-  Valeria Cianciolo  -  16/10/2016

Reati culturalmente orientati. Condannato il padre per le violenze sulla figlia sposa-bambina - di Valeria Cianciolo

Reati culturalmente orientati. Condannato il padre che giustifica le violenze del genero marito della figlia sposa bambina.

Nota alla sentenza Cassazione Penale, Sez. III, 29.09.2016 n. 40633

 

1. Il fatto – 2.La nozione di reato culturalmente orientato - 3. La giurisprudenza e i reati culturalmente orientati - 4. La violenza sessuale all"interno del matrimonio – 5. La Cassazione sull"aggravante dei futili motivi nei reati culturalmente orientati

1. Il fatto

Con la sentenza n. 40633 del 2016 depositata dalla III Sezione penale della Corte di Cassazione il 29 settembre scorso, gli Ermellini biasimano la condanna a una pena troppo mite di un genitore che, sordo alle denunce della figlia, imponeva alla ragazza minorenne di ubbidire ai voleri sessuali del marito impostole secondo la tradizione indiana. Nella sentenza cassata senza rinvio, il giudice di prime cure da un lato aveva condannato il padre per maltrattamenti in famiglia, mentre dall'altro lato aveva dichiarato assorbito il reato di concorso in violenza sessuale.

A 15 anni la vittima aveva già subito un matrimonio combinato in Bangladesh e le violenze sessuali quotidiane di un marito che lei non avrebbe mai voluto. Poi anche  l"indifferenza del papà, perché la volontà del marito va rispettata, sempre. Anche se la moglie ha 15 anni.

E poi la pena risibile che il Gup ha comminato al padre, denunciato per maltrattamenti, dopo il patteggiamento: un anno e dieci mesi di reclusione. Secondo il giudice, infatti, la condotta dell"imputato «lungi dal costituire sintomo dell"intento di abbandonare la figlia alla condotta violenta del fidanzato-promesso sposo rappresenterebbe piuttosto l"espressione di una modalità maltrattante che trova le sue radici nella formazione culturale».

Il Procuratore generale della Corte d"appello di Venezia presenta ricorso contro la prima, debole sentenza del Gup.

Secondo la Cassazione non è giustificabile il genitore che per effetto della sua non condivisibile e comunque biasimevole formazione culturale, in netto contrasto con le coscienze e il dettato costituzionale italiano, ritenesse di imporre alla figlia ai voleri del marito impostole.

Gli Ermellini esprimono, giustamente, totale contrarietà alla sentenza del gup che aveva ritenuto che il comportamento del padre non era indicativo della volontà «di abbandonare la figlia alla condotta violenta del fidanzato-promesso sposo», ma rappresentava piuttosto «l'espressione di una modalità maltrattante che trova le sue radici nella formazione culturale». Per questo, il Gup di Padova aveva escluso la responsabilità del padre nell'acconsentire gli abusi sessuali del genero. «Quel che maggiormente sorprende - scrivono gli "ermellini" rimproverando aspramente il Gup - è la patente di subcultura attribuita dal giudice» al padre «per giustificare da un lato il delitto di maltrattamenti ed escludere, dall'altro, qualsiasi coinvolgimento nella deliberata e colpevole tolleranza nei confronti dei genero per le condotte abusanti commesse in danno della figlia con loro convivente».

La Cassazione aggiunge che "peraltro" il Gup era al corrente degli atti di polizia giudiziaria e delle dichiarazioni della minorenne dai quali si desume «un vero e proprio clima di sopraffazione sessuale dettato dalla convinzione che per effetto del matrimonio, ma anche per effetto del pregresso fidanzamento organizzato dal padre, tutto fosse consentito al genero sul piano sessuale nel segno di un dominio assoluto da esercitare sulla ragazzina onde assoggettarla ai suoi desideri sessuali». Di fronte a questa situazione, prosegue il verdetto della Terza sezione penale, «affermare come fa il Gup che il genitore, solo per effetto di una particolare - e comunque non condivisibile - biasimevole formazione culturale che urta contro le coscienze e non può trovare la minima giustificazione, avesse il diritto di imporre alla figlia di ubbidire ai voleri del genero, è una vera e propria banalità che non può trovare ingresso nel nostro sistema giuridico e che non può non sorprendere per la facilità e superficialità con la quale tale affermazione sia stata fatta».

