-  Redazione P&D  -  17/10/2012

SINDROME DI DOWN, NASCITA, RISARCIMENTO SI O NO? - Paolo ROSSO

Riceviamo da un nostro lettore, padre di un bambino portatore dela sindrome di Down:

"Rremettto che non sono un giurista e non ho quindi le basi forse necessarie per addentrarmi in un campo così complesso, ma, stimolato da un caro amico plurilaureato e ora laureando in legge, ho accettato di leggere la sentenza 16754-2012 della Cassazione relativa al caso di un risarcimento riconosciuto ad una bambina con Sindorme di Down, oltre che ai sui genitori e sorelle, mosso da generica cusiosità verso gli argomenti in oggetto e soprattutto da particolare interesse essendo io padre di un bambino di sette anni portatore della stessa sindrome. La lettura della sentenza è stata di notevole interesse e mi ha spinto a provare a scrivere alcune riflessioni sulle pagine appena lette. Su invito del mio amico glieLe invio così come sono nate - Cordiali saluti - Paolo Rosso"

E pubblichiamo senz'altro le note che ci sono state inviate.

 

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SENTENZA CASSAZIONE 16754/2012 RISARCIMENTI BIMBA DOWN

In una recente sentenza la Cassazione si è trovata a dover dirimere il ricorso di una madre e di un padre che dopo aver avuto due figlie normodotate hanno avuto una terza figlia affetta da sindrome di Down. La motivazione della richiesta di risarcimento del danno derivava dal fatto che il medico si era limitato a suggerire il "tritest" alla gestante senza invece richiedere altri e più affidabili accertamenti diagnostici (amniocentesi). La sentenza della Cassazione è risultata innovativa, infatti, oltre a ribaltare le precedenti sentenze (negative per i ricorrenti), ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno non solo alla madre, ma anche al padre, alle sorelle e alla stessa bambina con sindrome di Down.

Riflessioni sparse sulle motivazioni della sentenza.

PREMESSA

Proviamo a discutere criticamente la sentenza partendo da due punti fermi:

a) Detto che sempre e comunque ogni posizione è soggettiva, proveremo a ragionare sulla sentenza prescindendo da motivazioni di carattere etico, religioso, personale, ma ponendoci nel modo più serio possibile in un posizione neutra. Lasceremo poi alle conclusioni finali eventuali considerazioni di altro tipo.

b) Allo stesso modo però, è nostra intenzione non "lasciarci impressionare" dall"autorevolezza dei giuristi autori della sentenza, pensando, con un po" di presunzione, che in fondo, in questo caso, si tratta di ragionare di diritto e disabilità (anzi "effetti" della disabilità) e non di una disabilità generica ma di sindrome di Down in particolare. Entrambi gli aspetti (diritto ed effetti della sindrome di down) sono centrali e dotati di pari dignità nel caso in oggetto; per questo motivo, nella consapevolezza di avere molto da imparare in termini di diritto sappiamo che forse abbiamo qualcosa da insegnare sugli "effetti". Per cui, amici giudici, ce la giochiamo "alla pari".

Ciò detto via alle danze!

Siamo solo a pagina 4 di 76 e subito un piccolo brivido corre lungo la schiena. Già, perché ci stiamo apprestando a leggere una lunga trattazione che, in un modo o nell"altro, la Corte ha posto in essere in relazione alla vicenda della nascita di una bambina affetta da un particolare sindrome, la sindrome di Down. Per cui, presupposto che si ritiene quasi scontato (ma forse troppe cose si danno per scontate….) è che la suddetta Corte abbia una conoscenza della Sindrome di certo in termini generali e non iper-specialistici, ma sufficienti a sostenere nel dettaglio la trattazione e le motivazioni che si appresta a rappresentare… Ecco, proprio per questo, leggere a pagina 4 "che nel settembre 1996 era nata la piccola affetta da sindrome di Dawn" fa un po" sorridere e un po" inorridire. Non staremo mica per leggere 76 pagine sul caso di una bimba Down (non "Dawn") scritta da giudici che di questa sindrome non sanno neanche scrivere il nome? Ma no…. Sarà stato solo un errore di battitura… (sarà?!?!....). Certo che come biglietto da visita non è il massimo… Comunque speriamo nell"errore di battitura e procediamo fiduciosi.

