-  Redazione P&D  -  06/02/2016

PERMESSI AI DETENUTI E CONSUMAZIONE MATRIMONIALE - Cass. pen. 882/16 - Chiara MENICATTI

- Permesso di necessità

- Permesso premio

- inconsumazione del matrimonio

 

A fronte della lettura della sentenza di seguito riportata preme evidenziare la natura giuridica dei permessi di necessità e dei permessi premio e l"interpretazione dei presupposti per la loro concessione.

I fatti in breve coinvolgono un detenuto al quale il Tribunale di Sorveglianza respingeva la richiesta di concessione di un permesso di necessità, al fine di  poter consumare il matrimonio, contratto con il rito civile in carcere, in quanto non considerato, per il Tribunale, motivo grave da legittimare la concessione; anzi considerando l"esercizio dell"affettività una sola espressione della sessualità e come tale legittimata solo attraverso la concessione di un permesso premio ex art. 30 ter ord. penit.

Ai fini dell"inserimento della "consumazione" del matrimonio nelle maglie applicative dell"uno o dell"altro istituto, occorre soffermarsi  sulla natura giuridica di entrambi; in particolare sulla concezione del presupposto della gravità tipico dei permessi di necessità.

Ricordiamo che il permesso di necessità, ex art. 30 ord. penit. non è da considerarsi una misura di trattamento ma uno strumento a sostegno della persona ristretta, costituendo un valore morale concedibile a chiunque si trovi in regime detentivo.

I presupposti per la concessione dello strumento de quo attengono ad  eventi di particolare gravità che interessano il quadro familiare del ristretto;  in particolare tale concessione è ammissibile qualora un familiare si trovi in imminente pericolo di vita ed anche  qualora sussista un evento di particolare gravità.

Diversa disciplina è quella del permesso premio, ex art.30 ter ord. penit.che consente al detenuto di uscire temporaneamente dall"istituto di pena per consentire di coltivare interessi affettivi, culturali e di lavoro.

Questo strumento è legato all"attività trattamentale e non ad eventi eccezionali e gravi, costituendo quindi,  un momento essenziale dell"attività medesima e volto al reinserimento graduale nella società.

Ci si chiede, nel caso prospettato se l"eventuale inconsumazione del matrimonio deve considerarsi un evento di particolare gravità.

Secondo una interpretazione sistematica ed estensiva del concetto, tale fatto può considerarsi grave poichè determinerebbe lo scioglimento del matrimonio  quale possibile conseguenza giuridica. 

Se si depone quindi per la tesi positiva, allora il Tribunale di Sorveglianza avrebbe dovuto concedere il permesso di necessità ai sensi dell"art. 30 ord. pen.

Al contrario, secondo una interpretazione restrittiva, l"inconsumazione  non è da considerarsi un evento di particolare gravità ed irreparabilità; difatti da solo, non potrebbe costituire un valido motivo di scioglimento del vincolo, soprattutto tenendo in considerazione che uno dei due coniugi è sottoposto a restrizione temporanea.

Da ciò consegue ch"essa  può essere inserita nella disciplina giuridica del permesso premio, concedibile sulla base di presupposti trattamentali, valutando anche come requisito di ammissibilità per il detenuto, l"assenza dei collegamenti con la criminalità organizzata (presupposto rilevante nel caso sottoposto alla Suprema Corte), oltre che l"assenza di una particolare pericolosità sociale e la regolarità della condotta carceraria. 

La S.C. ritiene, nel caso di specie, di non discostarsi dal tenore letterale della norma relativa ai permessi di necessità ribadendo la sua portata applicativa limitata alle sole ipotesi in cui il detenuto o l"internato si trovi a dover fronteggiare una emergenza situazionale legata alla famiglia; con la conseguenza logico- deduttiva che la consumazione del matrimonio sarebbe considerata non più un presupposto ex art. 30 ord. penit. bensì,  una cura dei propri affetti a seguito della concessione del beneficio penitenziario, ottenuto,  valutando i requisiti di premialità ai fini della concessione del permesso ex art. 30 - ter. Ord. Penit.

