-  Rossi Stefano  -  27/03/2013

NASCITA INDESIDERATA E DIRITTO ALLA PROCREAZIONE RESPONSABILE - Cass. 22.3.2013, n. 7269 - Stefano ROSSI

Con la sentenza n. 7269/2013, la Corte di cassazione, accogliendo il ricorso di una coppia che aveva proposto richiesta risarcitoria verso i sanitari responsabili di aver omesso gli adeguati accertamenti per individuare la malformazione da cui era affetto il loro bambino, ha ribadito che - a prescindere dalla volontà o meno di abortire della donna - la madre ha sempre diritto ad essere informata circa le condizioni di salute del nascituro, e dunque di eventuali malformazioni del feto, anche solo per prepararsi psicologicamente o materialmente; in caso contrario scatta la responsabilità del medico ed il diritto al risarcimento del danno biologico e economico.

 Nel caso di specie, la Corte d"Appello di Firenze nel 2007 aveva stabilito la responsabilità del medico perché la sua prestazione professionale "non soddisfaceva i requisiti minimi standard per il monitoraggio di una eventuale condizione e di idrocefalia", tuttavia aveva considerato non sufficientemente provata la volontà della madre di abortire nel caso fosse stata informata della malformazione e neppure il suo diritto a farlo in quanto non era stato dimostrato neppure il grave pericolo per la sua salute psichica. In particolare, in sentenza si rammentava che "perché possa essere praticata l'interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi 90 giorni, non è sufficiente che siano accertati processi patologici" nel feto, ma è necessario che si determini un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. E su questo nell"istruttoria compiuta "non erano emersi elementi".

 La Cassazione, non accogliendo il principio dell"inversione dell"onere della prova pur affermato in alcune sentenze, ha inteso attribuire alla donna, che chiede di essere risarcita, la prova dei fatti costituitivi della pretesa azionata e cioè che "l"informazione omessa avrebbe provocato un processo patologico tale da determinare un grave pericolo per la sua salute, e, in stretta connessione, che, nella situazione ipotetica data, ella avrebbe effettivamente optato per l"interruzione della gravidanza".

 In relazione a tale principio si è ritenuto necessario "precisare che la stessa richiesta di accertamento diagnostico e anche di più accertamenti diagnostici, ove non espressamente funzionalizzati alla verifica di eventuali anomalie del feto è un indice niente affatto univoco della volontà di avvalersi della facoltà di sopprimerlo, ove anomalie dovessero, emergere, innumerevoli essendo le ragioni che possono spingere la donna ad esigerli, e il medico a prescriverli, a partire dalla elementare volontà di gestire al meglio la gravidanza, pilotandola verso un parto che, per le condizioni, i tempi e il tipo, sia il più consono alla nascita di quel figlio, quand"anche malformato".

 Pertanto è "del pari del tutto apodittica la rilevata assenza di elementi indicativi della concreta volontà di abortire della donna, considerato che anche il rifiuto di sottoporsi ad amniocentesi, per i rischi ad essa connessi, è indice estremamente ambiguo, allorché venga espresso in un contesto diagnostico non allarmante, di talché la percezione del pericolo di danneggiare inutilmente un feto sano è ragionevolmente più forte del timore di mettere al mondo un bimbo gravemente malato".

 Con ciò la Corte si è espressamente richiamata al recente arresto di cui alla sentenza n. 16754/2012 per cui nell"ipotesi in cui la volontà di interrompere la gravidanza, in caso di diagnosi infausta, non sia stata espressamente manifestata dalla gestante al momento della richiesta diagnostica, la presunzione dell"inferenza logica di un"intenzione (l"interruzione di gravidanza) desumibile da una condotta significante (la sola richiesta di accertamento diagnostico), ha indubbio carattere di presunzione semplice. Il giudice di merito dovrà quindi accertare e valutare, secondo il suo prudente apprezzamento, così come disposto dall"art. 116 c.p.c., se, tenuto conto di tutte le circostanze del singolo caso concreto, tale presunzione semplice - che può essere legittimamente ricondotta a quella vicenda probatoria altrimenti definita dalla giurisprudenza di questa corte in termini di "indizio isolato" (la richiesta di accertamento diagnostico) del fatto da provare (l"interruzione di gravidanza) - possa o meno essere ritenuta sufficiente a provare quel fatto.

