Letteratura  -  Redazione P&D  -  09/08/2022

Parcelle d’avvocato - Massimo Paradiso

Si qualificò esplicitamente come il “Principe del Foro di Leòn” l’avvocato Felipe Juliano Senarrege, un uomo imponente che ostentava una gran barba e una grandiosa autoconsiderazione, al punto da ritenere necessario chiarire, a scanso di equivoci, perché mai un professionista della sua portata si presentava in un’aula come quella (così disse, non tentando neppure di ingraziarsi colui che quella giustizia doveva somministrare): un’aula – questo non lo disse, ma lo si comprese agevolmente – destinata ordinariamente a decidere liti da quattro soldi e soltanto per uno scherzo del destino le controversie di chi, come lui, potesse vantare un tribunale dedicato. È noto infatti che al tempo molte categorie di persone – nobili ed ecclesiastici, professionisti e studenti universitari – avevano un loro tribunale, un giudice “specializzato” che decideva delle controversie che le riguardasse. Con quale garanzia di indipendenza, naturalmente, è facile immaginare. E la ragione che addusse per la sua presenza in quella sede fu che così aveva disposto il duca d’Alba e Villahermosa, che, titolare del mero e misto imperio, aveva temporaneamente sospeso la giurisdizione di tutti i tribunali dedicati, disponendo il deferimento a quella sede di tutte le controversie al momento pendenti. E ciò fino a nuova disposizione. 

Il buon Sancho, che nulla sapeva della beffa che si era inteso ordire a suo danno, gonfiò il petto d’orgoglio: ecco perché, si spiegò, erano venuti da lui tutti quei notabili: don..., come si chiamava?, e don..., anche lui, di nome, come faceva...? La fama delle mie decisioni, concluse, ha oscurato tutti gli altri giudici, tanto che il Duca ha affidato a me tutte le controversie del contado! E si avvertì subito, nelle sue parole, l’eco di questa inusitata importanza, di questa autostima che egli ormai nutriva. 

«Dite, dunque, avvocato. Dite pure, vi ascoltiamo», mormorò con condiscendenza e voce suadente. Il sollecitato avvocato strabuzzò gli occhi per la sorpresa di un tale tono, ma dovette fare buon viso e, dopo un lieve inarcare di ciglia e una pausa che avrebbero dovuto sottolineare l’irritualità di un tono siffatto, disse: «Vengo qui per ottenere la corresponsione dell’onorario spettantemi, e delle competenze maturate, per la mia opera professionale. Segnatamente, si tratta della difesa in giudizio di don Alonso Fuenmajor, un noto possidente del contado. Riassumo molto concisamente la vicenda per non tediare questo giudice». E qui il buon Sancho provò una fitta involontaria: per la prima volta non veniva chiamato “vostra Eccellenza” e neppure “sua Signoria”. “Chi si crede di essere”, gli venne fatto di pensare, ma subito si disse: “Caro Sancho, non ti sembra di esagerare?”.

Espose dunque l’avvocato: «Credo sia noto a tutti il sistema fiscale attualmente vigente nel regno di Castilla e Leòn: come l’apparato faccia perno su un Recaudador de impuestos real – vale a dire un Esattore delle imposte reali – e si articoli poi in alcune Generalidades, ciascheduna delle quali dotata di una Oficina de finanzas, a sua volta affiancata da Receptores, incaricati di raccogliere le imposte dirette nelle singole zone, e da Granjeros, che sono invece gli esattori delle imposte indirette. Ebbene, non starò qui a tediare questo giudice e questo inclito pubblico, che vedo numeroso e competente, con soverchi particolari sulla struttura burocratica e sulle articolazioni interne del complessivo apparato, né sulle dinamiche che, all’interno di ciascuna struttura, determinano...». «Sì, avvocato – interloquì il giudice – e di questo le siamo grati, noi e questo inclito pubblico. Faccia conto che già conosciamo il contesto istituzionale all’interno del quale la vicenda si è innestata e poi sviluppata» [E qui il resocontista deve avvertire che, forse, non sono state esattamente queste le espressioni impiegate dal giudice: è questo però il senso della sue parole]. 