 

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 29 settembre 2015 – 12 gennaio 2016, n. 882 - Presidente Siotto – Relatore Mazzei

Ritenuto in fatto

1. Con ordinanza dei 19 novembre 2014 il Tribunale di sorveglianza di Venezia ha respinto il reclamo proposto da C.D., in espiazione di cumulo di pene di anni 24, mesi 5 e giorni 25 di reclusione per i reati di cui agli artt. 416-bis, 575, 629 cod. pen. ed altri, anche aggravati dall'art. 7 legge n. 203 del 1991, con fine pena previsto al 1° ottobre 2034, diretta ad ottenere un permesso di necessità per recarsi presso la casa di accoglienza "Piccoli Passi" di Padova, dove incontrare la moglie e trattenere un rapporto intimo con lei.
A ragione della decisione il Tribunale ha addotto che la consumazione del matrimonio (il C. si era sposato con rito civile nel corso della detenzione, il 6 aprile 2009, con la donna cui era già unito in precedenza e dalla quale ha avuto due figli di sette e dieci anni al tempo della decisione) non rientrava nella previsione di cui all'art. 30, comma secondo, Ord. Pen., quale evento familiare di particolare gravità, legittimante il permesso anche a favore dei detenuti che non fruiscono di permessi premio, e, a conforto, ha richiamato la conforme giurisprudenza della Corte di legittimità (sentenza n. 48165 del 2008).
L'esercizio dell'affettività, inteso come espressione della sessualità, allo stato della normativa vigente è assicurato al detenuto dal permesso premio e non dal permesso cosiddetto di necessità, che l'interessato ha invocato anche al fine di evitare l'annullamento del matrimonio per mancata consumazione.
2. Avverso la predetta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il C. tramite il difensore, avvocato G.G. del foro di Padova, il quale deduce due motivi.
2.1. Erronea applicazione delle legge penale speciale e manifesta illogicità della motivazione.
C. ha chiesto la consumazione del matrimonio, da ritenersi evento unico e irripetibile ed ontologicamente eccezionale, e non l'esercizio (ordinario) dell'affettività. Tale atto non è rinviabile ai tempi lunghissimi del permesso premio.
L'art. 30, comma secondo, Ord. Pen. non va circoscritto ai soli eventi pregiudizievoli o deteriori per la condizione del nucleo familiare di appartenenza del condannato.
L'interpretazione restrittiva, illegittimamente e illogicamente sostenuta, contrasterebbe con l'art. 3, punto f), della legge n. 898 del 1970 e con le disposizioni che tutelano la famiglia.
2.2. In subordine, il ricorrente sollecita questione di legittimità costituzionale dell'art. 30, comma secondo, Ord. Pen., nell'interpretazione fattane dal diritto vivente, per violazione degli artt. 2 e 3 (secondo comma), 27 (terzo comma), 29 e 117 Cost., in riferimento agli artt. 8 e 12 Cedu (Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali), nella parte in cui dopo la parola "gravità" non prevede le parole "o rilevanza".
3. II Procuratore generale, nella requisitoria depositata il 25 marzo 2015, ha concluso per il rigetto del ricorso.