Terzo Motivo (pag. 14-15): riguarda la presunzione che la donna fosse realmente intenzionata all"interruzione della gravidanza in caso di malformazione del feto nel momento in cui si rivolse al medico. Secondo la Corte d"Appello "non vi era alcuna prova che la donna avrebbe interrotto la gravidanza se fosse venuta a conoscenza della malformazione del feto" ed inoltre non vi era alcun elemento dal quale desumere che la prosecuzione della gravidanza avrebbe esposto la signora a grave pericolo di vita o grave pericolo per la sua salute fisica o psichica". Quest"ultima ricordiamo è la formula contenuta nella legge 194 ripresa fra l"altro dalla sentenza 14488/2004 là dove si ricordava che (cfr. pag. 22) "La sola esistenza di malformazioni del feto che non incidano sulla salute o sulla vita della donna non permettono alla donna di praticare l"aborto: il nostro ordinamento non ammette, dunque, l"aborto eugenetico"; da qui la sentenza del 2004 ricavava i motivi per escludere il diritto al risarcimento dei danni alla gestante e al nascituro; a noi basta avere ribadito che l"aborto eugenetico non esiste nel nostro ordinamento e solo "l"esposizione a grave pericolo di vita o grave pericolo per la sua salute fisica o psichica" può essere legittimo motivo di aborto. Nel caso particolare poi, la sindrome di Down, né di pericolo di vita per la madre si tratta né di grave pericolo per la sua salute fisica, restando quindi come unico riferimento plausibile il "grave pericolo per la salute psichica". Non intendiamo entrare ulteriormente nel merito di questo punto; ci basta sottolineare e ricordare che, in sostanza, il possibile risarcimento del danno in capo ai familiari (diverso il caso del nascituro) ruota interamente intorno a questo aspetto e cioè il mancato riconoscimento del "grave pericolo per la salute psichica della madre" che successivamente alla nascita della bambina down, stando alle perizie medico-legali presentate dai ricorrenti, si sarebbe puntualmente verificato sotto forma di "danno biologico psichico" (cfr. pag. 15). Solo questo conta, nient"altro.

Proprio per le ragioni appena citate risulta non del tutto lineare il Quarto motivo (pagine 16-18): qui si rileva che "la responsabilità sanitaria per omessa diagnosi di malformazioni fetali e conseguente nascita indesiderata va estesa oltre che nei confronti della madre (…) anche al padre (…) nonché ai fratelli e alle sorelle del neonato". (…) "L"indagine sulla platea dei soggetti aventi diritto al risarcimento già da tempo operata dalla giurisprudenza con riferimento al padre non può non essere estesa per le stesse motivazioni della legittimazione dell"altro genitore anche ai fratelli e alle sorelle del neonato dei quali non può non presumersi l"attitudine a subire un serio danno non patrimoniale (…). Danno intanto consistente nella inevitabile minor disponibilità dei genitori nei loro confronti, in ragione del maggior tempo necessariamente dedicato al figlio affetto da handicap, nonché della diminuita possibilità di godere di un rapporto parentale con i genitori stessi costantemente caratterizzato da serenità e distensione (…); consci – entrambi i genitori – che il vivere una vita malformata è di per sé una condizione esistenziale di potenziale sofferenza". Ad una lettura superficiale motivazioni anche condivisibili, ma, riflettendo in modo più approfondito, forse non poi del tutto. Intanto, sul diritto esteso al padre: la logica induce a ritenere che, al di fuori dei termini non forse del tutto adeguati giuridicamente, nel caso del padre non di diritto "diretto" si possa parlare ma "indiretto". Nel senso che se per la madre, come detto, si fa riferimento al "grave pericolo per la sua salute psichica" (poi verificatosi), per il padre non si può pensare ad un diritto analogo poiché se anche sussistesse, per il padre, identico "grave pericolo per la salute psichica", ciò non sarebbe certamente motivo di possibile interruzione di gravidanza che resta evidentemente un diritto unicamente ascrivibile alla madre. Nel caso del padre quindi, il diritto al risarcimento si può intendere solo "indirettamente" e cioè pensando al danno subito, dal padre, come conseguenza del danno psicologico subito dalla madre/compagna. Una compagna che, in conseguenza della mancata diagnosi prenatale e del parto di una bambina con sindrome di down ha subito un danno psichico permanente in grado di alterare significativamente i propri rapporti con il padre della bambina (da qui il risarcimento). Questo diritto "indiretto" è confermato anche per i fratelli e le sorelle "per le stesse motivazioni della legittimazione dell"altro genitore" (cfr pag. 17). Anche per loro quindi si dovrebbe far riferimento unicamente al fatto di trovarsi a vivere con una madre che ha subito un danno psicologico permanente che dovrebbe ripercuotersi sul rapporto con gli altri figli (oltre che con il padre della bimba). Ciò detto appaiono quindi del tutto irrilevanti, ipotetiche e fuorvianti le motivazioni che non ad un indiretto danno derivante dal danno psicologico della madre fanno riferimento ma: a) alla "inevitabile minor disponibilità dei genitori nei loro confronti, in ragione del maggior tempo necessariamente dedicato al figlio affetto da handicap". Sicuri che c"entri? (Abbiamo detto che l"unica cosa che conta ed eventualmente da verificare è il danno di avere una madre psicologicamente "danneggiata"). E poi è sempre così? Un padre manager sempre in giro per il mondo che, a seguito dell"evento (nascita figlio disabile), cambia lavoro con un altro vicino a casa part-time che gli consente di essere in famiglia tutti giorni e magari di aiutare anche gli altri figli nei compiti ogni pomeriggio (caso reale) si ritroverebbe nella definizione della Corte? Non è forse una generalizzazione pericolosa? b) alla "diminuita possibilità di godere di un rapporto parentale con i genitori stessi costantemente caratterizzato da serenità e distensione" se ci si fermasse qui il commento sarebbe probabilmente inerente in quanto il danno psicologico della madre ("diretto") e quello del padre ("indiretto"), se effettivamente presenti, possono in effetti presumibilmente determinare una minor possibilità di fruire di un rapporto parentale costantemente sereno, ma la motivazione aggiunge, a nostro pare inutilmente e in modo non inerente "consci – entrambi i genitori – che il vivere una vita malformata è di per sé una condizione esistenziale di potenziale sofferenza" . Si tratta infatti anche stavolta di una presunzione generica e superficiale della Corte contestabile su più fronti.