«Bene. Bene – masticò amaro l’avvocato. “Quando si ha a che fare con bifolchi, pensò, cos’altro ti puoi aspettare se non spregio per la tua oratoria e il tuo tentativo di dirozzarli?” Ma naturalmente nulla disse di tutto questo, pur non rinunciando testardamente a far valere la sua impostazione. «Appurata perciò la correttezza del mio iniziale assunto, quella che accreditava larga competenza a questo eletto uditorio, passo senz’altro ad esplicitare quanto segue. Questo procuratore ebbe a difendere, di fronte alla competente Generalidad, il prefato don Alonso Fuenmajor. Gli era stata notificata infatti intimazione a pagare al fisco una somma enorme, spropositata». E nel dir così, l’avvocato si volse verso il pubblico per assaporare la reazione di sdegno che comunemente si suscita quando si evocano gli abusi del fisco, veri o presunti: si era levato infatti un mormorio che sembrava non finire più, perché ciascuno lamentava le angherie che aveva dovuto subire dal regio fisco. E su questo malcontento contava l’avvocato: sapendo quali contrarietà suscitava in tutti il solo pensare a tasse, imposte e gabelle, sperava di creare un clima favorevole alla propria causa. Il che, certo, non era decisivo, ma insomma era come... oggi diremmo: giocare in casa. 

Il giudice rimase silenzioso: era in arretrato con le tasse e quel vagabondare col suo don Chisciotte certo non avevano migliorato lo stato delle sue finanze. E a proposito, si disse, com’è che il governo di un’isola come Baratteria non dà diritto a qualche congruo beneficio, in denaro o in derrate? Certo, non avrebbe osato chiederlo al duca, e neppure confessarlo al suo signore, ma certo si sarebbe informato al più presto... Nel frattempo l’avvocato aveva proseguito nella sua arringa ma, a quanto pareva, si era nuovamente perso in dettagli inutili perché concluse: «... ma tutto questo è ben noto a questo pubblico e a questo giudice – e dagli con “questo giudice”, pensò il Governatore – e chi vi parla vi si è soffermato solo per non dare l’impressione di lasciare, nella vicenda che ne occupa, un qualche angolo inesplorato o almeno insufficientemente lumeggiato». Tirò il fiato e riprese: «Prima però di entrare come si dice in medias res, di entrare cioè nel vivo della questione e di esporre il nocciolo della vicenda – e cioè quello che, con efficace espressione latina, si indica come il punctum dolens –, vorrei fare un passo indietro, in modo da esplicitare in via preliminare il criterio che mi ha guidato nel gestire il mio operato. E invero, una volta che sia appurata la correttezza del criterio, non resterà che applicare il ridetto criterio perché ne scaturisca, bella e soda, la soluzione della vicenda. In tal modo infatti non potrà accadere che altri tipi di considerazioni – più o meno pertinenti, più o meno acconce alla bisogna – vengano ad offuscare o a deformare trasparenza e linearità del modus operandi e, pertanto, correttezza della conclusione che ne consegue. E ciò sia detto pur confidando – e tanto dico per la non temuta evenienza di un rigetto del criterio – non potersi comunque dare, se non per astratta ipotesi, che sol per questo finisca col venir pregiudicata in mio sfavore la decisione finale». 

«Va bene, avvocato. Sentiamo questo criterio». Non è che il povero Sancho avesse compreso granché di quanto detto dal causidico, a parte la sua insistenza sul “criterio”: a questo perciò si attenne perché, stanco di tante circonvoluzioni, sperava che l’avvocato andasse rapidamente al sodo. «Non temano, giudice e pubblico, che il suaccennato criterio sia frutto di peregrina o cerebrina escogitazione di questo procuratore: si tratta semplicemente di impiegare il criterio usuale, e ormai nettamente prevalente, di determinazione della tariffa per l’opera di procuratori, difensori e avvocati. Mi riferisco cioè non tanto al risalente, ma pur controverso, criterio del pactum de quota litis. No, Signori! Semplicemente chiedo l’applicazione del comune, naturale, starei per dire banale criterio della commisurazione del compenso al valore della causa!». «E c’era bisogno di tutta questa tirata?» sbuffò il segretario: non si era potuto trattenere, pur se lo disse sottovoce, mentre l’avvocato cercava invano tra il pubblico quel consenso che ben pochi erano disposti a concedergli, memori dell’avidità dei legali, vera o presunta che sia. 

Il Governatore ne approfittò per chiedere lumi al segretario e appurò essere questo un criterio ragionevole e comunque ordinariamente applicato, tenuto conto, aggiunse il segretario, che maggiore è il valore della causa, più intensa e defatigante è d’ordinario l’attività richiesta al difensore. Fu così che il buon Sancho si decise per un «Va bene, avvocato. Il criterio mi sembra corretto», mentre la controparte, don Alonso Fuenmajor, sgranava gli occhi per poi girarli smarrito tutt’intorno. «E dunque mi è facile e d’altronde necessitato concludere – dopo la saggia, sapiente decisione del nostro impareggiabile giudice – con la richiesta della condanna del convenuto, don Alonso Fuenmajor, al pagamento dei miei onorari, compensi e spese, in misura percentuale rispetto al valore della causa». 

