Famiglia, relazioni affettive  -  Redazione P&D  -  30/08/2021

Riconoscimento della figlia da parte del padre prevaricatore: una questione aperta e in evoluzione - Giuseppe Piccardo

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione, la numero 18600 del 30 giugno 2021, ha negato il (secondo) riconoscimento di una minore, da parte del padre, a seguito dell’opposizione della madre successivamente ad una serie di condotte violente e prevaricatrici nei confronti della madre della bambina medesima,  quali, tra le altre, minacce da parte dell’uomo di fuga con la piccola nel proprio paese al fine di poterle dare una corretta educazione musulmana e tentativi di far abortire la donna.

La Corte d’Appello, conformemente al Giudice di prime cure,  respingeva il ricorso e autorizzava, quindi, il padre, a riconoscere la figlia, in forza della circostanza secondo la quale le condotte sopra meglio evidenziate non erano tenute nei confronti della bambina, ma della madre e come tali ininfluenti ai fini del  diritto del padre al riconoscimento della figlia.

Di diverso avviso, invece, la Corte di Cassazione la quale, infatti, ribaltando le statuizioni dei Giudici di merito, ha ritenuto che il secondo riconoscimento, in caso di opposizione da parte dell'altro genitore che per primo abbia proceduto al riconoscimento, possa essere impedito qualora sussistano gravi e irreversibili motivi, tali da far ritenere la probabilità di una significativa compromissione dello sviluppo psico fisico del minore.

Inoltre, la Suprema Corte ha precisato, in modo chiaro ed inequivocabile, che il giudice, nel decidere in merito al secondo riconoscimento, deve accertare la sussistenza o meno di un interesse del minore, tenuto conto del caso concreto, in quanto il provvedimento adottato deve  consentire uno sviluppo equilibrato dal punto di vista psicologico, affettivo, educativo e sociale del minore medesimo. E ciò al fine di valutare se il suo interesse ad uno sviluppo sano ed equilibrato rischi di venire  pregiudicato da quello del genitore al riconoscimento. In caso positivo, quest’ultimo diritto  dovrà essere negato, come avvenuto nel caso in commento.

Al di là delle questioni strettamente giuridiche, la problematica che fa da sfondo a questa decisione,  della Suprema Corte, ad avviso dello scrivente, è un’altra: la condotta violenta e prevaricatrice nei confronti della ricorrente, conseguente ad un “modello culturale” di rapporti familiari e di genere, può essere oggetto di valutazione da parte di un Giudice? E l’adesione ad un modello culturale, in che rapporti si pone con il principio dell’interesse del minore che, come ci insegnano anche la normativa e la giurisprudenza sovranazionale, è un principio inderogabile, di sistema, che non può essere violato a pena di censura  dalle Corti interne e sovranazionali?

La questione, come i fatti di cronaca di queste settimane dimostrano, è davvero delicata e va ben oltre il diritto. Infatti, non si può e non si deve nascondere che in alcune culture, la prevaricazione e le condotte violente nei confronti delle donne e delle bambine siano del tutto tollerate e scriminate,  con conseguente assenza di percezione di disvalore, da parte di chi  le pone in atto. Infatti, se comportamenti quali quelli descritti nella sentenza, fossero stati commessi nel Paese di origine del padre della minore, avrebbero rappresentato una mera  modalità ordinaria di esercizio dei propri doveri di marito e padre, in conformità ad un “modello culturale”  ed  a  regole sociali consolidate, e non certo episodi in contrasto con l’interesse dei minori o tali da giustificare l’impossibilità di poter riconoscere una figlia.

Tuttavia, si deve anche osservare che condotte quali quelle poste in essere dal padre della minore devono essere contrastate con tutti gli strumenti di legge, in quanto non è tollerabile che un ordinamento giuridico consenta che rimangono impuniti o senza sanzione episodi come quelli descritti dalla ricorrente, in quanto potenzialmente lesivi del diritto della minore a crescere in modo sano ed equilibrato, oltre che della dignità della madre.

In assenza di altri precedenti civilistici sulla questione oggetto di questa breve disamina, sarà interessante verificare se la giurisprudenza, in futuro, riterrà di proseguire nella valutazione circa l’effettiva adeguatezza al ruolo di genitore sulla base dell’adesione per etnia, religione o per motivi diversi ad un “modello culturale” e quali conseguenze ne deriveranno nel caso in cui tale modello fosse incompatibile con quello occidentale, soprattutto con riferimento a modelli teocratici, ontologicamente  non fondati su una netta distinzione tra legge civile e legge religiosa.

La questione è aperta,  e gli esiti non sono affatto scontati.


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