La rilevanza di tale presunzione andrà, inoltre, valutata da quello stesso giudice anche in relazione alla gravità della malformazione non diagnosticata.

In mancanza assoluta di qualsivoglia ulteriore elemento che "colori" processualmente la presunzione de qua, il principio di vicinanza della prova e quello della estrema difficoltà (ai confini con la materiale impossibilità) di fornire la prova negativa di un fatto induce a ritenere che sia onere di parte attrice integrare il contenuto di quella presunzione con elementi ulteriori (di qualsiasi genere) da sottoporre all"esame del giudice per una valutazione finale circa la corrispondenza della presunzione stessa all"asserto illustrato in citazione. Non sembra, difatti, predicabile sempre e comunque la legittimità del ricorso ad un criterio improntato ad un ipotetico id quod plerumque accidit perché, in assenza di qualsivoglia, ulteriore dichiarazione di intenti, non è lecito inferire sempre, sic et simpliciter, da una richiesta diagnostica la automatica esclusione dell"intenzione di portare a termine la gravidanza.

La Cassazione, infine, ha sottolineato che: "Non v"è dubbio che il primo bersaglio dell"inadempimento del medico è il diritto dei genitori di essere informati, al fine, indipendentemente dall"eventuale maturazione delle condizioni che abilitano la donna a chiedere l"interruzione della gravidanza, di prepararsi psicologicamente e, se del caso, anche materialmente, all"arrivo di un figlio menomato. E la richiesta dei corrispondenti pregiudizi deve ritenersi consustanzialmente insita nella domanda di risarcimento dei danni derivati dalla nascita, quali il danno biologico in tutte e sue forme e il danno economico, che di quell"inadempimento sia conseguenza immediata e diretta in termini di causalità adeguata".

Ad essere leso è quindi il diritto alla procreazione cosciente e responsabile che è, comunque, attribuito alla sola madre, per espressa volontà legislativa, ma in relazione al quale non pare improprio discorrere, in caso di sua ingiusta lesione, di propagazione intersoggettiva degli effetti diacronici dell"illecito (come incontestabilmente ammesso nei confronti del padre).

La titolarità del citato diritto soggettivo, riconosciuto espressamente dall"art. 1 della legge n. 194 del 1978, non può che spettare, si ripete, alla sola madre, in quanto solo alla donna è concessa (dalla natura prima ancora che dal diritto) la legittimazione attiva all"esercizio del diritto di procreare coscientemente e responsabilmente valutando le circostanze e decidendo, alfine, della prosecuzione o meno di una gravidanza. Ed infatti la stessa donna ad essere co-protagonista del suo inizio, ma sola ed assoluta responsabile della sua prosecuzione e del suo compimento. Chiaramente gli effetti dell"illecito omissivo vengono poi a coinvolgere ed investire anche il padre come affermato da ormai consolidata giurisprudenza.

 

Per approfondimenti sulla sentenza Cass. n. 16754/2012

S. Rossi, Il nascituro quale oggetto di tutela. Brevi note su una sentenza-manifesto

http://www.personaedanno.it/index.php?option=com_content&view=article&id=40349&catid=100

Per ulteriori ed autorevoli commenti

P.G. Monateri, Il danno al nascituro e la lesione della maternità cosciente e responsabile, in Corr. giur., 2013, 1, 59 ss.

S. Cacace, Il giudice "rottamatore" e l"enfant préjudice, in Danno e resp., 2013, 2, 155 ss.

E. Palmerini, Nascite indesiderate e responsabilità civile: il ripensamento della Cassazione, in Nuova giur. civ. comm., 2013, 2, 198 ss.

 




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