Senza attendere sollecitazioni da parte del giudice, don Alonso si fece avanti e proruppe: «Ma Eccellenza! Lo sentite? E come faccio? Sapete a quanto ammonta la parcella che mi è stata chiesta?». «Questo – s’intromise subito l’avvocato – è solo un particolare non pertinente e comunque non in grado di invalidare il criterio che l’eccellentissimo giudice ha testé ratificato con le sue parole...». «Calma, avvocato. Forse, in ossequio alla concisione che avevate promesso – non rinunciò a ironizzare il nostro Sancho –, ve n’è mancato il tempo, ma tra le tante cose che avete detto, in effetti, questa sola è mancata: la somma di cui vi dite creditore». 

«Ebbene, Eccellenza, come voi stesso avete inteso col vostro augusto consenso confermare, l’entità del compenso dipende, direi in modo diretto e quasi automatico, dal valore della causa: è ben perciò da quest’ultimo che occorre prendere le mosse. Ebbene, senza più frapporre indugi di sorta dirò che il valore dei terreni di don Alonso Fuenmajor accertato dal fisco, sulla cui base era stato poi effettuato il calcolo dell’imposta, ammontava a 512.320 reali. Pertanto, l’imposta fondiaria era stata determinata in 51.232 reali». Un silenzio incredulo calò nella sala: si trattava di una cifra enorme [oggi, a un di presso, 300.000 euro]. 

Il Governatore ammutolì, per la semplice ragione che non aveva mai neppure immaginato potesse esistere una tale somma ed anzi che gli stessi numeri potessero arrivare a tale cifra. E a un certo punto si trovò a riflettere. Ma i numeri a un certo punto finiscono oppure no? Forse no, visto che non costa nulla aggiungerne sempre uno... Ma no, si disse poi, tutto finisce. Persino i feudi del Duca – che era la cosa più grande che riuscisse a immaginare – a un certo punto finiscono. E allora? Certo, ormai si sapeva che l’oceano non aveva fine. Gente fededegna gli aveva assicurato che là dove il sole sprofondava dietro le montagne, o dietro la gran massa d’acqua che c’era oltre le montagne, il mare non finiva. Gli era facile immaginarlo come una grandissima gebbia, come un abbeveratoio più grande di quello da cui bevevano le mandrie di Sua Eccellenza il Duca, ma immaginarlo senza sponde... Com’è che l’acqua non cadeva di fuori? Il barbiere, che dopo il curato era la persona più istruita del suo paese, gli aveva assicurato che la terra non era piatta, come sembrava, ma tonda come una palla e grandissima, immensa. E perciò si poteva continuare a camminare o a navigare senza mai cadere nel vuoto, come aveva fatto l’Ammiraglio del Mar Oceàno, il grande Colòn. Ed anzi, a forza di camminare si finiva col ritornare al punto di partenza. E questo l’aveva capito subito, perché il barbiere glie lo aveva fatto “vedere” facendo girare la punta di un dito attorno a una zucca: in effetti si tornava al punto di partenza. Ma restava una domanda: quando a forza di camminare si arriva di sotto, com’è che non si cade nel vuoto? Basta così, si disse alla fine. Il solo pensiero gli faceva girare la testa. 

Nel frattempo l’avvocato, per dar modo alla cifra di assestarsi nelle menti del giudice e del pubblico, aveva attinto a una caraffa d’acqua, bevendo abbondantemente; quindi riprese. «Ebbene, grazie al mio intervento la pretesa del fisco si è..., come dire?, ridimensionata fin quasi ad annullarsi: è stata infatti emanata una nuova intimazione a pagare: poco più di 5.000 reali. E dunque, grazie alla mia opera il succitato Fuenmajor ha risparmiato più di 500.000 reali. Ditemi dunque se questo difensore non ha ben meritato la sua parcella! Infine, e allo scopo di tacitare qualsivoglia residua perplessità, sottopongo all’attenzione di sua Eccellenza questo documento: è il visto di conformità apposto in calce alla mia parcella dall’Ordine degli Avvocati e Procuratori di Leòn...». 

