Tradizionalmente si intende per compensatio lucri cum damno il principio in forza del quale nella quantificazione del danno subìto devono essere scomputati gli eventuali vantaggi derivanti dal torto stesso (sia esso un fatto illecito o un inadempimento). Può capitare, talvolta, che il danno non si traduca soltanto in una serie di risvolti in negativo nella sfera giuridica del danneggiato, ma che, viceversa, possa comportare anche effetti in positivo.Si fa di solito l"esempio del banchiere che ritardi la negoziazione di titoli di investitori cagionando a questi un danno, che tuttavia dovrà (dovrebbe) essere compensato con l"eventuale maggior valore acquisito dai titoli nelle oscillazioni del mercato borsistico. Ancora (un classico) il risarcimento integrale del danno per la distruzione del veicolo di modesto valore.Aldilà degli esempi di scuola citati da diversi studiosi, l"applicazione di tale figura ha conosciuto sporadiche applicazioni pratiche: in giurisprudenza sono difatti innumerevoli le pronunce in cui si fa riferimento alla regola della compensatio che finisce poi per essere disattesa o non applicata.Un anelito di incertezza, nonostante diversi interventi della Suprema corte, continua ad avvolgere questa controversa figura, impegnando non poco gli interpreti nella ricerca di una esatta collocazione all"interno del nostro ordinamento.Autorevole dottrina ricorda che laddove la compensazione non venisse effettuata verrebbe ad essere minata la funzione riequilibrativa del risarcimento, provocando una ingiusta locupletazione a favore dello stesso danneggiato. Tale assunto, però, sembra contrastare con la giurisprudenza che, negli anni, si è orientata nel porre al principio in esame dei limiti che ne potessero circoscrivere i profili pratici.Così in più occasioni i giudici di legittimità hanno affermato che la compensatio lucri può essere applicata soltanto quando il pregiudizio e l"incremento patrimoniale discendano dallo stesso fatto in modo diretto ed immediato (art. 1223 c.c.), che derivino dallo stesso rapporto, situazione o fatto illecito, e che, di conseguenza, le poste compensative abbiano la stessa natura giuridica.E" possibile dunque intendere la compensatio come regola generale dotata di propria autonomia operativa? In realtà, lo si ripete, se spesse volte si è fatto ricorso a questa figura nelle motivazioni delle sentenze sia di merito che di legittimità, di contro i casi in cui il risarcimento del danno è stato effettivamente diminuito in ragione ed in proporzione del vantaggio conseguito dallo stesso pregiudizio sono stati rarissimi.Inoltre la compensatio difetta di una espressa previsione normativa: non è possibile infatti reperire il fondamento di tale principio dall"art. 1592 c.c. comma 2, né, tantomeno, dall"art. 41 comma 1, l. 2359 del 1865, norme che tra l"altro non sembrano neanche riferirsi al risarcimento del danno in senso stretto.Si potrebbe affermare che l"ostacolo ad una applicazione, almeno in astratto, più ampia di tale figura derivi essenzialmente dal limite, cui si faceva in precedenza riferimento, dell"identità dell"illecito e della identica natura delle poste compensative riconosciute al danneggiato, laddove, ad esempio, allo stesso soggetto venga corrisposta l"elargizione di una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno e al tempo stesso un indennizzo previsto da normative speciali.Può essere d"aiuto un riferimento al drammatico disastro del Vajont: nella fattispecie non si è ritenuto di dover applicare la compensatio tra quanto percepito dai Comuni interessati a titolo di indennità e quanto, invece, versato come risarcimento del danno dal responsabile (proprietari e gestori della diga).La ratio di una simile scelta va desunta dalla netta differenza che contrappone l"indennizzo al risarcimento del danno, quest"ultimo scaturente da un illecito o un inadempimento e caratterizzato da finalità essenzialmente riparatorie e compensative: titoli diversi, crediti