Diritto, procedura, esecuzione penale  -  Federico Basso  -  03/04/2022

Profili civilistici sull’operatività della causa di non punibilità di cui all’art. 648 ter.1, comma 5, c.p. 

Come noto, a seguito di numerose sollecitazioni a livello internazionale e sulla scorta di rilevanti istanze di politica criminale, la legge 15 dicembre 2014, n. 186 ha inserito all’art. 648-ter.1 del codice penale il delitto di autoriciclaggio, oggetto, peraltro, di recenti modifiche ad opera del d.lgs. 8 novembre 2021, n. 195, emanato in attuazione della Direttiva 2018/1673/UE.

In primo luogo, risulta opportuno evidenziare come tale reato costituisca una fattispecie plurioffensiva, giacché plurimi sono i beni giuridici tutelati dalla norma: innanzitutto il patrimonio, ma anche l’amministrazione della giustizia, la libera concorrenza e la trasparenza del mercato, le quali, in assenza di tale figura, sarebbero lese da condotte di reimpiego volte, da un lato, a far perdere traccia dell’origine illecita dei proventi derivanti da reato, dall’altro, a immetterli nel circuito del libero mercato, così falsando i meccanismi della concorrenza.

Soggetto attivo del reato in esame può essere solo l’autore o il concorrente del delitto-presupposto, a differenza, invece, dalle fattispecie di cui agli art. 648-bis e 648-ter; l’autoriciclaggio costituisce, pertanto, reato proprio.

Sul punto, questione assai dibattuta è la configurabilità del concorso ex art. 110 nel delitto in esame: parte della dottrina (G. Fiandaca – E. Musco) e della giurisprudenza pare orientata nel senso di ammetterlo, in virtù del principio di unicità del titolo di reato sancito dall’art. 117 c.p.; altra parte della dottrina (S. Beltrani; M.T. Trapasso) e della giurisprudenza, pare, invece orientata nel senso di escluderlo, con la conseguenza che l’eventuale compartecipe risponderà di riciclaggio e non di autoriclaggio, in quanto quest’ultimo, analogamente ad altre ipotesi di parte speciale, deve considerarsi una c.d. “fattispecie a soggettività ristretta”.

La condotta incriminata consiste nell’attività di chi, avendo commesso o concorso a commettere un delitto non colposo, impiega, sostituisce trasferisce, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione di tale delitto, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa.

Il legislatore, pertanto, punisce tutte quelle condotte poste in essere dall’autore o da un concorrente nel delitto-presupposto consistenti in un reimpiego in attività economiche di proventi illeciti e aventi una finalità dissimulatoria dell’origine criminosa degli stessi. 

In particolare, con “attività economiche e imprenditoriali” si intendono tutte le attività volte alla produzione o allo scambio di beni o servizi, con “attività finanziarie” quelle volte a generare ricchezza mediante l’utilizzo di strumenti finanziari e, infine, con “attività speculative” quelle volte a conseguire elevati guadagni a fronte, però, di elevati rischi.

Ciò posto, l’elemento soggettivo del delitto di autoriciclaggio è costituito dal dolo generico, dovendo l’agente rappresentarsi e volere l’impiego, la sostituzione, il trasferimento in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, dei provenienti dalla commissione di un delitto da lui commesso con modalità tali da ostacolarne concretamente l’identificazione della provenienza delittuosa.

L’autoriciclaggio costituisce poi un reato istantaneo a consumazione prolungata, per cui la consumazione deve individuarsi nel momento in cui il soggetto attivo pone in essere la condotta di impiego, sostituzione o trasferimento; qualora plurime risultino le condotte poste in essere in attuazione di un’unica operazione di reimpiego, allora, stante la predetta natura di tale reato, dovranno ritenersi unificate in un’unica condotta.

A livello sanzionatorio l’art. 648-ter.1 sancisce l’applicabilità della reclusione da due a otto anni e della multa da 5.000 a 25.000 €, salvi gli aumenti di pena previsti dalle ipotesi aggravate di cui ai commi 2, 3 e 5.

Al comma 6 è, invece, prevista un’attenuante per condotte latu sensu riparatorie e di collaborazione processuale (in ottica simile a quanto previsto in via generale dall’art. 62, n.6).

