-  Centonze Salvatore  -  01/07/2013

NON E' AMMESSA LA PENA DI MORTE? - Cass. 15758/13 - Salvatore CENTONZE

Salvatore CENTONZE pensa spesso a P&D ed il contributo di giornata dell'esperto in tema di stranieri è particolarmente interessante e suscita molte riflessioni.

Lo spunto promana da Cass., sez. VI Civile – 1, ordinanza 19 febbraio - 24 giugno 2013, n. 15758, presieduta da Salvatore DI PALMA, opera della relatrice, Consigliere Maria ACIERNO.

Chi desidera ripercorrere le varie pillole dell'Autore, avvocato in Lecce, può digitare sulla fotina per le più recenti o estendere la ricerca all'intero lemma 'Stranieri, immigrati'.

Buona lettura. (Paolo M. Storani)

Cass. 15758/13 "NON È AMMESSA LA PENA DI MORTE?" Salvatore CENTONZE

O.I., nigeriano ammesso alla protezione sussidiaria, viene condannato per spaccio di sostanze stupefacenti. La pena per il reato per il quale è stato condannato rientra nella forbice edittale di cui all'art. 16 d.lg 251/07 (superiore nel minimo a 4 anni o nel massimo a 10), per cui la protezione gli viene revocata ai sensi dell'art. 18. Il Tribunale di Roma prima, e la Corte d'appello poi, respingono il ricorso dello straniero, che propone ricorso per cassazione. Il reato è di quelli particolarmente odiosi "per l'effetto criminogeno derivante dalla diffusione dell'uso di sostanze stupefacenti" e, per tale ragione, la Corte avalla l'operato dell'amministrazione e dei due giudici di merito che l'avevano preceduta. Se ciò comporti in concreto il rischio di persecuzione dello straniero, costretto al rimpatrio per effetto della revoca della protezione, è affare che esula dal thema decidendum, non essendo stato formulato sul punto alcun motivo di doglianza innanzi alla Corte d'appello; sarà, semmai il giudice di pace ad occuparsene se chiamato a pronunciarsi sul (l'eventuale) opposizione al (sicuro) decreto di espulsione che ne seguirà.

A voler trovare un aspetto positivo della vicenda, potrebbe dirsi che la Corte sembra abbia fatto presto a rinnegare quell'odioso automatismo espulsivo a seguito di condanna, che pure aveva affermato appena dodici giorni prima (Cass. 14727/13).

La pronuncia in commento, però, offre lo spunto per una riflessione su alcuni aspetti di criticità del sistema delineato dal d.lg 251/07 sulla protezione internazionale e sussidiaria.

Ripercorriamo la vicenda. O.I. cittadino extracomunitario, entra in Italia e qui dichiara e documenta di essere sfuggito alla sua condanna a morte nel suo Paese; merita sicuramente la protezione sussidiaria (art. 14, lett. a), e la Commissione gliela riconosce.

Fino a quando persisterà tale situazione e comunque fino a quando sussisteranno gravi motivi umanitari, egli avrà diritto di godere della protezione e quindi di soggiornare in Italia (art. 15) - paese, per inciso, che ripudia la pena di morte per Costituzione (art. 27, ult. co., Cost.).

Durante la sua permanenza in Italia, lo straniero incappa in una grave vicenda giudiziaria e riporta una condanna per reati che comportano la revoca dello status (art. 16 e 18), senza però che sia venuto meno il grave rischio per la sua vita che aveva determinato il riconoscimento della protezione.

Dunque non ha più diritto di restare. Ma se viene rimpatriato (conseguenza obbligata della prima affermazione) lo uccidono.

Orbene, in questa situazione, si può legittimare la revoca della protezione?

Nè serve nascondersi dietro un dito affermando che il ricorrente ha formulato tardivamente il relativo motivo; che fosse a rischio morte in caso di rientro in patria non c'era bisogno che lo dicesse il difensore dello straniero: lo aveva già accertato la Commissione all'atto di riconoscergli la protezione sussidiaria!

Ragioniamo per sillogismi: se ammettiamo il rimpatrio nel suo Paese (premessa maggiore); e se ammettiamo che qui lo attende una condanna a morte (premessa minore); non stiamo (in conclusione) permettendo che sia condannato a morte?

La conclusione è talmente ovvia che la stessa Corte si sforza di mettere al riparo lo straniero dal rischio di essere sottoposto a conseguenze così gravi, suggerendo che "tali nuovi elementi di fatto potranno essere eventualmente valutati in sede di opposizione all'espulsione con riferimento alle cause d'inespellibilità fondate sull'applicazione dell'art. 19 d.lgs n. 286 del 1998".