Granitica la condanna della Suprema Corte: «Il triangolo familiare che vede protagonisti da un lato suocero e genero, tra loro alleati in una sorta di patto di ferro che doveva vedere la ragazza assoggettata ai voleri sessuali del marito, dall"altro la minore, vittima sacrificale in ossequio a regole non scritte di legittimità del dominio sessuale per effetto del vincolo matrimoniale secondo i costumi indiani, fa sì che il padre debba in realtà considerarsi soggetto tenuto a vigilare sulla figlia minore per evitare che la stessa potesse subire violenze sessuali che pure la ragazza aveva avuto modo di denunciare ripetutamente, rimanendo inascoltata».

2. La nozione di reato culturalmente orientato

Con la sentenza in epigrafe, la Corte di cassazione ribadisce con chiarezza l"orientamento giurisprudenziale già affermatosi in Italia in tema di reati culturalmente orientati, argomentando incisivamente il netto rifiuto nei confronti di un"applicazione "culturalmente differenziata" del diritto penale, calibrata cioè sulle tradizioni religiose e sul background etnico e culturale del destinatario della norma penale.

Per comprendere pienamente il significato di questa pronuncia, è necessario prendere le mosse dalla nozione di reato c.d. "culturalmente orientato" (o "culturale") fatta propria dalla giurisprudenza e dalla dottrina italiane. Si parla di reato "culturale" quando «un"azione commessa da un immigrant, da un indigeno o da un appartenente ad una cultura minoritaria, pur se considerata come reato dal sistema penale (espressione della cultura maggioritaria), viene giustificata, accettata, promossa o approvata all"interno del proprio gruppo. Il reato culturale, pertanto, si configura soltanto dinanzi al presupposto che il background culturale dell"agente ha avuto un ruolo importante, anzi decisivo, nella realizzazione della condotta criminosa [1]».

In questa descrizione, è evidente l"antinomia tra due norme aventi come destinatario il medesimo individuo: da una parte, il fattore culturale che tollera, autorizza o addirittura prescrive ciò che invece, quella giuridica vieta e punisce.

Se tuttavia questa definizione può (forse) soddisfare le scienze sociologiche e antropologiche, non altrettanto può dirsi per le finalità prescrittive proprie del diritto, e in particolare del diritto penale, soggetto ai precisi vincoli di tassatività e determinatezza: quali categorie di norme culturali devono essere prese in considerazione ai fini del diritto criminale? Quale la nozione penalmente rilevante di "cultura"?

Il fattore culturale percorre infatti trasversalmente la struttura del reato, intersecando sia la tipicità, sia l"antigiuridicità, sia la colpevolezza, sia la punibilità, sia la fase di commisurazione della pena, e coinvolgendo dunque un gran numero di istituti penalistici.

 

3. La giurisprudenza e i reati culturalmente orientati

In relazione al tema dei reati culturalmente orientati, la giurisprudenza di legittimità, specie per il delitto di maltrattamenti in famiglia, tende a essere piuttosto rigorosa, negando la possibilità di escludere la colpevolezza del soggetto attivo (sia sul piano del dolo, sia in relazione all"ignoranza della legge penale)[2].

La giurisprudenza di legittimità ha, infatti, affermato che il giudice non può mai sottrarsi al suo compito di applicare le norme vigenti, non potendosi ammettere qualsiasi soluzione interpretativa che pretenda di escludere la sussistenza dell"elemento soggettivo del reato, invocando le convinzioni religiose e il retaggio culturale dell"imputato. Tale interpretazione, infatti, si porrebbe in contrasto con le norme cardine che informano e stanno alla base dell"ordinamento giuridico italiano e della regolamentazione concreta dei rapporti interpersonali. In particolare, nei confronti di soggetti che risultino portatori di tradizioni sociali o religiose e abitudini antropologiche confliggenti con la norma penale, il compito del giudice non può mai attuarsi al di fuori o contro le regole che, nel nostro sistema, fissano i limiti della condotta consentita e i profili soggettivi, nella cornice della irrilevanza dell"ignorantia iuris, pur letta in conformità all"interpretazione della Corte costituzionale

La giurisprudenza esclude anche la possibilità di ricorrere a cause di giustificazione, quali l"esercizio di un diritto o il consenso dell"avente diritto, in quanto ci si trova di fronte a condotte contrarie ai principi cardine del nostro ordinamento, ex artt. 2, 29 e 30 Cost.[3].