Infine, pare opportuno ricordare come la condanna per autoriciclaggio di uno dei soggetti apicali della persona giuridica costituisca, ai sensi dell’art. 25-octies, d.lgs., 231/2001, presupposto per la responsabilità amministrativa dell’ente, nonché, ai sensi dell’art. 80, d.lgs. 50/2016, una causa di esclusione dell’operatore economico dalla partecipazione a procedure di evidenza pubblica per l’affidamento di appalti pubblici e di concessioni.

Orbene, al di là degli aspetti prettamente sanzionatori, risulta, invece, strettamente legata alla corretta perimetrazione delle condotte punibili la causa di non punibilità prevista al quinto comma dell’articolo in esame, il quale esclude la punibilità delle condotte destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale del denaro, dei beni o delle altre utilità provenienti da reato.

Prima di procedere all’analisi dell’ambito di applicabilità di tale diposizione, occorre, tuttavia, soffermarsi sulla natura dell’istituto contemplato della medesima.

Secondo alcuni autori, infatti, la norma de qua contemplerebbe una mera causa di non punibilità, stante il suo chiaro dato letterale, il quale espressamente sancisce che le condotte ivi contemplate “non sono punibili”. 

Altri autori, invece, svalutando l’interpretazione letterale della norma (sulla scorta dell’osservazione per cui anche in riferimento a talune scriminanti il legislatore utilizza impropriamente codesta locuzione), preferiscono qualificare tale ipotesi di non punibilità come causa di giustificazione, la quale, pertanto, escluderebbe la stessa antigiuridicità del fatto e non semplicemente la non punibilità dell’agente per mere ragioni di opportunità. 

Un ultimo orientamento, invece, ritiene che la disposizione in esame non andrebbe considerata né come una causa di non punibilità, né come una scriminante, bensì andrebbe più propriamente definita come clausola di esclusione della stessa tipicità del fatto, il quale, pertanto, non avrebbe alcuna rilevanza penale allorquando si concretizzi in condotte destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale dei proventi illeciti. 

Tra tutte le interpretazioni, seppur con persistenti e rilevanti dubbi in merito, pare da preferirsi l’ultima, in quanto maggiormente coerente con il dato letterale e sistematico dell’intero art. 648-ter.1. Invero, la clausola in esame pare essere una definizione in negativo delle condotte contemplate dal primo comma, consistenti nell’impiego, nella sostituzione e nel trasferimento dei proventi illeciti in attività economiche, finanziarie e imprenditoriali, le quali, per loro stessa natura non possono certamente essere considerate mere attività di godimento e utilizzazione personale. In tal senso la disposizione di cui al quinto comma dovrebbe considerarsi quale naturale completamento e precisazione, seppur in negativo, del disposto di cui al comma primo, il quale descrive le predette condotte tipiche. Ciò, inoltre, pare confermato anche dalla formula di apertura del comma in esame, che sancisce la non punibilità delle attività ivi contemplate al di “fuori dei casi di cui ai commi precedenti”.

Orbene, così delineati i principali orientamenti in relazione alla natura della clausola in esame, occorre ora indagare quale sia il suo concreto ambito di applicazione.

Devono considerarsi “condotte […] destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale” tutte quelle attività che si esplichino in una mera fruizione, in un mero consumo al fine dell’acquisto di beni o servizi volti a soddisfare esigenze personali, volti, cioè, a far fronte ai bisogni o agli svaghi della vita privata del reo (si pensi, in tal senso, non solo ai beni strettamente necessari, ma anche ai beni di lusso eventualmente acquistabili con i proventi dell’attività illecita, quali: supercars, orologi, ecc.). In altri termini, il legislatore non ha voluto punire tutti quei comportamenti che vengono percepiti - sia giuridicamente, sia socialmente – quale logico e comprensibile sviluppo del delitto precedentemente commesso e non meritevoli, dunque, di sanzione penale (tanto che, antecedentemente all’introduzione del comma quarto, oggi quinto, dell’art. 648-ter.1 tali attività erano considerate dalla dottrina quale post factum non punibile). 

