-  Fiorentin Fabio  -  06/03/2014

RIEDUCAZIONE ATTRAVERSO LA PENA: SE NE PARLA AL CONVEGNO DI NUORO - Monica MURRU

Secondo incontro il 21 febbraio nel carcere di Badu e Carros per parlare insieme con la Scuola Forense di Nuoro di diritto penitenziario "applicato".

E mi si passi il termine, peraltro mutuato dall"Avv. Ladislao Massari del foro di Lecce - perché la presenza tra i relatori di Marcello Dell"Anna – ergastolano ostativo ospite della medesima Casa Circondariale – consente, appunto, di valutare concretamente le applicazioni e gli effetti di alcuni istituti sulle persone recluse.

Tra i temi trattati: i circuiti penitenziari ovvero l"organigramma in base al quale i detenuti vengono classificati sulla base dell"indice di pericolosità ed assegnati, di conseguenza, ad un circuito piuttosto che ad un altro.

Partendo dal rilievo che nessuna norma di fonte primaria stabilisce la differenziazione di circuiti e sezioni per "titoli di reato o d"autore" e che l"attuale regolamentazione dei circuiti differenziati è di fonte amministrativa ( circolari ministeriali o dipartimentali), si è passati ad un"analisi storica del tema della sicurezza esterna ed interna alle carceri che ha portato, nel corso degli anni, alla nascita dei "braccetti speciali o specialetti", al famoso o forse meglio famigerato art. 90 L.354/75 OP fino ad arrivare all"art. 41 bis, volto in origine ad affrontare situazioni di emergenza che, di fatto, durano ormai ininterrottamente da oltre un ventennio.

Vivace e variegato è stato il dibattito che ne è scaturito e che ha portato ad osservazioni sociologiche ed antropologiche di particolare pregio da parte di tutti i partecipanti che hanno cercato di capire la genesi di determinate misure, non senza risparmiare critiche sia al sistema che alla stessa società civile.

Se è vero, infatti, che il legislatore - e molto più spesso l"esecutivo -non riesce a rimanere lucido di fronte all"emotività suscitata dall"allarme sociale di alcune fattispecie di reato, magari particolarmente "in auge" in determinati periodi storici, è altrettanto vero però che è la stessa collettività – costituita anche di addetti ai lavori nel nostro campo - a dibattersi, di volta in volta, nella scelta tra garantismo e giustizialismo, senza purtroppo sapersi decidere.

Come giustamente ha osservato il Dott. Riccardo De Vito, esimio magistrato di Sorveglianza presso il Tribunale di Nuoro, il nostro è uno strano Paese dove riusciamo miracolosamente ad abbinare le immagini dell"inutile afflittività della pena (sovraffollamento e lo stesso 41 bis) con le immagini di scarsa tutela delle vittime.

Non ci deve meravigliare, pertanto, se accanto a chi si scandalizza dell"automatismo con cui viene consacrata una determinata classificazione – la verifica semestrale dell"indice di pericolosità dei reclusi è un"utopia proprio come l"isola di Atlantide – c"è anche chi non riesce a superare il bisogno di vendetta, la legge del taglione.

Di particolare interesse a questo proposito è stato un aneddoto raccontato dall"Avv. Angelo Merlini, illustre penalista del foro di Nuoro, che ha ricordato di come avesse reagito una platea di liceali ad un convegno tenutosi a Tempio, volto a spiegare la realtà carceraria.

Di fronte alla recinzione di uno spazio di 3 mt. per 3 realizzato in aula per mostrare le dimensioni di una cella occupata da un certo numero di persone, gli studenti reagirono restringendo ulteriormente lo spazio con il nastro bianco-rosso e precisando che quelle erano le dimensioni dello spazio lasciato alla vittima da quelle medesime persone, ovvero le stesse di una bara..