Più aperta la giurisprudenza di merito, che in un caso ha riqualificato il delitto di maltrattamenti in singoli episodi di ingiuria e minacce, e ciò proprio alla luce delle origini culturali del soggetto[4].

Nelle decisioni della Cassazione si afferma che la garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo (sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e fra queste è, senz'altro, da ascrivere la famiglia) da una parte, e la pari dignità sociale e l'eguaglianza senza distinzione di sesso (anche fra i coniugi), dall'altra, e la tutela dell'integrità psico-fisica e il pieno sviluppo della persona umana, dall'altra parte ancora, appartengono tutte al patrimonio di civiltà giuridica della Nazione e rappresentano, dunque, uno "sbarramento invalicabile" frapposto all'introduzione, nella società civile, di consuetudini, prassi e costumi, derivanti dal retaggio culturale o religioso del Paese di provenienza dello straniero, che si pongono in netto e radicale contrasto con essi [5].

La Suprema Corte ha, così, respinto il ricorso di un marocchino residente a Torino, che i giudici di merito avevano condannato per maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale in danno della moglie e sequestro di persona.

La Cassazione è stata decisa nell'affermare il principio in base al quale non si devono applicare sconti di pena per il fatto che si tratta di un "cittadino di religione musulmana".

La Corte spiega che un diverso trattamento andrebbe contro "i principi costituzionali" previsti dall'art. 2 e 3, che salvaguardano i diritti inviolabili dell'uomo e la pari dignità sociale senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. L'uomo, nel suo ricorso, aveva sostenuto che la condanna gli era stata inflitta secondo una mentalità tipica "della cultura occidentale" e quindi viziata da un "pregiudizio etnocentrico". La Suprema Corte ha respinto il ricorso rimarcando che "anche per ireati culturali o culturalmente orientati, il giudice non può sottrarsi al suo compito naturale di rendere imparziale giustizia con le norme vigenti" e di garantire una effettiva tutela alle vittime a prescindere dalla religione.

L'intervento giudiziario relativo a famiglie straniere, però, è comunque problematico anche perché il giudice deve utilizzare norme vecchie, inadeguate, in buona parte inservibili. Gli strumenti — le leggi e la loro interpretazione — con i quali l'Autorità giudiziaria affronta le questioni che riguardano i minori e le famiglie straniere sono quelli pensati, e applicati, nella realtà nazionale. O meglio, pensati in relazione alla società italiana esistente o riconosciuta nel momento in cui il legislatore emanava le leggi e disponeva gli strumenti d'intervento: quindi, sostanzialmente, per quello che riguarda il diritto civile, alla situazione italiana degli anni '70; per il diritto penale, l'impianto risale addirittura agli anni' 30.

Ma, nel frattempo, la famiglia e la società sono molto cambiate.

Più problematica appare la valutazione del consenso dell'avente diritto. Sul punto vi è una pronuncia giurisprudenziale importante: "Il reato di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) non può essere scriminato dal consenso dell'avente diritto, sia pure affermato sulla base di opzioni subculturali relative ad ordinamenti diversi da quello italiano. Dette sub-culture, infatti, ove vigenti, si porrebbero in assoluto contrasto con i principi che stanno alla base dell'ordinamento giuridico italiano, in particolare con la garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo sanciti dall'art. 2 Cost., i quali trovano specifica considerazione in materia di diritto di famiglia negli art. 29-31 Cost. (fattispecie in cui la scriminante del consenso dell'avente diritto era stata fondata sull'origine albanese dell'imputato e delle persone offese, per le quali varrebbe un concetto dei rapporti familiari diverso da quello vigente nel nostro ordinamento")[6].