A questo punto fu don Alonso intervenire: «Eccellenza! È noto che si può mentire, o almeno distorcere la verità, non solo dicendo il falso, ma anche dicendo una mezza verità. Tacendone cioè una parte. Ed è quel che ha fatto l’avvocato, perché di mezze verità ve ne sono molte nel suo discorso. Comincio col dire che la parcella che costui pretende da me, e che finora non ha trovato modo di esplicitare a dispetto del fiume incontenibile di parole, è di 40.985 reali!». Un lungo e sbalordito “Ohh” si levò tra il pubblico: era una somma con cui ci si poteva comprare un intero caseggiato. “Hai visto?”, si sentì chiaramente tra il pubblico, “Te lo dicevo io che un avvocato comincia a rigirartela che pare che abbia ragione da vendere, ma alla fine la stoccata te la dà e l’unica cosa sicura è la fregatura!”, mentre commenti di tenore analogo echeggiavano da più parti. 

«Eccellenza – tentò d’intromettersi l’avvocato, ma ormai don Ferrante, che era stato in silenzio tanto tempo, era incontenibile e la sua voce adirata ben presto sopravanzò ogni altra: «E la ragione è semplice: la percentuale che quest’uomo avidamente pretende è quella dell’8%: una misura già di per sé eccedente ogni ragione. Ma soprattutto, quel che non riesco ad accettare è il parametro di riferimento. Sapete a che cosa la applica? La applica all’intero importo della pretesa originaria del fisco: 512.320 reali: e pretende perciò 40.985 reali. Una somma che la vendita di tutte le mie proprietà non riuscirebbe a coprire». « E infine – aggiunse dopo una pausa – volete sapere in che cosa è consistita questa famosa difesa? Avrei potuto farmela da solo questa difesa, ma quando ho ricevuto l’ingiunzione sono rimasto sbigottito e, senza starci a pensare, sono subito corso dall’avvocato. Ebbene, l’avvocato è andato a parlare con l’Intendente della Generalidad e gli ha fatto notare come già nelle tavole fondiarie il mio fondo è catastato per appena 90 pertiche quadrate: era perciò su quella base che andava determinata la tassazione! Era perciò evidente che un funzionario dell’intendenza per errore aveva trascritto uno zero di troppo: sia nel valore dei fondi, sia nell’imposta dovuta. È così che l’avvocato ha ottenuto subito lo sgravio. E questo è praticamente tutto quello che ha fatto». Qui però tacque don Ferrante, sopraffatto dall’emozione. 

L’avvocato fu lesto a replicare. «Nelle parole del convenuto c’è del vero e c’è dell’utile. Ma l’utile non è vero e il vero non è utile. Certo, lo sgravio l’ho ottenuto subito. Questo è vero, ma non è utile alla sua causa: tutti sanno che più è rapida la giustizia che si ottiene, maggiore è il suo valore. Non è vero invece che questa sia stata la mia sola attività. Per modestia e per non tediare il pubblico ho omesso di dire che la mia difesa ha ottenuto un altro risultato. Per farla breve, ho richiamato l’attenzione dell’Intendente sulla Regia Risoluzione del 7 ottobre 1572: quella che prevede una rateazione delle imposte per chi abbia combattuto con onore nella battaglia di Lepanto. Ecco dunque che don Alonso Fuenmajor potrà godere di una comoda rateazione».

«Se poi sia vero – proseguì – che tutte le sue proprietà non basterebbero a pagare la parcella, non so: so per certo invece che questa asserzione rimane una mera affermazione di parte: non è stata oggetto di indagine in questo giudizio e pertanto, essendo non provata, per un verso va assunta come processualmente non vera; per l’altro, appare comunque non pertinente all’oggetto dell’odierno contendere. Sì che mi rifiuto di prenderla in considerazione. Faccio invece richiamo al criterio per la determinazione della parcella di cui abbiamo in precedenza discusso e che questo Eccellentissimo Giudice ha benignamente, ma anche correttamente, ormai accolto e condiviso. La parcella va determinata in percentuale rispetto al valore della causa». 

Il buon Sancho era confuso come non mai prima. La somma richiesta gli pareva..., anzi non gli pareva per nulla: mai avrebbe immaginato potesse esistere tanto denaro. D’altra parte, l’avvocato lo aveva messo nel sacco, facendogli approvare il criterio. Come uscirne dunque? Approfittò di una sorta di sospensione spontanea che si stava determinando: l’avvocato tornava alla sua caraffa d’acqua, il convenuto si confidava con alcuni astanti, il pubblico commentava variamente gli avvenimenti: nessuno prestava attenzione a lui. Rimase perciò assorto per un bel po’ ripercorrendo mentalmente, com’era solito fare, le fasi e le parole dell’udienza cercandovi un appiglio. Alla fine, quando ormai il pubblico rumoreggiava e tutti tentavano di richiamare la sua attenzione, gli sembrò di aver trovato uno spiraglio.

