qualifica di antigiuridici. Se il comportamento singolo è lecito non vi potrà essere risarcimento del danno.

 

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Nel campo lavorativo, la violazione dei diritti soggettivi del lavoratore è inquadrabile, in genere, nella responsabilità contrattuale. Se pur è possibile richiedere la doppia tutela derivante dall"art. 1218 e 2043 c.c., in quanto tale contratto coinvolge essenzialmente anche la persona di uno dei contraenti , si deve ammettere che dal contratto di lavoro conseguono anche , ed in particolare modo, obblighi di protezione della persona del lavoratore stesso (sancita dalle numerose e dettagliate leggi che si occupano della salvaguardia della salute negli ambienti di lavoro). Nella obbligazione contratta non vi sono comprese solo prestazioni attinenti alle mansioni da svolgere ed al relativo obbligo di retribuirle, ma anche obblighi (anche in capo al lavoratore) di tutela della persona fisica. Quindi, un comportamento rientrante nel concetto di mobbing, potrà essere inquadrato nella violazione della prestazione del datore di lavoro di apprestare un ambiente idoneo al lavoratore per esplicare la sua prestazione), nella violazione delle prestazioni accessorie dirette a tutelare la salute psichica e fisica dello stesso (vedi art 2087 c.c.).

In danno è di natura consequenziale: provato il comportamento dolosamente lesivo, saranno da provare, anche, le conseguenze negative sulla salute del lavoratore e legate dal un nesso di causalità con la condotta posta in essere dal datore di lavoro.

La S.C. ha precisato che in materia di rapporto di causalità nella responsabilità extracontrattuale, in base ai principi di cui agli articoli 40 e 41 del Cp, qualora la condotta abbia concorso, insieme a circostanze naturali, alla produzione dell'evento, e ne costituisca un antecedente causale, l'agente deve rispondere per l'intero danno, che altrimenti non si sarebbe verificato. Non sussiste, invece, nessuna responsabilità dell'agente per quei danni che non dipendano dalla sua condotta, che non ne costituisce un antecedente causale, e si sarebbero verificati ugualmente anche senza di essa, né per quelli preesistenti. Anche in queste ultime ipotesi, peraltro, debbono essere addebitati all'agente i maggiori danni, o gli aggravamenti, che siano sopravvenuti per effetto della sua condotta, anche a livello di concausa, e non di causa esclusiva, e non si sarebbero verificati senza di essa, con conseguente responsabilità dell'agente stesso per l'intero danno differenziale. (Nella specie, la Suprema corte, sulla scorta del principio da ultimo specificato, ha confermato la sentenza impugnata che, con riferimento all'azione di un lavoratore che aveva agito per il risarcimento del danno nei confronti del suo datore di lavoro per suoi ripetuti comportamenti vessatori, aveva riconosciuto la responsabilità dello stesso datore per i soli danni a lui imputabili a titolo differenziale per le ulteriori conseguenze patologiche di tipo depressivo che erano derivate dalla sua condotta, inquadrabile come mera concausa rispetto al quadro clinico del dipendente già affetto in precedenza da una situazione psichica compromessa, sulla quale, perciò, aveva prodotto un effetto di aggravamento e non di causa esclusiva, Cass. Sezione Lavoro, 8 giugno 2007 n. 13400).

Per quanto riguarda la prova del danno, l"attore deve introdurre nel processo un principio di prova dello stesso (es. relazione medica di parte), così imponendo al giudice il conferimento di incarico peritale di ufficio diretto a evidenziare tutte le conseguenze dannose derivanti dalla condotta già provata di vessazione.

In ultimo si deve notare che l"eventuale atto di dimissioni che il lavoratore abbia assunto a causa del comportamento vessatorio, sarà viziato a livello di vizi della volontà, o anche per incapacità naturale del soggetto; tutto di penderà dalla gravità del comportamento vessatorio.




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