Letteratura  -  Redazione P&D  -  09/09/2022

Matrimonio riparatore - Massimo Paradiso

Una giornata fredda come quella, al principio di settembre del 1576, raramente si era veduta. Anzi, più che non vedersi – visto che né i giorni né il freddo si vedono, neanche con la lente d’ingrandimento – una giornata simile non si era mai avuta: il gelo infatti si avverte, e cioè si patisce, soprattutto nelle ossa. Così pensava il buon Sancho, avviandosi all’udienza di buon mattino: era tutto infreddolito per le frequenti visite che nel corso della notte aveva dovuto fare alla ritirata. Troppi baci alla sua Dama Juana, la sera precedente! Già, aveva ragione il curato: le passioni portano l’uomo in rovina. Intanto, avevano portato lui a vagare nel palazzo di città in cerca di questa famosa ritirata, visto che non aveva potuto servirsi di un comunissimo pitale neanche per i bisogni diciamo minuti. 

“Nooo! – s’era scandalizzato il maggiordomo –. Il pitale è troppo comune, ed anzi volgare; è fatto per il popolino, non certo per un Governatore. E poi che figura c’avrebbe fatto se, nel mentre se ne serviva, qualcuno fosse entrato nella stanza?”. “Oh bella – ricordava Sancho d’aver replicato –. E perché mai qualcuno dovrebbe entrare nella mia stanza di notte?”. “Perché possono occorrere gravi incombenze, necessità impellenti: che so, una nuova invasione da parte dei mori, un’incursione di pirati...”. “Certo, aveva pensato il nostro. Baratteria è appunto un’isola, nonostante qualche somaro si ostini a parlarne come di una città, come gli era avvenuto di sentire in quei giorni. E perciò poteva darsi un’incursione di pirati. Però, ben aveva visto arnesi siffatti nella stanza del suo signore, che certo non era un volgare popolino... Comunque, si ripromise, visto che sono il Governatore farò un decreto per potermelo tenere nella stanza, almeno di notte”.

Anche quel giorno la sala era piena di curiosi e le guardie stentavano a mantenerli a distanza, in modo che ai querelanti fosse lasciato un po’ di spazio per poter esporre con agio le loro ragioni. Si fecero avanti dal lato sinistro tre persone: un uomo, né grasso né magro; una donna, né giovane né vecchia; una giovane, né bella né brutta. Dall’altro lato venne avanti un giovane alto, con lineamenti regolari e folti capelli neri e riccioluti: veramente un bell’uomo. L’uomo di mezz’età – distinto, pur senza essere un hidalgo: poteva essere un piccolo possidente, fors’anche un pubblico funzionario – era palesemente imbarazzato: si moveva a disagio nei panni della festa che aveva indossato per l’occasione e non si decideva a parlare. Infine, avvicinatosi al giudice, chiese sottovoce: «Eccellenza, sarebbe possibile tenere un’udienza, come dire?, senza tutta questa gente attorno, che sente, giudica, fa commenti e...». Il giudice rimase incerto: non si aspettava una richiesta del genere, ma il segretario verbalizzante intervenne subito: «Non è possibile. Le udienze devono essere pubbliche, affinché la gente veda che, secondo le direttive del duca d’Alba e Villahermosa, qui si fa giustizia e si giudica alla luce del sole».  “E, possibilmente, si ride alle spalle del nuovo Governatore!” aggiunse il segretario nella sua mente. “Ma almeno questa intenzione, rifletté, è andata largamente delusa. ‘Contadino: scarpe grosse e cervello fino’? Se mai: finissimo, per tutto quello che il giudice ha fatto vedere sinora” finì per concludere tra sé. 

«Parlate, dunque. Che cosa vi conduce qui?» chiese il buon Sancho, contento di tenersi il suo pubblico: finora, gli sembrava, s’era esibito con successo, riscuotendo applausi come un toreador nell’arena... L’uomo si fece coraggio e disse: «Eccellenza, mi presento. Mi chiamo Altamirano Salvatore e forse dal nome capirà che sono nato in terra di Sicilia dove mio padre, un hidalgo spagnolo, è stato segretario dell’Alcalde di Cefalù per molti anni, prima di rientrare in patria quando la guerra con le Fiandre ha richiesto che gli uomini più capaci...». «Certo, certo – l’interruppe il giudice, che ormai cominciava a temere la logorrea maschile non meno di quella femminile –. Venite piuttosto ai fatti che vi menano a questa istanza». Così disse, e il segretario si bloccò nella sua verbalizzazione: dove diavolo aveva imparato, Sancho Panza, a parlare in quel modo? Intanto, il “figlio dell’hidalgo” aveva ripreso a esporre il suo caso. 