Considerato in diritto

1. II ricorso è infondato.
1.1. Questa Corte ha già affermato che non costituisce motivo grave che, se accertato, può legittimare la concessione di permesso al detenuto a norma dell'art. 30 legge 26 luglio 1975, n. 354, di Ordinamento penitenziario (abbreviata in Ord. Pen.), la necessità di trascorrere un breve periodo di tempo con il coniuge, al fine di consumare il matrimonio celebrato in carcere da parte di detenuto che non si trovi ancora nelle condizioni di poter beneficiare dei permesso premio ai sensi dei successivo art. 30-ter (Sez. 1, n. 48165 dei 26/11/2008, Rannesi, Rv. 242437).
1.2. II sollevato dubbio di costituzionalità in relazione agli artt. 2 e 3 (secondo comma), 27 (terzo comma), 29 e 117 Cost., quest'ultimo in riferimento agli artt. 8 e 12 Cedu, è manifestamente infondato, poiché rientra nella discrezionalità propria dei legislatore la limitazione della possibilità di concedere ai condannati e agli internati il permesso cosiddetto di necessità, previsto dall'art. 30 legge n. 354 del 1975, ai soli casi di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente e, solo eccezionalmente, per eventi familiari di particolare gravità, in adesione alla struttura e finalità dell'istituto che non costituisce un beneficio premiale, supponente una soglia minima di pena già espiata e la positiva valutazione della condotta in carcere, bensì una misura concedibile a qualsivoglia condannato proprio per il suo carattere emergenziale ed eccezionale e, quindi, coerentemente limitata a situazioni la cui gravità si ponga in termini di irreparabilità attuale (morte di un familiare o di un convivente) o concretamente probabile (imminente pericolo di vita degli stessi), o sia comunque connotata dall'incombere di eventi familiari particolarmente pregiudizievoli.
Ne consegue che esula dai limiti del controllo di legittimità costituzionale l'operazione additiva, sostanzialmente richiesta con la trasmissione degli atti al Giudice delle leggi, in funzione dell'interpretazione estensiva della nozione di "evento familiare di particolare gravità" fino a ricomprendervi l'evento di "speciale rilevanza", in cui resterebbe incluso il diritto dei detenuto di esercitare la propria sessualità a seguito di matrimonio contratto in carcere (sulla inammissibilità delle questioni di costituzionalità che richiedano interventi additivi in materia riservata alla discrezionalità del legislatore, in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata, si vedano, ex plurimis, le sentenze della Corte cost. n. 301 del 2012, n. 134 dei 2012 e n. 271 dei 2010; e le ordinanze: n. 138 del 2012 e n. 113 del 2012).
Va aggiunto che è manifestamente infondata la censura del ricorrente che riconduce l'esercizio della propria affettività nella sfera sessuale al diritto di sposarsi e di formare una famiglia (art. 29 Cost. e art. 12 Cedu) e al diritto al rispetto della vita privata e familiare (art. 8 Cedu), da riconoscere anche alle persone condannate, in stato di detenzione in carcere, attraverso l'istituto dei permesso di cui all'art. 30 Ord. Pen.
La Corte Edu ha già, più volte, ricordato che qualsiasi detenzione regolare rispetto all'articolo 5 della Cedu comporta, per la sua stessa natura, una restrizione alla vita privata e famigliare dell'interessato e che tali restrizioni sono legittime se non abbiano ecceduto quanto è necessario, ai sensi dell'articolo 8, paragrafo 2, della medesima Convenzione, alla pubblica sicurezza, alla difesa dell'ordine e alla prevenzione dei reati, in una società democratica (c.f.r., tra le più recenti: Dec. 1/4/2014, Bellomonte c. Italia, e Dec. 9/3/2013, Riina c. Italia).
E, nel caso di specie, considerata la gravità dei reati per cui è condanna in espiazione (inclusi nel catalogo di cui all'art. 4-bis Ord. Pen.), il lontano fine pena (2034) e la non remota decorrenza di essa (dal 18 settembre 2010) le limitazioni subite dal ricorrente nella sua vita privata e famigliare risultano del tutto proporzionate agli scopi legittimamente perseguiti attraverso l'esecuzione della pena senza che lo Stato abbia oltrepassato il margine di apprezzamento di cui gode in materia.
2. Segue il rigetto del ricorso anche per manifesta infondatezza della questione di costituzionalità prospettata e, ai sensi dell'art. 616, comma 1, cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 




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