"Entrambi i genitori": perché entrambi? Se abbiamo giustificato il risarcimento del padre come sola possibile conseguenza del danno subito dalla madre, chi ci dice che il padre sia "conscio" di quanto affermato sopra? Non potrebbe invece lui non ritenere che la vita di un soggetto con sindrome di Down non sia configurabile come una "condizione esistenziale di potenziale sofferenza"? Nel caso in questione lo si potrebbe presumere per la madre (probabile, ma anche su questo si potrebbe discutere), mentre non è assolutamente automatico per il padre nel momento in cui abbiamo più volte sottolineato che la sua richiesta non può fare riferimento giuridicamente ad un possibile danno "psicologico" personale (suo, del padre), ma solo conseguente (e quindi non necessariamente psicologico) a quello psicologico della madre.

"Vivere una vita malformata è di per sé una condizione esistenziale di potenziale sofferenza":

bel tema anche questo, anche in questo caso dichiarato forse un po" frettolosamente. Perché, nel caso di Sindrome di Down possiamo così facilmente dichiarare che l"handicap genetico sia causa di sofferenza per il soggetto che lo subisce? Ne siamo certi? Vero è che il concetto è attenuato dall"aggettivo "potenziale", ma il senso di prevalenza e di una sorta di automatismo si percepisce fortemente tanto da renderlo in sostanza inevitabile. Vita malformata=sofferenza è un"equazione che nel caso della Sindrome di Down non è forse così appropriata considerata la particolare natura della sindrome. Tra le persone con Sindrome di Down, categoria troppo spesso considerata in modo stereotipato, non in modo così rilevante come la frase in questione vorrebbe far presumere si rilevano atteggiamenti prevalenti di sofferenza legati alla sindrome di cui sono portatori; pur nella consapevolezza della propria condizione prevalgono invece solitamente comportamenti del tutto contrari alla "sofferenza" citata. A questo contribuisce probabilmente un carattere abbastanza tipico di queste persone che potremmo definire come una ingenua e genuina gioia di vivere. Il discorso sarebbe molto più lungo e ampio in quanto potrebbe indicare più in dettaglio che la stessa vita di un soggetto con sindrome di Down attraversa, (come la vita di tutti del resto), fasi diverse, ma che, nella Sindrome di Down in particolare, gli ultimi studi hanno evidenziato una particolare evoluzione cerebrale che rende molto diverso sotto il profilo emozionale l"impatto con il proprio deficit nel corso delle età, evidenziando in sostanza problematiche più serie solo in età avanzata. Non intendiamo qui entrare ulteriormente nel merito; ci basta aver sottolineato la superficialità e forse la non scontata condivisibilità dell"equazione di cui si diceva tra vita malformata (nel caso specifico) e sofferenza. Approfondimenti ulteriori sarebbero probabilmente opportuni per la definizione di vita "malformata", laddove ci si volesse spingere a comprendere quali siano i criteri che rendono "malformata" una vita: pensando a tante persone con sindrome di down si realizza infatti che, pur segnati già solo esteticamente dalla loro condizione (una persona "down" porta solitamente sempre ben visibile agli altri, tramite il proprio aspetto la propria "malformazione"), risultano sì carenti sotto diversi profili (cognitivi essenzialmente, ma anche motori o linguistici), ma presentano altresì risorse e capacità legate al campo emozionale spesso superiori ai c.d. normodotati ed allora ecco farsi strada il dubbio sulla correttezza del riferimento alla vita "malformata". La definizione di vita "malformata" regge, infatti, solo e soltanto se si privilegiano, come in effetti avviene nella norma, aspetti legati alle abilità cognitive di un soggetto, non lo sarebbe più se si spostasse la "distribuzione dei pesi" attribuendo socialmente una diversa rilevanza ad attributi (emozionali magari) che potrebbero vedere le persone con sindrome di down in cima alla classifica; la definizione di vita "malformata" , in questo caso, rientra quindi nel campo delle rappresentazioni sociali che non sono verità assolute, ma semplici euristiche di ragionamento utili, ma, in sostanza, frutto di convenzioni.

