-  Santuari Alceste  -  10/10/2013

QUALE FUTURO PER LE IMPRESE SOCIALI? – Alceste SANTUARI

In questi giorni, grazie anche ad un recente evento organizzato dal gruppo editoriale Vita e dal network informale "Make a change", l"impresa sociale è tornata a far parlare di sé. Tuttavia, mentre a livello europeo, anche sulla spinta dell"azione denominata "Social Business Initiative" l"impresa sociale gode di un pieno diritto di cittadinanza, in Italia, che pure vanta una tradizione secolare di imprenditorialità vocata al sociale e alla solidarietà, le imprese sociali fanno ancora fatica a decollare. Forse anche a causa di un loro inquadramento giuridico che non consente di individuarle alla stregua di fattori innovativi nello sviluppo di iniziative sociali.

Invero, preme ricordare che l"impresa sociale non è un nuovo soggetto giuridico, ma è una "nozione giuridica", pensata dal legislatore quale struttura organizzativa e gestionale idonea a contribuire allo sviluppo di un"azione sociale che sappia coniugare un"adeguata vocazione imprenditoriale e la promozione di valori socialmente riconosciuti.

Non si tratta – come detto - di una nuova forma giuridica, quanto piuttosto di una caratterizzazione imprenditoriale trasversale che sia le organizzazioni non profit, disciplinate nel libro I, sia le società di cui al Libro V del Codice civile, ivi comprese le cooperative sociali, ricorrendo taluni requisiti, possono assumere.

Pertanto, oltre alle associazioni, fondazioni e cooperative sociali, possono acquisire la qualifica di impresa sociale tutte le società di cui al Libro V del codice civile, che esercitano in via stabile e principale un"attività economica organizzata al fine della produzione e dello scambio di beni o servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale (d.lgs. 24.3.2006, n. 155, art. 1, 1° co.).

Non possono, invece, essere imprese sociali le amministrazioni pubbliche e tutte le organizzazioni nelle quali l"erogazione di beni e servizi è limitata per statuti ai soli soci. Gli enti ecclesiastici possono assumere la qualifica di impresa sociale limitatamente a un ramo di attività, purché adottino un apposito regolamento (art. 1, 3° co.).

L"impresa sociale è dunque quella in grado di coniugare l"attività di impresa con il perseguimento di finalità di interesse sociale e generale. Dall"attività imprenditoriale, segnatamente da quella principale, caratterizzata alla stregua di tutte le organizzazioni non profit, dall"assenza di uno scopo lucrativo, l"impresa sociale deve ottenere la maggior parte dei propri ricavi: "Per attività principale ai sensi dell"articolo 1, comma 1, si intende quella per la quale i relativi ricavi sono superiori al settanta per cento dei ricavi complessivi dell"organizzazione che esercita l"impresa sociale" (d.lg. 24-3-2006, n. 155, art. 2, 3° co.).

E" opportuno sottolineare che la disciplina normativa sull"impresa sociale integra ovvero si affianca alle altre discipline settoriali riguardanti le organizzazioni non profit. In questo senso, pertanto, il legislatore delegato ha confermato che le organizzazioni non lucrative di utilità sociale e gli enti non commerciali di cui al decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460, che acquisiscono anche la qualifica di impresa sociale, continuano ad applicare le disposizioni tributarie previste nel medesimo decreto legislativo n. 460 del 1997, subordinatamente al rispetto dei requisiti e delle altre condizioni ivi previsti" (d.lg. 24-3-2006, n. 155, art. 17, 1° co.).

 

Pertanto, le Onlus e gli enti non commerciali che assumono la qualifica di impresa sociale dovrebbero continuare ad applicare le disposizioni tributarie previste dal d. lg. n. 460/97. Si segnala che detto raccordo non è di facile implementazione atteso l"assetto particolarmente complesso della normativa dei soggetti non profit collegato non solo ad aspetti regolativi ma di identità e di ruolo. E su questo punto è intervenuta la Commissione Tributaria (CTR) della Toscana, la quale, con sentenza 18 febbraio 2013, n. 20/24/13, ha considerato le due discipline, quella sull"impresa sociale e quella sulle ONLUS, come attinenti a due branche giuridiche diverse tra loro.