Sennonché questa appare una garanzia del tutto insufficiente a preservare lo straniero dal rischio di condanna a morte, dal momento che:

1)      L'opposizione al decreto di espulsione è un atto meramente eventuale;

2)      L'opposizione di regola non sospende l'esecuzione dell'espulsione, con la conseguenza che la decisione potrebbe giungere tardivamente;

3)      La condanna a morte potrebbe dipendere da motivi diversi da quelli indicati dal primo comma dell'art. 19 t.u. Imm, con la conseguenza che il giudice non avrebbe nessuno strumento legale per impedire il rimpatrio dello straniero espulso.

Siffatta lettura degli articoli 14, 15, 16 e 18 d.lg 251/07 sarà pure ammessa dagli artt. 17 e 19 della Direttiva n. 83 del 2004, ma possiamo davvero dire che sia conforme a Costituzione?

 

 

 

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 1, ordinanza 19 febbraio - 24 giugno 2013, n. 15758

Presidente Di Palma – Relatore Acierno

Svolgimento del processo e motivi della decisione

Ad O.I., cittadino (omissis), è stata revocata la protezione sussidiaria dalla Commissione Nazionale per il diritto d'Asilo con provvedimento del 9/11/2009. Avverso tale provvedimento è stato proposto ricorso davanti al Tribunale di Roma ed, all'esito del rigetto del giudice di primo grado, reclamo alla Corte d'Appello. Anche il giudice di secondo grado ha respinto il reclamo. A sostegno della decisione assunta è stato affermato:

a) l'avvio del procedimento di revoca è stato comunicato all'interessato, come previsto dalla legge, con avviso della facoltà di svolgere difese e richiedere una audizione;

b) ricorrono nella specie, le condizioni previste dagli artt. 16 lettera b) e 18 del d.lgs n. 251 del 2007 per l'adozione del provvedimento impugnato, dal momento che il cittadino straniero è risultato responsabile, con sentenza definitiva, di un reato, quello di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, per il quale è prevista una pena edittale minima superiore a quattro anni e una massima superiore a dieci, rientrando conseguentemente nei parametri di gravità indicati nel citato art. 18;

c) la pena detentiva concretamene inflitta, pari a tre anni e due mesi di reclusione e 15000 Euro di multa consegue alla riduzione di pena dovuta al rito abbreviato scelto dal cittadino straniero;

d) la gravità della fattispecie delittuosa, oltre che rientrare nelle ipotesi contenute nell'art. 16 del d.lgs. n. 251 del 2007, si può desumere anche dalla natura del reato, da ritenersi particolarmente odiosa per l'effetto criminogeno derivante dalla diffusione dell'uso di sostanze stupefacenti;

e) non osta al rigetto del reclamo la situazione attuale della Nigeria posto che la norma impone di dare prevalenza, una volta acclarata la commissione di un reato rientrante nei predetti parametri normativi, alle esigenze della collettività del paese ospitante.

Avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione il cittadino straniero, affidato ai seguenti motivi:

1.) nel primo motivo viene censurata la violazione e falsa applicazione degli artt. 16 e 18 del d.lgs n. 251 del 2007 nonché degli artt. 17 e 19 della Direttiva n. 83 del 2004, per avere la pronuncia impugnata operato un giudizio meccanicistico sulla gravità del reato commesso dal ricorrente e sulla sua idoneità a produrre la revoca della protezione sussidiaria. Il minimo edittale di quattro anni ed il massimo di dieci stabiliti dal citato art. 16 devono essere considerati uno degli indici di valutazione della gravità del reato e non l'esclusivo parametro di giudizio, come invece è accaduto nella sentenza impugnata. Inoltre, viene censurata la mancata comparazione concreta tra le esigenze di sicurezza del paese ospitante e la situazione della ..., ove il ricorrente sarebbe esposto al concreto pericolo di essere condannato a morte, in quanto la situazione generale è ancora più grave per i cittadini che versano nelle condizioni del ricorrente rispetto al 2006, anno in cui gli fu riconosciuta la protezione sussidiaria.

2.) Nel secondo motivo viene denunciata la violazione dell'artt. 2 e 10, comma quarto del d.lgs. n. 286 del 1998, l'art. 3 del d.p.r. 394/99 e l'art. 3 L. n. 241 del 1990, nonché dell'art. 10, quarto comma del d.lgs. n. 25 del 2008, avendo la Corte omesso di pronunciarsi sulla mancata traduzione in una lingua conosciuta dal cittadino straniero (inglese) dell'avviso di avvio del procedimento di revoca. A causa di questa omissione il ricorrente non è stato posto in condizione di difendersi davanti alla Commissione Nazionale per il diritto d'asilo, di comparire e di presentare memorie difensive. Tale mancata traduzione costituisce una omissione grave dal momento che è la stessa autorità amministrativa a dichiarare, nell'avviso di avvio del procedimento di revoca: "il cittadino straniero non comprende la lingua italiana - parla inglese". A ciò deve aggiungersi la mancata traduzione in lingua inglese anche del provvedimento di revoca adottato dalla Commissione. In conclusione il ricorrente lamenta il vulnus al diritto di difesa e la omessa valutazione di tale specifico motivo.