Altamente significativo è stato, altresì, l"intervento di Alessandro Caria, comandante del corpo di polizia penitenziaria, in forza nello stesso carcere di Badu e Carros, che ha efficacemente spiegato le difficoltà con cui quotidianamente lui ed i suoi uomini devono confrontarsi per attuare il regolamento. Si ha un bel dire, infatti, che i condannati non devono stare con gli imputati né con gli internati, che chi sconta l"arresto non va messo con chi sconta la reclusione, che chi ha una condanna definitiva non deve convivere con chi è invece in attesa di giudizio… il punto è che la struttura mette a disposizione solo quel numero di celle, per cui le divisioni sono presto fatte: i siciliani andranno con i siciliani, i pugliesi con i pugliesi, i marocchini con i marocchini e via dicendo.

Perché non ci si può dimenticare del fatto che, contrariamente a quanto previsto dal regolamento, le celle non sono camere di pernottamento ma stanze in cui i detenuti trascorrono la più gran parte del tempo, spesso fino a 18- 20 h. ore al giorno, con la conseguenza che se si vogliono conservare degli equilibri interni ed evitare ulteriori problemi e frizioni, non si può non trovare una soluzione accordandosi direttamente con chi quelle celle le occupa.

Evidente, pertanto, la necessità di piegare il regolamento alle contingenze pratiche, alle difficoltà quotidiane che ogni giorno gravano il lavoro di chi spesso opera in condizione di carenza cronica di organico, al solo fine di evitare che la pena, già severa di per sé, diventi inumana ed insopportabile. E" lo stesso motivo per cui accade che il magistrato di sorveglianza – sempre dalla voce di Riccardo De Vito - senta la necessità di piegare a scopi trattamentali permessi che altrimenti non potrebbero essere fruiti, accordando appunto permessi di necessità che, pur non potendo essere considerati tali tout court, talvolta è necessario concedere per consentire di recuperare un rapporto familiare che altrimenti inevitabilmente si interromperebbe.

Già, perché come ricordato anche dall"On. Maria Grazia Caligaris – da anni attenta e sensibile a questi problemi - accade, infatti, che il principio di territorialità della pena sancito dall"art. 42 comma 2 della L.354/75 , posto a sigillo della finalità rieducativa di cui all"art. 27 della nostra Costituzione, venga sovente accantonato a colpi di circolari dipartimentali, contribuendo in questo modo a dissolvere il mito del trattamento penitenziario, eroso sotto il peso dell"enorme carcerazione e della poca capacità di investire in carcere.

Ecco perchè, al contrario, iniziative come questa devono essere considerate come "una vera e propria social challeng (Dott.ssa Carla Ciavarella), in grado di aprire le porte del carcere all"esterno e consentire a ciascuno di noi di formarsi una coscienza non più sul sentito dire ma sulla base di informazioni chiare corrette e concrete", per consentire una sana divulgazione dei problemi così che il diritto alla rieducazione o meglio ancora alla responsabilizzazione diventi effettivo ed applicato al condannato, nell"interesse di tutti.

Qualcuno, l"altra sera, ha anche osservato che lo stesso termine "rieducazione"non sia adatto a rendere il concetto dell"alto scopo della funzione della pena così come inteso dalla costituente, leggendo in esso un che di infantilizzazione, di regressione e deresponsabilizzazione del recluso che viene in qualche modo assimilato ad un minore; basta vedere lo stesso linguaggio carcerario che parla ancora di "domandina", di "scopino", "spesino", etc. Forse è vero, anzi sicuramente è vero ma il fatto che se ne cominci a parlare, ci offre la chiave per pensare a nuove soluzioni, per studiare più approfonditamente le pieghe del sistema, perché è solo con la conoscenza, il vaglio, il confronto che questa sfida si può vincere. Non sono passati poi tanti anni da quando Pasolini sosteneva che "chi si scandalizza è sempre banale ma è anche, aggiungo, sempre malinformato."

Monica Murru

 




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