diversi, nessuna diminuzione per differenza. Anche nelle sentenze gemelle del 2003 è possibile rinvenire alcuni espliciti riferimenti alla regola in esame: si afferma infatti che "l"ipotesi della compensatio lucri cum damno non si configura quando, a seguito della morte della persona offesa, ai congiunti superstiti, aventi diritto al risarcimento del danno, sia stata concessa una pensione di reversibilità, giacchè tale erogazione si fonda su un titolo diverso rispetto all"atto illecito".Quanto osservato finora è valso ad escludere la riduzione proporzionale del risarcimento del danno alla persona nei casi di "speciali elargizioni", di equo indennizzo o pensione di reversibilità o indennità percepiti dal danneggiato, o, ancora, nei casi di indennizzo da assicurazione contro gli infortuni (casi di benefici collaterali, come li ha definiti un autorevole studioso).Quid iuris, allora, nel caso della vedova che, successivamente alla perdita del marito in un sinistro, contragga nuovo matrimonio? Gli orientamenti giurisprudenziali sono stati, grossomodo, oscillanti: viene dapprima esclusa la possibilità di ridurre il risarcimento a favore della vittima in virtù delle nuove nozze, evento successivo ed indipendente rispetto alla obbligazione risarcitoria già esistente, derivante, oltretutto da un illecito; successivamente, però, partendo dal presupposto che il danno derivante dalla perdita del congiunto integri anche danni futuri, si afferma che di questi e della eventuale loro cessazione debba tenersi conto qualora si verifichino nuovi fatti rilevanti e duraturi. Non può negarsi che il matrimonio, di per sé frutto di scelte libere e personalissime (una nuova decisione allocativa necessitata dallo stesso danno subito), concorra comunque a limitare o estinguere in toto il danno futuro risarcibile.In realtà, anche nell"analisi delle fattispecie in esame, è eccessivo elevare la compensatio lucri a principio regolatore della quantificazione del danno: sembra invece più corretto far riferimento alle regole della causalità giurdica.In una pronuncia di merito del "98 il risarcimento del danno patrimoniale a favore della disoccupata che aveva perso il marito per il fatto illecito del terzo, viene ridotto in ragione del nuovo reddito percepito a seguito dell"assunzione di quest"ultima da parte del datore di lavoro del de cuius; viceversa la Cassazione non reputa rilevante, ai fini dello scomputo, l"assunzione come portiera della vedova da parte dello stesso datore: emerge allora un chiaro riferimento alle regole della causalità, cosicchè la compensatio potrà essere applicata solo qualora venga accertato il nesso causale che leghi in maniera diretta la morte del coniuge e l"assunzione della vedova in luogo del defunto.Un caso particolare, anch"esso esaminato dai giudici di legittimità, ha riguardato la quantificazione del danno subito dai genitori a seguito della perdita della figlia cagionata dal fatto illecito del terzo: la Corte stabilisce che il danno patrimoniale subito dai genitori, consistente nella perdita di quei contributi economici che la figlia avrebbe potuto destinare alla famiglia, stante la convivenza tra i soggetti, ex art. 315 bis c.c., vada compensato con il vantaggio conseguito dagli stessi genitori e derivante dall"estinzione degli obblighi di mantenimento gravanti in capo a questi ex art. 147 c.c.. Il problema, in questo caso, attiene non già all"individuazione del nesso eziologico comune tra vantaggio conseguito e perdita subita, bensì l"esatta individuazione dei limiti entro cui può essere effettuata la compensatio tra i due termini.Tutto ciò porterebbe ad escludere che si possa parlare di compensatio come principio autonomo operante nel sistema; eppure recenti pronunce hanno riproposto considerazioni affatto nuove su cui vale la pena soffermarsi.Ci riferiamo innanzitutto ad una pronuncia delle Sezioni Unite del 2008: nella fattispecie i ricorrenti lamentavano il danno subito da un congiunto