Il primo motivo non merita accoglimento. L'art. 16, primo comma,del d.lgs n. 251 del 2007 afferma: 1. "Lo status di protezione sussidiaria è escluso quando sussistono fondati motivi per ritenere che lo straniero: a) abbia commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o un crimine contro l'umanità', quali definiti dagli strumenti internazionali relativi a tali crimini; b) abbia commesso, nel territorio nazionale o all'estero, un reato grave. La gravità del reato è valutata anche tenendo conto della pena, non inferiore nel minimo a quattro anni o nel massimo a dieci anni, prevista dalla legge italiana per il reato; c) si sia reso colpevole di atti contrari alle finalità e ai principi delle Nazioni Unite, quali stabiliti nel preambolo e negli articoli 1 e 2 della Carta delle Nazioni Unite; d) costituisca un pericolo per la sicurezza dello Stato o per l'ordine e la sicurezza pubblica". Il successivo art. 18 stabilisce che: "La revoca dello status di protezione sussidiaria di uno straniero è adottata se, successivamente al riconoscimento dello status, è accertato che j a) sussistono le cause di esclusione di cui all'articolo 16".

Dall'esame delle due norme emerge che la revoca della protezione sussidiaria può essere disposta nell'ipotesi in cui si sia commesso un reato "grave". Il parametro normativo, come può agevolmente evincersi dal mero esame testuale della lettera b) dell'art. 16 non predetermina in modo assoluto le ipotesi di "gravità", limitandosi a fornire un indice, desumibile dai minimi e massimi edittali di pena, senza però, ridurre esclusivamente all'automatica applicazione di questo criterio l'accertamento rimesso agli organi, amministrativi e giurisdizionali che devono assumere la decisione sulla revoca. La necessità di un giudizio fondato sul caso concreto costituisce un principio immanente in tutto il sistema normativo, costituzionale, Europeo e convenzionale delle procedure di rimpatrio dei cittadini stranieri e delle condizioni d'ingresso e soggiorno nel nostro paese. Nella specie, la Direttiva 2004/83/CE (recepita nel nostro ordinamento mediante il d.lgs n. 251 del 2007), prevede espressamente che lo status della protezione sussidiaria possa venire revocato quando vi siano fondati motivi che il cittadino abbia commesso un reato grave (art. 17). La determinazione del criterio di gravità viene rimesso agli Stati membri, salva la già rilevata necessità di una concreta valutazione della condotta o delle condotte criminose attribuite allo straniero. La trasposizione di tale criterio, genericamente indicato dalla Direttiva, nell'art. 16, primo comma, lettera b) del d.lgs n. 251 del 2007, come già osservato, è stata realizzata mediante l'adozione di un indice di gravità tendenziale ma non esclusivo, in modo da consentire l'esame concreto dei fatti criminosi e della loro pericolosità. Tale esame risulta eseguito, ancorché sinteticamente dalla Corte d'Appello di Roma. Viene infatti evidenziato, nell'ultima pagina della sentenza impugnata che la fattispecie delittuosa ascritta al cittadino straniero, relativa non solo alla detenzione ma anche allo spaccio di sostanze stupefacenti deve reputarsi di particolare gravità in considerazione "dell'effetto criminogeno generato dalla diffusione dell'uso di sostanze stupefacenti". La sufficienza della giustificazione fornita dalla Corte d'Appello di Roma deve, infine, essere posta in correlazione con la mancanza d'indicazioni difensive specifiche in ordine alla natura ed entità dei fatti, alla partecipazione del cittadino straniero ad essi, ad altre indicazioni incidenti sulla concreta valutazione del reato e sulla pericolosità per la sicurezza pubblica che è connessa alla sua commissione, al di là della definitivamente accertata responsabilità penale.

Per quanto riguarda infine la censura relativa alla mancata considerazione dei rischi che corre il cittadino straniero in caso di rimpatrio, occorre considerare che dall'esame dei motivi di reclamo rivolti alla Corte d'Appello di Roma (pag. 3 e 4 del ricorso) non risulta essere stato trattato specificamente tale profilo. Ne consegue l'inammissibilità di tale prospettazione nel presente procedimento, con particolare riferimento alla situazione attuale della XXXXXXX, e al rischio per il ricorrente di essere sottoposto alla pena di morte. Tali nuovi elementi di fatto potranno essere eventualmente valutati in sede di opposizione all'espulsione con riferimento alle cause d'inespellibilità fondate sull'applicazione dell'art. 19 d.lgs n. 286 del 1998.