«Sono qui, Eccellenza, per chiedere giustizia contro quest’uomo, uno scapestrato senz’arte né parte, un bellimbusto nullafacente, che prima ha insidiato la mia bambina, poi l’ha circuita, infine l’ha sedotta con le sue arti, con le sue arie da uomo di mondo...». Fece una pausa, emozionato, poi riprese: «È anche un millantatore, vanta di essere andato fin nelle Indie, nel Nuovo Mondo: una volta dice che c’è andato con Cristóbal Colón, un’altra con Hernán Cortés e ha partecipato alla conquista dell’impero Azteco. Figuriamoci! Lui non era ancora nato quando questi grandi uomini sono morti. Ma si sa, con la parlantina si incantano tante giovani, approfittando della loro inesperienza...». 

«E approfittando della loro ignoranza – intervenne la madre –. Peggio per te che non l’hai voluta far istruire. Sapete quali erano le intenzioni di mio marito?». La donna s’era fatta avanti, evidentemente arrabbiata, e, su invito del segretario, disse di essere Sperandio Concetta, moglie di Altamirano Salvatore. «Anch’io sono siciliana – specificò – ma di famiglia, non solo per esservi nata. Comunque stavo dicendo, col permesso di sua Eccellenza, quel che diceva mio marito quando sono rimasta incinta: “S’è masculiddu lu mannu a la scola, s’è fimminedda quazetta mi fa” e cioè, si affrettò a tradurre: se maschietto lo mando a scuola, se femminuccia mi resta a casa a fare la calza! Perché mio marito, in Sicilia, c’è nato solamente, ma è arretrato più d’un saracino, peggio di cento siciliani retrogradi. Mio padre invece, siciliano da generazioni, mi ha fatto studiare. Almeno un poco... – aggiunse dopo un’esitazione –. E adesso si lamenta che la ragazza è rimasta una sempliciotta, che s’è fatta infinocchiare da questo dongiovanni da strapazzo».

«Non annoiare sua Eccellenza con racconti inutili – l’interruppe il marito –. Veniamo piuttosto alle ragioni per cui siamo qui. Parlando delle mirabolanti imprese di questo bel tomo non intendevo certo fare dei pettegolezzi, quanto piuttosto far sì che sua Eccellenza si renda conto con chi ha a che fare. Basti dire che questo fannullone non è stato capace di riportare in paese due asini che gli erano stati affidati. Anzi, se non fosse stato per uno degli asini, probabilmente non sarebbe riuscito a tornare neppure lui!». Il Governatore sorrideva: già era stuzzicato da quella diatriba sull’educazione dei figli: una questione, che aveva avuto anche lui con sua moglie e che lì si arricchiva di venature campanilistiche a proposito delle differenze temperamentali siculo-ispaniche. Tanto più, adesso si era incuriosito per l’accenno a un asino che si era rivelato capace là dove un uomo aveva fallito. O almeno così gli era sembrato di capire. 

«Sì Eccellenza. Un suo zio, avendo comprato due asini alla fiera di Algarve, doveva andarli a ritirare ma, sentendosi indisposto, pensò bene di mandarvi questo incapace, se non altro per fargli guadagnare qualche maravedì. Il compito però dovette sembrargli ingrato e troppo faticoso, perché quest’inetto, sistematosi su un asino e legatosi al polso la cavezza dell’altro, pensò bene di farsi una dormita, tanto gli animali conoscevano la strada. E ancora dormiva quando arrivò a destinazione, tanto che fu lo zio a svegliarlo. “E allora?, gli chiese, Non dovevi riportare due asini? Com’è che ne riporti uno solo e una capra? E perché la capra è legata con una cavezza?”». Il pubblico si mise a ridere: evidentemente, qualcuno aveva sciolto l’asino e l’aveva sostituito con la capra, in modo che la cavezza attorno al polso oscillasse come se fosse legata a un animale. «Lo zio però – riprese l’uomo – non se la prese più di tanto, e a ragione. In fondo, aveva mandato per due asini e riceveva due asini e una capra!». Le risate del pubblico raddoppiarono, mentre il giovane sembrava non curarsene e ogni tanto faceva dei segnali alla giovane.