Ciò premesso, deve osservarsi come la disposizione in esame contempli sia l’“utilizzazione” sia il “godimento”. Secondo la dottrina maggioritaria tale dizione non andrebbe interpretata come espressiva di due concetti differenti, bensì dovrebbe indicare in entrambi i casi le condotte consistenti in un mero utilizzo del bene; in particolare, il termine “utilizzazione” andrebbe riferito ai beni mobili, mentre il termine “godimento” andrebbe riferito, invece, ai beni immobili.

Infine, la norma in commento specifica che sia l’utilizzazione, sia il godimento devono avere carattere “personale”. Come già illustrato, con tale terminologia il legislatore ha voluto sancire espressamente le specifiche finalità cui deve tendere l’utilizzo dei proventi illeciti, e cioè l’appagamento di esigenze personali dell’autore del reato ovvero del compartecipe: ci si chiede, tuttavia, se esuli o meno da tale concetto anche la concessione in godimento del bene a terzi. 

Certamente, come confermato anche dalla giurisprudenza, rientra nella nozione di uso personale l’utilizzo del bene posto in essere da uno dei familiari dell’autore del delitto-presupposto, stanti i reciproci e intensi legami di affetto che caratterizzano tali relazioni, certamente idonee a coinvolgere la sfera personale del reo.

Parimenti, sulla base delle medesime considerazioni, anche la concessione del godimento del bene ad amici o a parenti dovrebbe essere considerato quale utilizzo personale.

Maggiori problemi suscita, invece, l’eventuale concessione in locazione a terzi della res: in tal caso, infatti, il soggetto attivo percepisce dal conduttore un corrispettivo per il godimento del bene, col ché ci si chiede se tale condotta possa essere qualificata o meno come impiego del provento illecito in un’attività economica (da considerarsi punibile ai sensi del primo comma).

L’assai scarsa giurisprudenza pronunciatasi sul tema ha sancito la punibilità a titolo di autoriciclaggio di tale condotta, sulla scorta della considerazione per cui la percezione del canone di locazione escluderebbe il carattere personale del godimento, andando a connotare in termini di economicità l’attività posta in essere.

Tuttavia, come sottolineato da alcuni autori, forti dubbi permangono in merito a tale soluzione.  Come noto, infatti, ai sensi dell’art. 2082 c.c., è definibile attività economica quella volta alla produzione o allo scambio di beni o servizi e non, invece, quella volta al mero godimento della res attuata mediante la percezione dei frutti da questa eventualmente prodotti. I canoni di locazione percepiti dal locatore costituiscono, invero, frutti civili derivanti dal godimento che altrui abbia del bene: essi costituiscono non il provento di un’attività imprenditoriale, bensì esplicazione del potere di godimento che spetta al proprietario della cosa o al titolare di altri diritti reali su di essa, con la conseguenza per cui il soggetto che si limiti a percepire tali proventi non svolge un’attività volta alla produzione o allo scambio di beni o servizi e, pertanto, non assume la qualità di imprenditore. Tale distinzione risulta confermata anche dal costante orientamento giurisprudenziale che differenzia la semplice comunione a scopo di godimento dallo svolgimento di attività imprenditoriale in forma societaria mediante un bene in comproprietà, giacché nel primo caso i comproprietari si limitano a godere del bene attraverso la percezione dei canoni, nel secondo, invece, essi pongono in essere un’attività volta alla produzione o allo scambio di beni o servizi a seguito della stipulazione di un contratto di società.

In conclusione, in virtù delle considerazioni appena svolte, forti incertezze permangono in merito alla qualificazione della concessione di beni in locazione quale impiego in un’attività economica rilevante ai sensi dell’art. 648-ter.1, comma 1. Certamente, un’eventuale sottrazione di tale attività dall’ambito del penalmente rilevante potrebbe comportare l’impunità di condotte di reimpiego dalle quali comunque il reo tragga concretamente un vantaggio in termini economici e, perciò, in quest’ottica sarebbe preferibile l’orientamento fatto proprio dalla giurisprudenza.

La tematica è, dunque, assai sfuggente, attuale e interessante: spetterà ai futuri interpreti individuare le soluzioni più opportune.




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