In tema di maltrattamenti la Suprema Corte ha sviluppato un orientamento consolidato, secondo il quale l'appartenenza ad una cultura radicalmente diversa è inidonea a escludere la configurabilità del delitto. Così si è detto che "il reato di maltrattamenti in famiglia è integrato dalla condotta dell'agente che sottopone la moglie ad atti di vessazione reiterata e tali da cagionarle sofferenza, prevaricazione e umiliazioni, costituenti fonti di uno stato di disagio continuo e incompatibile con normali condizioni di esistenza. Né l'elemento soggettivo del reato in questione può essere escluso dalla circostanza che il reo sia di religione musulmana e rivendichi, perciò, particolari potestà in ordine al proprio nucleo familiare, in quanto si tratta di concezioni che si pongono in assoluto contrasto con le norme che stanno alla base dell'ordinamento giuridico italiano, considerato che la garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali, cui è certamente da ascrivere la famiglia (art. 2 Cost.), nonché il principio di eguaglianza e di pari dignità sociale (art. 3, commi 1 e 2, Cost.) costituiscono uno sbarramento invalicabile contro l'introduzione di diritto, o di fatto, nella società civile di consuetudini, prassi o costumi con esso assolutamente incompatibili"[7].

 

4. La violenza sessuale all"interno del matrimonio

Oggi può dirsi quindi del tutto superato l"orientamento che dava rilevanza all"exceptio maritalis, essendo indiscussa la punibilità della violenza sessuale commessa ai danni del coniuge. Tuttavia vi sono ordinamenti (come ad esempio, quello marocchino, ma anche come quello indiano della sentenza in commento) che non attribuiscono rilevanza penale a tali condotte, ma anzi le ammettono e le tollerano.

Quid juris nel caso in cui la violenza sessuale sia commessa nell"ambito di un matrimonio retto dal diritto straniero di tali paesi?

La questione è stata affrontata dalla Cassazione con la sentenza 17 settembre 2007[8].

Nel caso in questione l"imputato era stato condannato dal Tribunale di Rovereto a tre anni di reclusione per aver costretto la moglie a subire rapporti sessuali contro la sua volontà.

I due coniugi, entrambi marocchini, si erano sposati, andando tuttavia a convivere solo due anni e mezzo dopo; il matrimonio, combinato dai genitori, sarebbe stato imposto alla ragazza.

Dopo pochi giorni dall"inizio della convivenza l"imputato aveva preteso il rapporto sessuale dalla moglie dissenziente, ripetendo gli abusi in altre successive occasioni.

La Corte d"Appello di Trento, che aveva rigettato i motivi di appello, aveva però riconosciuto l"ipotesi della minore gravità prevista all"art. 609 bis comma 3, diminuendo la pena ad un anno e quattro mesi di reclusione.

L"imputato proponeva ricorso per Cassazione deducendo tre motivi di particolare interesse:

1) la violazione della l. n. 218 del 1995, art. 29, ai sensi della quale «i rapporti personali tra coniugi sono regolati dalla legge nazionale comune».

La difesa aveva infatti eccepito in Appello che il principio di territorialità non si applica al matrimonio retto da un diritto straniero che non prevede come reato la violenza sessuale intra-coniugale.

2) la violazione degli artt. 42 e 43 c.p. per l"insussistenza dell"elemento soggettivo. L"imputato infatti afferma di aver ignorato sia la contrarietà della moglie al matrimonio, sia la rilevanza penale della violenza sessuale intraconiugale in Italia.

3) la violazione dell"art. 62 c.p., n. 2 per il mancato riconoscimento dell"attenuante della provocazione, ravvisata nel rifiuto della moglie ad avere rapporti sessuali. Tale affermazione troverebbe fondamento nell"art. 143 c.c., che, tra gli obblighi coniugali, prevederebbe anche la reciproca disponibilità sessuale da parte dei coniugi.

La Corte respinge tutti i motivi.

Quanto al primo, dichiarato manifestamente infondato, si ritiene palesemente irrilevante che il diritto marocchino non preveda come reato la violenza sessuale intraconiugale; secondo il principio generale della obbligatorietà e territorialità della legge penale espresso dall"art. 3 c.p., le norme penali obbligano tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano, salvo eccezioni che nel caso di specie non ricorrono, nel territorio dello Stato.