Anche il Governatore rise di gusto, tanto che lo esortò a continuare. «La volta successiva andò un po’ meglio. Lo zio era anche il padrino del giovane e perciò volle dargli un’altra possibilità. Stavolta gli asini da condurre erano quattro e perciò gli affidò l’incarico con mille raccomandazioni e gli affiancò un ragazzo perché lo sorvegliasse. Questo perdigiorno stavolta cercò di fare le cose per bene e, come poi riferì il ragazzo, non si addormentò; anzi, fatto all’incirca un miglio di strada, si voltò per controllare che gli asini lo seguissero. Quando però riuscì a contarne solo tre, credette d’impazzire e scese dall’asino per bastonare il ragazzo: evidentemente era lui che l’aveva rubato. Il ragazzo però l’invitò a contare nuovamente gli asini e questa testa di rapa dovette riconoscere che erano quattro! Si convinse perciò di aver preso un abbaglio e risalì sulla sua cavalcatura. Dopo un altro paio di miglia volle nuovamente verificare il numero dei somari e tornò a contarli, col medesimo risultato. Insomma, la conta e riconta si ripeté più volte, fin quando il ragazzo lo convinse che, per effetto di un qualche incantesimo, quand’era in sella a un asino riusciva a contare solo fino a tre, tanto vero che, sceso che ne fosse, ritrovava tutti i suoi giumenti». 

Le risa del pubblico e del giudice raddoppiarono. Gli unici a non ridere erano i due giovani, impegnati a scambiarsi dei cenni misteriosi, mentre il querelante riprendeva il suo dire: «Lo zio, infine, si persuase che più di una cavalcatura a Manuelito non si poteva affidare: e così fece la volta successiva, tanto più che si trattava di una bella giumenta. Stavolta, si disse, non c’è pericolo che ne perda uno per strada. Non curò invece di farlo accompagnare da qualcuno ed ebbe a pentirsene quando se lo vide arrivare, addormentato come al solito, a dorso di un asino. Lo zuccone tentò di convincerlo che si era trattato di un sortilegio o di un incantesimo, come nel caso della conta degli asini, ma lo zio non volle sentire ragioni. Glie le diede di santa ragione e non gli affidò più nessun incarico. Si seppe poi, dalle chiacchiere che giravano in paese, che quattro uomini gli si erano affiancati mentre dormiva e, sganciato il sottopancia della giumenta, avevano lentamente sollevato sella e cavaliere e, senza che il giovane si svegliasse, li avevano adagiati sul dorso d’un asino. A bordo del quale aveva poi fatto il suo ingresso trionfale nel cortile dello zio. Ecco quale scimunito ha sedotto mia figlia!».

Il giudice intanto, che pur s’era divertito, si rese conto che l’aula di giustizia si stava trasformando in un teatro. Che cosa avrebbe detto il duca se avesse saputo delle matte risate ch’erano risuonate sotto le volte a cassettoni del Palazzo di città? E a parte questo, rimuginava tra sé il buon Sancho, perché mai devo far da confidente per le questioni familiari e prestare orecchio poi ai malumori femminili? Forse che, come marito, non ho già la mia razione quotidiana di lamentele, accuse e recriminazioni? E cominciava a rendersi conto dell’utilità di aver a che fare con gli avvocati: certo, questi legulei sono un osso duro, rifletteva, ma almeno non ti fanno perdere le staffe [in tali termini si è espresso il resocontista, ma probabilmente più che per la perdita delle staffe il nostro Sancho si sarà lamentato per la rottura di ben altra... attrezzatura]”. Era comunque tempo di concludere e il giudice pensò bene di rivolgersi direttamente al giovane Manuelito. 

«E tu, giovanotto, non hai nulla da dire? Dopo quel che hai combinato, niente ti suggerisce la tua coscienza?» Sentendosi interpellato, il giovane si riscosse e alzò la testa: evidentemente, perduto dietro altri pensieri, si era distratto e non disse nulla. Al che il Governatore, contrariato, lo apostrofò: «Ma insomma! Non dici niente? Non vedi quante cose attestano contro di te?» [E anche qui il traduttore deve esternare la sua perplessità in ordine alla fedeltà del resoconto redatto dal cronista, che certo non s’è avveduto dell’involontaria citazione e soprattutto della sua inadeguatezza a un simile contesto]. 