In ordine al secondo motivo deve in primo luogo osservarsi che l'obbligo di traduzione degli atti relativi ad una domanda di protezione internazionale, così come stabilito nell'art. 10, comma quarto del d.lgs n. 25 del 2008 è esteso al procedimento di revoca

e sorge con l'avviso di procedimento ex art. 7 L. 241 del 1990, in quanto adempimento obbligato ex art. 18 decreto legislativo sopracitato (sulla doverosità dell'avviso, Cass.10546 del 2012). L'equiparazione dei diritti e delle garanzie procedimentali e processuali tra domanda di protezione internazionale e revoca (e conseguente opposizione ad essa) costituisce interpretazione costituzionalmente obbligata della disciplina normativa sopra esaminata. In secondo luogo, deve osservarsi che la Corte d'Appello ha implicitamente respinto tale specifico motivo avendo affermato di ritenere ritualmente avviato il procedimento di revoca in quanto preceduto dall'avviso richiesto dalla legge. La parte ricorrente ha, tuttavia, formulato un motivo formalmente riferito esclusivamente alla violazione dell'art. 10 citato, pur evidenziando, nella seconda parte dello sviluppo argomentativo della censura, che la sentenza impugnata aveva omesso di pronunciarsi sulla mancata traduzione dell'avviso di avvio del procedimento di revoca. Deve, pertanto, preliminarmente essere esclusa la fondatezza del vizio fondato sull'omessa pronuncia, in quanto la Corte, ancorché senza soffermarsi specificamente sul profilo della traduzione, ha valutato la legittimità dell'avvio del procedimento. Tale censura potrà, pertanto, essere apprezzata come un vizio riguardante l'omessa o carente motivazione su un punto decisivo della controversia, tempestivamente indicato nei motivi d'appello. Premessa tale qualificazione, tale censura può essere affrontata unitamente al già richiamato vizio di violazione di legge, attesa l'evidente connessione logica tra di essi. La Corte ritiene infondate le censure in questione, dovendo tuttavia provvedere ad integrare e correggere la incompleta motivazione della sentenza impugnata.

Nella formulazione della censura, la parte ricorrente, pur avendo correttamente individuato l'atto da cui sarebbe scaturito il vulnus subito all'esercizio del diritto di difesa davanti alla Commissione Nazionale per il diritto d'asilo, non fornisce alcuna concreta indicazione sul contenuto di tale lesione. Viene affermato che il cittadino non ha potuto svolgere l'audizione prevista ex lege ma non si da alcuna indicazione in ordine agli elementi di fatto che avrebbero potuto diversamente far valutare la condotta criminosa posta a base del provvedimento di revoca, successivamente confermato in primo e secondo grado. Anche nelle difese successive, le censure hanno analogo contenuto. Si lamenta in astratto, l'omissione dell'audizione e del diritto a depositare memorie ma nulla si indica in ordine alle ragioni della revoca. In nessun grado del giudizio, come può agevolmente ricavarsi dall'esame della narrativa del ricorso, si formula un concreto giudizio alternativo a quello di gravità in ordine al reato incontestatamente commesso dal cittadino straniero. La violazione del diritto di difesa, secondo il costante indirizzo di questa Corte, (ex multis Cass. 6686 del 2010; 4340 del 2010) deve essere effettivo e non meramente formale. Nella specie, il cittadino straniero ha tempestivamente e pienamente partecipato a tutti i gradi di giudizio, potendo in ciascuno di essi chiarire perché la mancata audizione tempestiva davanti alla Commissione avrebbe costituito, in concreto, una lesione del proprio diritto di difesa e quali allegazioni di fatto non è stato possibile dedurre allora e nel successivo procedimento giurisdizionale. Al riguardo deve rilevarsi che l'orientamento di questa Corte in ordine all'obbligo di traduzione degli atti del procedimento di protezione internazionale è univocamente diretto ad escludere il rilievo di vizi meramente formali ed ad escluderne il rilievo qualora il diritto di difesa si sia potuto dispiegare compiutamente, come nella specie, nonostante l'omessa traduzione di un atto. (Cass.24543 del 2011). L'omessa traduzione del provvedimento di revoca della Commissione, peraltro non qualificabile come autonomo motivo di censura, non determina, per conforme orientamento di questa Corte, l'invalidità dell'atto, cui consegua una pronuncia di annullamento, essendo comunque il giudice, tenuto ad esaminare il merito della domanda (Cass.26480 del 2011), anche in presenza di tale omissione, salvo il diritto alla rimessione in termini nell'ipotesi in cui la mancata comprensione dell'atto stesso abbia ritardato per causa non imputabile alla parte l'esercizio del diritto di difesa (Cass. 18493 del 2011, 420 del 2012).

In conclusione il ricorso deve essere respinto.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso.




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