a seguito di emotrasfusione.Senza dilungarci nell"analisi del caso specifico, è utile osservare come la Corte faccia espressamente uso della compensatio negando che agli attori possa essere riconosciuto oltre all"indennizzo ex l. 210/92 anche il risarcimento del danno biologico, morale e patrimoniale.Si legge nella motivazione che, in relazione allo scomputo operato dal giudice di appello, va osservato che la diversa natura giuridica dell'attribuzione indennitaria ex l. 210 del 1992, e delle somme liquidabili a titolo di risarcimento danni per il contagio da emotrasfusione infetta da Hiv ed Hcv a seguito di un giudizio di responsabilità promosso dal soggetto contagiato nei confronti del Ministero della sanità, per aver omesso di adottare adeguate misure di emovigilanza, "non osta a che l'indennizzo corrisposto al danneggiato sia integralmente scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento posto che in caso contrario la vittima si avvantaggerebbe di un ingiustificato arricchimento, godendo, in relazione al fatto lesivo del medesimo interesse tutelato di due diverse attribuzioni patrimoniali dovute dallo stesso soggetto (il Ministero della salute) ed aventi causa dal medesimo fatto (trasfusione di sangue o somministrazione di emoderivati) cui direttamente si riferisce la responsabilità del soggetto tenuto al pagamento".Anche in successive pronunce questo orientamento viene confermato, sollevando, talvolta non poche perplessità.Riservandoci di analizzare in altri lavori le problematiche che sorgono dall"applicazione concreta di tali criteri (per alcuni interessanti spunti critici in materia di cumulo, ad esempio, tra indennizzo assicurativo e risarcimento del danno, mi sia concesso di rinviare, in questa rivista, all"articolo "POLIZZE INFORTUNI E RESPONSABILITÀ CIVILE: NO AL CUMULO? Cass. Civ. 13233/2014" di Nicola TODESCHINI, al seguente link: http://www.personaedanno.it/index.php?option=com_content&view=article&id=45884&catid=168) concludiamo la presente indagine sul diverso argomento riguardante la possibilità di attribuire autonoma rilevanza alla regola della compensatio.A mio avviso, come si è avuto modo di evidenziare, non ricorrono i presupposti per poter riconoscere al criterio in esame una valenza generale: richiedendo che vantaggio e danno derivino dallo stesso fatto e che siano di questo conseguenze immediate e dirette si riducono all"osso i casi in cui si possa in concreto applicare la regola; anzi si potrebbe affermare che questa, stricto sensu, si riduca ai soli classici esempi di scuola (ma anche questa tesi è stata ampiamente criticata). Aldilà delle incertezze che ancora suscita la figura e che si è cercato di evidenziare analizzando una pur succinta rassegna giurisprudenziale, la compensatio finisce per essere inglobata nell"art. 1223 c.c., a patto che possa effettivamente garantire una quantificazione del danno congrua escludendo fattori ad essa ulteriori e che si pongono in un rapporto di mera occasionalità con il fatto illecito. Più precisamente, se il richiamato art. 1223 c.c. obbliga a risarcire sia la perdita subita che il mancato guadagno quando questi siano conseguenza immediata e diretta del fatto del responsabile, allora la compensatio dovrebbe operare quando lo stesso fatto sia idoneo a provocare direttamente sia effetti positivi che negativi nella sfera giuridica del danneggiato. Tuttavia recentemente questo trend sembra essersi invertito, tant"è che in non pochi casi sono stati agilmente superati i rigidi ostacoli della identità e omogeneità di titoli e poste compensabili, ed è pacifico che ciò abbia portato, almeno in astratto, ad una notevole espansione applicativa del criterio compensativo. Queste scelte, pur sempre criticabili, attengono a quel passaggio delicatissimo della quantificazione del danno e per questo inducono a riflettere accuratamente, ancora, sulla necessità di delineare con precisione i limiti della figura che si è cercato di analizzare.