Manuelito finalmente aprì la bocca e, con un filo di voce, disse: «Io..., io dico... Io, Eccellenza...». «Ma che io e io... – lo apostrofò il giudice –. Ti farò una domanda precisa e dovrai rispondere a tono. Insomma, te la vuoi sposare la giovane che hai sedotto, sì o no?», e nel dir così non poté evitare una nota di amarezza nella voce, ricordando che nulla invece aveva potuto fare per la sua Sanchita. 

Messo alle strette, Manuelito si decise a dire: «Io vorrei, Eccellenza. Sono loro che non vogliono!». «Loro, chi?» s’informò il giudice. «Sono i suoi genitori che non me la vogliono dare». Il Giudice stentava a credere alle proprie orecchie. Poi, ripensando a quanto aveva detto il padre della giovane su quel seduttore da strapazzo e sulla sua dabbenaggine, comprese che l’opposizione non era frutto di alterigia, o almeno non solo. «E tu perché la vorresti sposare?». «È l’unica donna che mi ha voluto» rispose Manuelito candidamente, lasciando il giudice di stucco. «E tu – chiese poi alla giovane – te lo vorresti sposare questo scapestrato?». «Anche oggi – cinguettò lei entusiasta. Poi, sospirando, aggiunse – È così bello! Me lo sogno tutte le notti...». «Solo per questo, te lo vuoi sposare?». «E perché no? – rispose lei – A me sembra che basta e avanza». Ma a smorzare i suoi entusiasmi intervenne il padre, che confermò la sua ferma opposizione a quelle nozze: nozze, così disse, che non stavano né in cielo né in terra. Chiedeva perciò – ed era quella la ragione per cui avevano disturbato sua Eccellenza – che vietasse al giovane di insidiare ulteriormente la figlia e gli intimasse di non avvicinarsi alla loro casa.

“Che fare?, si chiedeva il nostro giudice. Certo, un po’gli dispiaceva per i giovani e le loro speranze, ma sposarsi non è decisione che si può prendere contro il volere dei genitori. La prima virtù di una giovane è l’ubbidienza, pensò. E comunque, stando alla legge, a quell’età non poteva certo sposarsi senza il consenso del padre. D’altra parte, se i due giovani gli avessero strappato il consenso, o magari fossero scappati di casa, poi, come avrebbero campato? Quel perdigiorno, tonto come una capra, come si sarebbe guadagnato il pane? La loro non sarebbe stata una vita di privazioni?”. Infine, alzatosi in piedi, si rivolse ai giovani.

«Ho sentito le ragioni dei vostri genitori e le vostre. Se anche potessi, e non posso, non darei autorizzazione per questo matrimonio. In ogni caso, quelle che avete addotto non sono ragioni adeguate per sposarsi. Lo so: non è facile vivere soli, ma è meglio star soli che male accompagnati; e comunque questa non è ragione decisiva per sposare una piuttosto che un’altra persona. E poi: la bellezza. Sarà pur bello Manuelito, ma fra un anno sarà ingrassato o prenderà l’itterizia: diverrà giallo come un limone e la sua bellezza svanirà. Oppure, disoccupato com’è, inizierà a frequentare l’osteria, tornerà a casa ubriaco e ti pesterà per sfogare la sua rabbia. Vedrai allora che il tuo sogno si rivelerà un incubo». «Ma..., ma io lo amo...», ripeté lei, quasi che il fatto dovesse essere risolutivo. «Ah, l’amore, l’amore – fece il giudice –. Certo ci vuole anche quello, ma non basta. Se il matrimonio fosse una casa, l’amore sarebbe la malta che lega i mattoni: necessario ma insufficiente. Senza mattoni non si costruisce la casa. Capisco perciò il vostro idillio d’amore: ma quanto durerebbe il matrimonio? Perciò rassegnatevi e andate in pace».

Si ritirò subito Sancho Panza, senza guardare in faccia i due giovani, che immaginava delusi e amareggiati. Ma se il cuore lo rimproverava, la ragione gli diceva che aveva fatto bene: non sono, quelle che aveva sentito, ragioni per sposarsi; o almeno non possono essere le sole, se si vuole che i matrimoni non si squaglino come neve al sole.

Brano tratto da

“Chiedo giustizia, Eccellenza..." Resoconto esattissimo delle udienze di giustizia tenute da S.E. don Sancho Panza Governatore dell’isola di Baratteria




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