Molti altri aspetti sarebbe interessante dibattere ma proviamo a giungere al punto finale della sentenza in cui si riconosce il diritto al risarcimento anche in capo al nascituro.

Molto interessante, sul piano giuridico, il lungo escursus che motiva come "la protezione del nascituro non passi necessariamente attraverso la sua istituzione a soggetto di diritto – ovvero attraverso la negazione di diritti del tutto immaginari, come quello a "non nascere se non sano", locuzione che semplicemente non rappresenta un diritto", ma sia invece "necessario quanto sufficiente, di converso, considerare il nascituro oggetto di tutela". Tesi questa avvalorata dalle "disposizioni sull"interruzione della gravidanza che, se realmente postulassero un confronto tra due diverse soggettività giuridiche, e cioè tra due soggetti di diritto portatori di istanze contrapposte, non potrebbero mai operare una comparazione tra una malattia psichica (la madre) e una vita (il nascituro) privilegiando sempre la seconda", ergo non è configurabile in capo al nascituro un diritto soggettivo, che diventa però retroattivamente un diritto alla salute al momento della nascita. Infatti, spiega la Corte, "non di una volontà ascendente che istituisce un soggetto che nascerà si tratta, (cioè non si tratta di riconoscere un diritto soggettivo al feto ndr), bensì di un soggetto che, alla sua nascita, istituisce retroattivamente sé stesso diventando così titolare di un diritto soggettivo nuovo (diritto alla salute ndr)"

Superate quindi le obiezioni legate alla legittimazione soggettiva del nascituro e tralasciando le critiche che la Corte accantona forse un po" frettolosamente (in ragione di quanto detto sopra a proposito di vita "malformata") laddove si commentano le ragioni di chi nega la risarcibilità legandola ad una pretesa violazione della dignità del minore ( per i quali "qualificare la nascita in termini di pregiudizio costituirebbe una mancanza di rispetto della dignità del minore") ecco che la Corte giunge a concludere che "l"interesse giuridicamente protetto è quello che consente di alleviare, sul piano risarcitorio, la propria condizione di vita, destinata a una non del tutto libera estrinsecazione secondo gli auspici del Costituente" che si concretizzano nel diritto allo svolgimento della propria personalità sia come singolo che nelle formazioni sociali (art. 2 Cost.), nella limitazione al pieno sviluppo della persona (art. 3 Cost.), nell"arrivo del minore in una dimensione familiare "alterata" che penalizza un libero e sereno svolgimento della vita familiare sotto il profilo dell"istruzione, educazione, mantenimento dei figli (art. 29, 30 e 31 Cost.).

La Corte, quindi, ribadisce che "risulta innegabile come l"esercizio del diritto al risarcimento da parte del minore in proprio non sia in alcun modo riconducibile ad un impersonale "non nascere", ma si riconnetta a quel"irripetibile soggetto che invocando un risarcimento, fa istanza al giudice(…) onde poter essere messo in condizione di poter vivere meno disagevolmente, anelando ad una meno incompleta realizzazione dei suoi diritti di individuo singolo e di parte sociale scolpiti nell"art. 2 della Costituzione."

