-  Redazione P&D  -  09/02/2014

PRELIMINARE DI COMPRAVENDITA: CRITERI DI QUANTIFICAZIONE DEL DANNO - Cass. 2771/2014 – Sabrina CAPORALE

Il concetto di danno risarcibile, e in particolare, di lucro cessante, con riguardo all'inadempimento, da parte del promissario acquirente, di un contratto preliminare di compravendita immobiliare, è da riferirsi al principio, ex art. 1223 cod. civ., secondo cui il risarcimento deve porre il creditore nella situazione in cui si sarebbe trovato se l'inadempimento non si fosse verificato.

 

Questo, quanto emerso dalla recente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione, in materia di danno derivante da inadempimento del contratto preliminare.

Il provvedimento in oggetto, in verità, nasce a seguito dell"azione civile di risarcimento danni avanzata da un imprenditore avverso la società con la quale aveva, a suo tempo, stipulato un contratto preliminare di compravendita, relativo all" acquisto di un capannone.

Forte della promessa di acquisto, il promittente venditore aveva provveduto a disdire tutti contratti di locazione agli occupanti, ma, prima della stipula del contratto definitivo, la società acquirente comunicava "l"insorgenza di alcune problematiche tali da renderla impossibilitata all"acquisto".

Cosicché, instaurato il giudizio di primo grado dinanzi al Tribunale ordinario di Torino, quest"ultimo pronunciava sentenza di condanna del primo (per l"inadempimento nella stipula del contratto definitivo) calcolato nella misura della differenza tra il prezzo pattuito per l"acquisto dell"immobile e il prezzo ricavato dalla successiva vendita dell"immobile a terzi.

In parziale riforma di suddetta sentenza, giungeva la pronuncia della Corte d"Appello territoriale, la quale, seppure confermando, da una parte la responsabilità del promissario acquirente, "rideterminava in difetto, il danno subito dal venditore nella misura del 40% della differenza tra prezzo pattuito con il preliminare e prezzo realizzato dallo stesso in sede di successiva vendita".

Di qui il ricorso e la pronuncia della Suprema Corte romana.

Le ragioni poste a fondamento della propria decisione, così come la ricostruzione del fatto controverso - osserva la Corte – "risultano sostanzialmente contrastanti in quanto la sentenza impugnata, se da un lato, confermando in parte la pronuncia del Tribunale, ha riconosciuto a pieno l'inadempimento della società (promissaria) acquirente, dall"altro lato, ha ridotto il risarcimento già disposto dal giudice di primo grado, sul rilievo che, "qualora [esso] non si fosse trovato in una condizione economica negativa, il cui aggravio avrebbe comunque potuto prevedere, avrebbe potuto vendere l'immobile allo stesso prezzo a cui intendeva venderlo alla società".

Sul punto, alcune osservazioni.

È principio ormai consolidato per giurisprudenza concorde della stessa Suprema Corte di Cassazione che "il risarcimento del danno dovuto al promissario acquirente per la mancata stipulazione del contratto definitivo di vendita di bene immobile, imputabile al promittente venditore, consiste nella differenza tra il valore commerciale del bene medesimo al momento della proposizione della domanda di risoluzione del contratto, (cioè, al tempo in cui l'inadempimento è diventato definitivo) ed il prezzo pattuito" (Così Cass. n. 22384 del 2004).

Ciò posto, va osservato che, nel disporre la riduzione del risarcimento del danno, la Corte territoriale non ha fatto esplicito riferimento all' art. 1227 cod. civ. (concorso colposo del creditore), quanto piuttosto all'aggravarsi della condizione economica del venditore, considerata da questi prevedibile "perché sicuramente consapevole della propria posizione debitoria complessiva".

Ebbene una simile affermazione – sostengono i giudici della corte - risulta erronea, nonché profondamente lacunosa, se si considera "il fondamentale principio in materia di autonomia contrattuale, di cui all"art. 1322 cod. civ., secondo il quale rientra nella libertà delle parti determinare il contenuto del contratto". E dunque, "il mero rilievo che l'immobile sia stato venduto a un prezzo inferiore, contestualmente ad una situazione debitoria non positiva dell'odierno ricorrente, non può indurre a ritenere tale situazione soggettiva motivo idoneo a decurtare la liquidazione del risarcimento del danno conseguente ad un inadempimento (accertato sia dal Tribunale che dalla Corte d'Appello di Torino); ciò anche considerando che il promittente venditore, nella successiva vendita del capannone, aveva stipulato il contratto instaurando nuove trattative con terzi, fondate sulle condizioni alle quali questi ultimi avevano deciso di acquistare l'immobile de quo. Questa circostanza, non sembra possa essere in nessun modo considerata un fatto colposo del creditore, posto che il comportamento dell'odierno ricorrente non ha contribuito in alcun modo all'inadempimento della società promissaria acquirente".

(…) "Il concetto di danno risarcibile, e in particolare, di lucro cessante, con riguardo all'inadempimento, da parte del promissario acquirente di un contratto preliminare di compravendita immobiliare, - conclude la Corte - è da riferirsi al principio, ex art. 1223 cod. civ., secondo cui il risarcimento deve porre il creditore nella situazione in cui si sarebbe trovato se l'inadempimento non si fosse verificato. A tal proposito, la citata disposizione prevede il ristoro non solo del danno emergente, ma anche del lucro cessante, ossia di ogni conseguenza lesiva che, seppur non apparente e non immediatamente riscontrabile, gli sia derivata dall'azione dannosa".

"Rientra quindi nel diritto al risarcimento del danno, sorto in capo al promittente venditore a seguito dell'accertato inadempimento del promissario acquirente, il ristoro di tutti i danni, comprensivi tanto di danno emergente quanto di lucro cessante. Ed è in quest'ultima categoria che rientrano i danni nascenti dalla disdetta dei contratti di locazione agli occupanti durante le trattative del contratto preliminare, trattative che, come detto, non si sono mai concretizzate con la conclusione di un contratto definitivo e di conseguenza con la cessione del bene".

Queste le ragioni per cui i giudici della Suprema Corte conclusero per l"accoglimento del ricorso e la cassazione della sentenza impugnata in favore del ricorrente.




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