La Corte evidenzia poi come nel nostro ordinamento sia ormai pacificamente riconosciuto che commette il reato di violenza sessuale il coniuge che costringa l"altro coniuge a compiere o a subire atti sessuali, poiché «il rapporto di coniugio non degrada la persona di un coniuge ad oggetto di possesso dell"altro coniuge, sicché, qualora esso si riduca a violenza ai fini del "possesso del corpo", costituisce un fatto gravemente antigiuridico, che non può non trovare la sua sanzione nelle norme poste a tutela della libertà sessuale».

Secondo la Corte infondato è anche il secondo motivo, poiché giustamente la Corte di Appello ha ritenuto sussistente l"elemento soggettivo, escludendo che fosse ravvisabile l"ignoranza incolpevole della legge penale.

La Cassazione ricorda quindi la decisione della Corte Costituzionale che, con la nota sentenza 364 del 1988, «ha escluso che sussista una situazione di ignoranza inevitabile, e quindi incolpevole, quando il soggetto non abbia, con il criterio dell"ordinaria diligenza, adempiuto al c.d. "dovere di informazione", ossia all"obbligo di espletare ogni utile accertamento per conseguire la conoscenza della legislazione vigente…».

Quanto all"ultimo motivo, l"attenuante della provocazione deve ritenersi esclusa poiché «non può considerarsi fatto ingiusto il rifiuto del coniuge di intrattenere rapporti sessuali, costituendo esso pur sempre espressione della libertà di autodeterminazione, che non può mai essere conculcata, anche se può costituire violazione degli obblighi assunti con il matrimonio e quindi causa di addebito della separazione».

Nonostante l"apparente irrilevanza attribuita al fattore culturale, si deve però osservare come la Corte avalli la scelta della Corte d"Appello di tener conto della cultura d"origine nel cui ambito la violenza sessuale tra coniugi non è configurabile come illecito, attraverso il riconoscimento di una ipotesi di minore gravità prevista dall"art. 609 bis, comma 3.

La Cassazione ha avuto modo di affrontare un caso simile con la sentenza 16 dicembre 2008: un immigrato marocchino era stato condannato dai giudici di merito per maltrattamenti in famiglia, sequestro di persona, violenza sessuale e violazione degli obblighi di assistenza familiare nei confronti della moglie e del figlio minore.

L"imputato nel ricorso lamenta che i giudici di merito abbiano applicato schemi valutativi tipici della cultura occidentale, senza valutare, nella condotta del reo, la diversità culturale e religiosa che ha improntato la sua condotta; ritiene inoltre che la decisione abbia come esclusivo fondamento sostanziale un pregiudizio etnocentrico.

In buona sostanza, secondo l"imputato, la risposta giudiziaria, in considerazione della diversità culturale, dovrebbe scriminare la condotta illecita per un difetto dell"elemento soggettivo; tale elemento sarebbe infatti escluso dal concetto che l"imputato, quale cittadino di religione musulmana, ha della convivenza familiare e delle potestà anche maritali, a lui spettanti quale capo-famiglia.

La Corte respinge il ricorso, affermando che le prospettive che danno rilevanza al fattore culturale in tanto possono attuarsi «se e nella misura in cui non contrastino con i principi cardine del nostro ordinamento, anche di rango costituzionale, in tema di famiglia, rapporti interpersonali di coppia ivi compresa l"interazione sessuale che nel nostro sistema è stata rigidamente ed innovativamente regolata dalla legge n. 66 del 1996».

Nello specifico, la Corte fa riferimento ai principi espressi dagli artt. 2 e 3 Cost., che «costituiscono infatti uno sbarramento invalicabile contro l"introduzione, di diritto e di fatto, nella società civile di consuetudini, prassi, costumi che si propongono come "antistorici" a fronte dei risultati ottenuti, nel corso dei secoli, per realizzare l"affermazione dei diritti inviolabili della persona, cittadino o straniero».

Conclude infine, affermando la sussistenza del dolo, poiché è obbligo per l"imputato conoscere, ai sensi dell"art. 5 c.p., il divieto imposto dalla legge, indipendentemente dal fatto che abbia ritenuto innocua o socialmente utile la sua condotta, potendo al più rilevare quest"ultimo profilo in punto di personalizzazione e adeguatezza della pena secondo i criteri dettati dall"art. 133 c.p. (profilo che tuttavia non è stato oggetto di ricorso).