«Se mal non ho inteso, avvocato... Voi chiedete di quantificare la parcella sulla base del valore della causa? È così oppure ho mal compreso?». L’avvocato alzò gli occhi cielo, poi con un sorriso a mezza bocca disse: «Certo Eccellenza: ed è il criterio che, come certo rammenterete, vi siete già compiaciuto di condividere e approvare». Faceva il finto tonto il nostro Sancho e quella volpe di avvocato rimase impaniata nel suo pregiudizio iniziale: quello di aver a che fare con un bifolco. Abbassò perciò la guardia e rispose senza sospettare nulla quando il giudice gli chiese: «Ma il valore della causa lo stabiliscono le parti litiganti, oppure deve risultare dalla valutazione di persone estranee alla causa?». «Ovviamente, non ci si può affidare alle parti in causa – si spazientì l’avvocato –. Dev’essere un dato oggettivo, come quello che deriva da un atto della pubblica autorità: un decreto dell’Alcalde, la sentenza di un giudice...». «E quando una sentenza viene poi annullata da un’altra?». «È più che ovvio che vale la seconda, quella che annulla la prima» sospirò l’avvocato. 

Finalmente, il giudice si alzò in piedi e proclamò la sua sentenza: «La presente causa ha ad oggetto non tanto l’obbligo di don Alonso Fuenmajor di pagare la parcella al suo avvocato, Felipe Juliano Senarrege – richiesta che non viene contestata –, quanto l’ammontare di detta parcella: questione, viceversa, altamente controversa. E ciò sia detto non tanto con riferimento al criterio di commisurazione – stabilito in proporzione al valore della causa –, quanto al parametro cui rapportare detta commisurazione. 

In altre parole – proseguì – si tratta di stabilire quale sia il valore della causa che ne occupa. Or è indubbio che la lite giudiziaria si innesta su altra questione: l’ammontare dell’imposta fondiaria pretesa dal regio fisco nei confronti del sullodato don Alonso Fuenmajor. Va considerato infatti che la difesa esperita dal valente procuratore non si è limitata alla correzione dell’originaria pretesa tributaria: ha avuto infatti ben altra consistenza, avendo ottenuto per il suo cliente un’importante dilazione, con vantaggiosa rateizzazione delle somme dovute per l’appena decorsa annata agraria. Ed anzi, a ben vedere, proprio in questo consiste il nucleo portante e risolutore della sua opera difensionale, che va dunque remunerata. 

Per contro, la rettifica relativa all’ammontare originariamente preteso altro non è se non una correzione della precedente determinazione, effettuata dall’ufficio non appena venuto a conoscenza del suo errore. Vero che il sopracitato errore è stato segnalato dal Senarrege, ma trattasi di segnalazione che chiunque avrebbe potuto fare, e di correzione che la stessa Generalidad ben avrebbe potuto apportare d’ufficio. Non è dunque opera per la quale occorra una specifica o speciale qualifica qual è quella di avvocato o procuratore. Dovrà allora dirsi che a nulla è valso il suo intervento là dove ha segnalato il predetto errore? Nient’affatto! È invece servito a puntualizzare l’importo della tassa e, pertanto, a determinare altresì il valore della controversia e indirettamente il parametro di riferimento per la determinazione della sua parcella. 

È pertanto nell’accertato importo di 5.123 reali che va determinato il valore della presente causa e conseguentemente calcolata la parcella. Per tale parcella, ritiene questo giudice di accogliere la richiesta dell’avvocato Felipe Juliano Senarrege, determinando perciò in 410 reali il relativo importo. La seduta è tolta» aggiunse frettolosamente perché non aveva voglia di ringraziamenti e tanto meno di proteste per il suo operato [Ed anche a questo riguardo il resocontista non può non ritenere altamente probabile che il cronista giudiziario, nel rispetto della sostanza, abbia tuttavia rivestito con parole proprie il discorso del giudice]. 

L’avvocato era basito, don Ferrante lo guardava con aria di sfida, il pubblico lentamente si avviava all’uscita. 

Brano tratto da

“Chiedo giustizia, Eccellenza..." Resoconto esattissimo delle udienze di giustizia tenute da S.E. don Sancho Panza Governatore dell’isola di Baratteria




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