LE NOSTRE CONCLUSIONI (e qui vale tutto… etica compresa…)

Abbiamo già detto sopra delle nostre perplessità su alcuni passaggi della sentenza, ma, pragamaticamente, proviamo a giungere al nocciolo, alla sostanza.

Abbiamo letto le 76 pagine della sentenza in un conflitto costante tra lo sforzo del mantenere un giudizio critico ma obiettivo, e il coinvolgimento derivante dall"essere genitori (felici) di un bambino con sindrome di down. In questa lotta il pensiero prevalente era, inutile tacerlo, il dispiacere. Dispiacere per la madre che ha subito uno choc per la nascita imprevista di una bimba così; dispiacere per il pensiero che forse quella madre se avesse avuto modo di conoscere la sindrome non ne sarebbe stata poi così terrorizzata e forse tutto sarebbe andato diversamente; dispiacere per il padre che ha visto anche lui sconvolta in modo negativo la sua vita senza provare a pensare che una bimba down ti sconvolge sì la vita, ma non è detto che sia in senso negativo, anzi; dispiacere perché pensi che a volte c"entra il caso e allora immagini che se solo quella madre e quel padre avessero potuto sentire al momento giusto Roberto Saviano raccontare la vita di Michel Petrucciani, disabile a causa di una malformazione genetica (nato "malformato" direbbe la Corte…), un freak alto poco più di un metro che avrebbe potuto a buon titolo ritrovarsi tra i protagonisti dell"omonimo film di Tod Browning ("Freaks" 1932) e che con l"unica parte funzionante di sé, le mani, ha creato meraviglie con il suo piano diventando uno dei più apprezzati jazzisti del mondo prima di morie a soli 36 anni, ecco, quel padre e quella madre avrebbero forse potuto ribaltare il loro pensiero come suggeriva Saviano e smetterla di pensare a cosa "non andava" nella loro bambina (tanto, sicuro, come praticamente tutto per Petrucciani chiuso in un corpo rattrappito le cui ossa si rompevano di continuo) e iniziare invece a concentrarsi su cosa funzionava in lei (i sorrisi, la tenerezza, l"entusiasmo, e chissà quanto altro… di certo non poi di meno delle sole mani di Petrucciani).

Al dispiacere si affiancava poi un altro pensiero: in cosa si tradurrà tutto questo? Questa sentenza dove porterà? In fondo noi non siamo parte della "battaglia dialettica" e "di pensiero" tra questi esimi giuristi, per cui poco ci importa dare ragione all"uno o all"altro; ciò per cui noi non possiamo non fare il tifo, stavolta sì sfacciatamente, è perché un bimbo down, una volta concepito, venga sempre alla luce e non finisca invece ad allungare il lungo elenco dei feti abortiti. Questo non tanto in virtù di pretesi motivi di ordine etico o religioso e comunque, al di là di questi, per la sola ragione che un bambino down è un dono meraviglioso che porta con sé una tale ricchezza di esperienze ed emozioni che siamo convinti solo la paura dell"ignoto può portare a respingere. Tornando però alle domande di prima: a cosa porterà questa sentenza? La Corte in fondo nel voler riconoscere un risarcimento al minore da intendersi come forma per "poter essere messo in condizione di vivere meno disagevolmente" mostra un" attenzione e diremmo una sensibilità forte verso questo soggetto e di questo ci compiaciamo però in cosa si tradurrà tutto questo in concreto? Possiamo immaginare null"altro che maggiori "blindature" da parte dei medici ginecologi o incaricati di diagnosi prenatali che alzeranno ancora di più le loro barriere protettive nel timore di possibili future richieste di risarcimento, inducendo ancor più di quanto accada oggi le gestanti a procedere con l"interruzione della gravidanza. Già, perché in fondo tutti sappiamo che anche la legge 194 sarebbe un"ottima legge se la si applicasse per come è scritta, mentre invece si è tradotta dei fatti nei semplice appiglio giuridico per applicare l"aborto eugenetico, proprio quell"aborto che questa sentenza più volte ribadisce essere vietato dal nostro (e non solo nostro) ordinamento. Curioso no? Mossi da uno spirito solidaristico (persino apprezzabile) nei confronti di un minore con sindrome di Down, i giudici della Corte garantiranno un po" di pecunia alla bimba in oggetto e chissà in futuro a qualcun altro, mentre, allo stesso tempo, con le identiche parole, contribuiranno in modo consistente a mantenere tra i "non nati" un numero ancora maggiore di futuri "freaks".

E se tra loro ci fosse stato un altro Petrucciani? Gran bella perdita per l"umanità….




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