In entrambe le sentenze viene fermamente esclusa, ai fini dell"esclusione dell"elemento soggettivo, la rilevanza della liceità della condotta secondo il diritto del paese d"origine dell"imputato e la sua diversità culturale. Rimane quindi un punto fermo che la violenza sessuale intraconiugale sia reato, indipendentemente dal concetto che il soggetto attivo ha della convivenza familiare e delle potestà maritali che gli competono.

 

5. Cassazione sull"aggravante dei futili motivi nei reati culturalmente motivati 

Il caso[9] preso in esame dagli Ermellini recentemente, concerne un tentato omicidio realizzato da un immigrato egiziano di fede islamica ai danni della figlia, all'epoca minorenne.

L'uomo aveva scoperto una foto che la ritraeva in atteggiamenti intimi con il proprio ragazzo, un italiano, il quale veniva frequentemente a trovarla a Milano, ove lei risiedeva assieme alla famiglia. Tale relazione affettiva, che aveva trovato l'appoggio della madre, aveva, invece, comportato un allontanamento del padre dal nucleo familiare, tanto che questi aveva deciso di trascorrere le vacanze da solo.

Ai primi di settembre, sapendo che la fidanzata era sola in casa, il ragazzo era andato a trovarla ma il padre era inaspettatamente tornato presso l'abitazione e al suo arrivo costei si era presentata avvolta in un asciugamano, poiché era appena uscita dalla doccia. La ragazza, al fine di evitare litigi col padre, aveva previamente fatto nascondere il proprio compagno sul balcone, ma il genitore lo aveva ugualmente scoperto e messo alla porta senza manifestare adirazione.

La mattina successiva, con la madre fuori per lavoro, l'uomo era entrato nella stanza della figlia, che era nel letto sveglia, e le aveva messo in testa un sacchetto di plastica con i manici all'altezza del collo al fine di soffocarla, mentre le rivolgeva frasi del tipo "sei il disonore...non dovevi fare questo".

La ragazza, però, era riuscita a lacerare il sacchetto e a liberarsi ma il padre aveva insistito nel proposito omicida tentando di strangolarla stringendole un braccio intorno alla gola. La minore, mordendo il braccio dell'uomo, era scappata ma l'imputato, raggiuntala, l'aveva riportata in camera facendola sedere sul letto. I due avevano parlato e il padre in lacrime le aveva domandato perché avesse violato i principi della religione musulmana.

La ragazza, quindi, aveva domandato all'uomo di punirla ma di non ucciderla, al che egli le aveva risposto che le botte non sarebbero servite a nulla e che lei avrebbe dovuto pagare per quello che aveva fatto, non importandogli nulla di finire in carcere. Approfittando quindi di un momento in cui il genitore si era recato in bagno, la ragazza era scappata rifugiandosi a casa della zia, ed aveva in seguito presentato una denuncia, che aveva comportato l'arresto dell'uomo.

Tratto a giudizio per il reato di tentato omicidio, i giudici di merito lo ritenevano colpevole, riconoscendo in particolare le contestate aggravanti della premeditazione - poiché l'imputato non aveva agito subito dopo la scoperta del fidanzato in casa ma solamente alla mattina successiva, avendo quindi rimuginato l'intera notte su come punire la ragazza e avendo atteso che la moglie uscisse di casa - e dei futili motivi, qualificando in tal senso l'aver agito per salvare l'onore della famiglia violato dalla circostanza che la figlia avesse instaurato una relazione con un giovane di fede religiosa diversa.

L'uomo veniva quindi condannato alla pena di sette anni di reclusione.

Nel proporre ricorso per Cassazione l'imputato contestava, tra l'altro, la ritenuta sussistenza delle aggravanti della premeditazione e dei futili motivi; con riferimento alla prima, in quanto la circostanza che egli avesse atteso l'uscita di casa della moglie non poteva essere sufficiente a ritenere integrata la circostanza; riguardo alla seconda, poiché in ogni caso non poteva essere considerato futile un motivo ad agire fondato sull'intento di difendere l'onore della famiglia in seguito alla violazione del precetto religioso di non congiungersi carnalmente con persone di fede diversa e al di fuori di un regolare matrimonio.