 

Ancora, preme evidenziare che né la legge delega né il decreto legislativo hanno previsto alcuna specifica agevolazione per le imprese sociali, nonostante fin dall"inizio era forse questa la "novità" maggiormente attesa dagli operatori. Ne consegue che l"elemento da prendere in considerazione per valutare il trattamento tributario delle imprese sociali si rivela essere l"esercizio, in via stabile e principale, di un"attività commerciale.

 

L"assenza di previsioni agevolative di carattere fiscale e, la conseguente collocazione nel novero degli enti commerciali, rende sì l"impresa sociale una reale innovazione degli strumenti giuridici a disposizione dei "privati" per interventi di utilità sociale, ma da un punto di vista meramente tributario non apporta alcuna innovazione o incentivo utile a superare il confine tra modalità operative commerciali, da un lato, e intervento sociale, dall"altro. E di questo in particolare si è parlato nel corso dell"iniziativa richiamato in apertura. Ma possiamo affermare che sia soltanto un problema di agevolazioni fiscali ad aver frenato (e a frenare) lo sviluppo delle imprese sociali? O le ragioni dell"insuccesso di tale "nozione giuridica" sono da ricercare anche altrove? Taluni sostengono che uno dei motivi del mancato decollo delle imprese sociali sia da ricercare nel divieto di distribuzione di utili che caratterizza la fattispecie giuridica, che terrebbe lontani gli imprenditori che intenderebbero investire in attività sociali. Questa causa tuttavia non risulta così convincente, in quanto il non distribution constraint, da un lato, è proprio di quelle iniziative e attività che fin dall"origine si distinguono dalle imprese "tradizionali" in ragione della finalità perseguita e, dall"altro, rafforza la patrimonializzazione dell"impresa sociale, incrementando, allo stesso tempo, il valore reputazionale dell"organizzazione. Si potrebbe anche prevedere una parziale distribuzione degli utili, vincolata al di sotto di una certa (contenuta) percentuale, soluzione che – ad avviso di chi scrive – non condurrebbe comunque ad un più massiccio utilizzo dell"impresa sociale. Ricordiamo che quest"ultima (nozione giuridica) può essere "adottata" sia dalle organizzazioni non profit, disciplinate dal libro I del codice civile, sia dalle società di cui al titolo V. Immaginata come statuto trasversale, quindi, l"impresa sociale aveva la pretesa di costituire un bridge per colmare il gap intercorrente tra associazioni e fondazioni, da una parte, e società (commerciali), dall"altra. In quest"ottica, mentre le associazioni e le fondazioni che già svolgono una certa quantità di attività economico-imprenditoriali non avvertono l"esigenza di "vestirsi" anche da impresa sociale. Parimenti, le società commerciali del libro V del codice civile non avvertono né la necessità né l"opportunità di trasformare l"elemento "classico" del loro agire, quale è il profitto sul capitale investito, in un divieto assoluto di conseguire utili. Lo statuto trasversale che il legislatore del 2005/2006 ha inteso individuare nella nozione giuridica di impresa sociale trova una implementazione operativa e gestionale nella partnership tra società commerciali e organizzazioni non profit. Insieme, queste due realtà decidono di costituire una impresa sociale sotto forma, immaginiamo di srl, suddividendo, quindi, in modo più o meno proporzionale, a seconda degli accordi strategici, la sottoscrizione delle quote. Così facendo – rinviando ad altro contributo per qualche esempio concreto – da un lato, l"organizzazione non profit può gemmare (spin off) una struttura societaria vocata esclusivamente alla gestione di determinate attività (di natura prettamente economico-imprenditoriale). Dall"altro, la società commerciale può partecipare ad una sperimentazione gestionale / innovazione sociale sul territorio, dalla quale può conseguire una maggiore reputazione di carattere sociale (responsabilità sociale d"impresa), ma anche una possibilità di allargare il proprio mercato di riferimento. A ciò si aggiunga l"obbligo per l"impresa sociale di contribuire all"occupazione di una certa percentuale di persone svantaggiate. In ultima analisi, fino a quando non si abbatteranno le barriere ideologiche che ancora permeano l"agire sociale, identificabili, in specie, nel dogma fisiocratico e nel timore della c.d. "manomorta" sarà difficile che la cultura imprenditoriale non profit possa progredire in modo deciso.




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