La Suprema Corte accoglie il ricorso con riferimento ai motivi appena menzionati concernenti la sussistenza delle due aggravanti. Ed infatti, per quanto concerne  la premeditazione, ritiene pacifica la circostanza che la sussistenza della medesima sia fondata su due requisiti. Un primo, di tipo ideologico o psicologico, consistente nel perdurare nell'animo del soggetto di una risoluzione criminosa ferma ed irrevocabile. Un secondo, di natura cronologica, rappresentato dal trascorrere di un apprezzabile intervallo di tempo tra l'insorgenza del proposito e l'attuazione del progetto.

La Corte ritiene che, nella motivazione della sentenza impugnata, non vi fosse la dimostrazione della sussistenza del primo requisito in quanto il fatto di avere rimuginato l'intera notte sulla situazione non era indicativo di un proposito fermo ed irrevocabile.

Con riferimento all'aggravante dei futili motivi, poi, la Corte ribadisce che tale circostanza ha carattere soggettivo dovendosi individuare la ragione giustificatrice della sua previsione "nel fatto che la futilità del motivo a delinquere è indice univoco di un istinto criminale più spiccato e della più grave pericolosità del soggetto". Fatta questa premessa, la Cassazione osserva che nella situazione concreta l'imputato aveva agito poiché si era sentito "disonorato dalla figlia, la quale non solo aveva avuto rapporti sessuali senza essere sposata e da minore, ma aveva avuto tali rapporti con un giovane di fede religiosa diversa, violando quindi anche i precetti dell'Islam".

Tali argomenti fanno concludere la Corte nel senso che "per quanto i motivi che hanno mosso l'imputato non siano assolutamente condivisibili nella moderna società occidentale, gli stessi non possono essere definiti futili, non potendo essere definita né lieve né banale la spinta che ha mosso l'imputato ad agire".

La Cassazione[10] nel 2010 ha affermato che nella qualificazione del motivo come "abietto", al fine dell"applicazione dell"aggravante di cui all"art. 61, n. 1 c.p., il giudice non può prescindere, nel suo scrutinio, dalle ragioni soggettive dell"agire in termini di "riferimenti culturali, nazionali e religiosi".
La vicenda è quella tristemente nota alle pagine di cronaca nera dei quotidiani nazionali di Hina Saleem, una ragazza poco più che ventenne di origine pakistana, che trasferitasi in Italia con la famiglia da qualche anno, cerca di integrarsi nella cultura occidentale, ne accetta i costumi e sceglie di convivere con un ragazzo italiano non musulmano, in contrasto con la volontà paterna che la vuole invece sposa di un uomo della sua stessa nazionalità. Per effetto di tale dissidio il padre, aiutato da alcuni parenti, la uccide sgozzandola e ne occulta il cadavere nel giardino di casa.
Condannato in primo grado a trent"anni con rito abbreviato, confermati in appello, il padre di Hina ricorre per cassazione al fine, tra l"altro, di censurare la sussistenza dell"aggravante dei motivi abietti: la sua condotta, infatti, sarebbe derivata "dal profondo scoramento per non essere riuscito nel suo ruolo di educatore e dal senso di vergogna nei confronti della comunità di appartenenza".
La Cassazione riconosce che "il motivo è abietto le volte in cui la motivazione dell"agente ripugni al comune sentire della collettività" e, cosa ancora più importante con riferimento al valore della motivazione culturale del reato commesso dall"agente, che "nella valutazione di siffatto rapporto di repulsione il giudice del merito non possa prescindere, nel suo scrutinio, dalle ragioni soggettive dell"agire in termini di riferimenti culturali, nazionali, religiosi dell"atto criminoso".

I giudici di legittimità ritengono tuttavia che, nel caso di specie, il reato non sia connesso alla cultura del soggetto in quanto "la motivazione assorbente dell"agire dell"imputato è scaturita da un patologico e distorto rapporto di "possesso parentale", essendosi la riprovazione furiosa del comportamento negativo della propria figlia fondata non già su ragioni o consuetudini religiose o culturali (in tal senso si sarebbe dovuto accertare l"esistenza di una sequela di riprovazioni basate su tali ragioni o consuetudini) bensì sulla rabbia per la sottrazione al proprio reiterato divieto paterno".

Nei Paesi europei, destinatari di flussi migratori, la diversità culturale importata' dagli immigrati mette in crisi non solo l"economia, ma anche il diritto penale.

Un percorso che forse potrebbe consentire di superare tale crisi impone di prendere atto dell'irriducibile pluralità di culture che caratterizza oggi l'Europa e l'Italia, rinunciando ad assolutizzare i valori della propria cultura facendola assurgere ad unità di misura di ogni altra cultura.

E" poi necessario acquisire consapevolezza del fatto che anche l'adesione al modello multi-culturalista - caldeggiata dall'Unione Europea, e comunque auspicabile in una società che considera l'immigrazione una risorsa, e la pluralità culturale una ricchezza[11] - comporta l'apposizione di limiti alla tolleranza, per evitare, in nome del pluralismo culturale, autentici attentati ai diritti fondamentali dell'individuo.



[1] Monticelli, Le cultural defences (esimenti culturali) e i reati «culturalmente orientati». Possibili divergenze tra pluralismo culturale e sistema penale, in Indice Pen., 2003, 540. Secondo De Maglie, Società multiculturali e diritto penale: la cultural defence, in Studi Marinucci, Milano, 2006, 229, chi commette un reato culturale si trova in una situazione di «conflitto esterno» tra le norme di condotta del suo gruppo, interiorizzate nei primi anni della sua vita, e i valori del nuovo sistema, che egli non ha ancora acquisito completamente. In questo caso, «non è l"individuo ad essere deviante rispetto alle norme della società ospitante, ma è il gruppo a cui lui fa riferimento».

[2] v. Cass. pen., sez. VI, 28 gennaio 2009, n. 22700, in Foro it., 2009, II, 592; Cass. pen., sez. VI, 26 novembre 2008, n. 46300, in Cass. pen., 2009, 3834

[3] Cass. pen., sez. VI, 20 ottobre 1998, n. 3398, in Riv. pen., 2000, 238

[4] Trib. Trento 19 febbraio 2009. In un altro caso, invece, la motivazione culturale ha portato alla concessione delle circostanze attenuanti generiche: Pret. Torino 4 novembre 1991, Husejinovic, in Cass. pen., 1992, 1647

[5] I casi riguardano soprattutto le modalità e il tipo di educazione impartita ai figli, il rapporto fra marito e moglie all'interno del coniugio, le modalità e i presupposti del riconoscimento di paternità. Cfr., in part., Cass., sez. VI pen., sent. 17 dicembre 2009 n. 48272; in senso conforme si v. anche Cass., sez. VI pen., sent. 26 novembre 2008 n. 46300 e Cass., sez. VI pen., 8 gennaio 2003 n. 55, Khouider, in Dir. giust., 2003, 12, 106.

In dottrina, Bernari, Il fattore culturale nel sistema penale, Torino, Giappichelli, 2010

[6] Cass. pen., sez. VI, 20 ottobre 1999 n. 3398

[7] Cass. pen., sez. VI, 8 gennaio 2003 n. 55

[8] Udienza 26 giugno 2007, n. 34909, in Riv. It. Dir. Proc. Pen. 2008, p. 407, con nota di Gentile.

[9] Cass. pen, sez. I, sentenza 4 dicembre 2013 (dep. 18 dicembre 2013), n. 51059, Pres. Zampetti, Rel. Caiazzo

[10] Cass. pen., sez. II, 18.2.2010, n. 6587 (caso Hina Saleem)

[11] Sull'importanza della cultura d'origine e dell'appartenenza culturale non solo per la formazione e l'affermazione dell'identità-di-sé degli individui (sul punto v. Margalit e Raz, National Self-Determination, in Journal of Philosophy, vol. 87, n. 9, 1990, p. 439 ss.), ma anche quali presupposti fondamentali, all'interno delle moderne società liberal-democratiche, della libertà di scelta, v. per tutti Dworkin, A Matter of Principle, Londra, 1985, p. 228 ss. (la cultura d'appartenenza non solo ci offre alternative tra cui scegliere, ma ci offre anche "gli occhiali attraverso i quali individuiamo il valore delle esperienze")




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