-  Peron Sabrina  -  30/01/2015

SUL MARCHIO PATRONIMICO – Cass. civ. 23648/2014 Sabrina PERON

La sentenza in esame riguarda il divieto dell"uso del proprio nome patronimico quando questo risulti in contraffazione con dell'altrui marchio o non sia comunque conforme ai principi della correttezza professionale, ingenerando un rischio di confusione sul mercato con altri segni, così da indurre in inganno il pubblico circa la provenienza dei prodotti. In particolare, nella fattispecie in esame veniva lamentato l"utilizzo del patronimico sia come nome della ditta che sull"insegna, perché in contraffazione con il marchio anteriore.

La ditta, secondo la formula ricorrente adottata dalla giurisprudenza, è il nome sotto il quale l"imprenditore, titolare di una determinata azienda, esercita la propria attività (cfr. Cass., 1793/1978; Cass. 1495/1968, Cass. 1461/1966), ai sensi dell"art. 2563 c.c., essa deve contenere il cognome o almeno la sigla dell"imprenditore, salvo quanto disposto al successivo art. 1565 c.c. (si tratta del c.d. "principio di verità", che assolve la funzione di consentire ai terzi di individuare il soggetto responsabile dell"adempimento delle obbligazioni assunte nella gestione dell"impresa). La ditta, quindi, assolve la funzione di contraddistinguere l"esercizio di quell"attività economica che l"imprenditore ha organizzato in forma di impresa.  L"insegna, invece, viene normalmente definita come il segno – sia esso nominativo o emblematico - distintivo di un determinato locale in cui si esercita un"attività imprenditoriale (Cass. 1062/1966). Il concetto di «luogo di esercizio dell"impresa di cui agli art. 2564 e 2568 c.c., ai fini della tutela in caso di confondibilità fra imprese, non va inteso con esagerato valore restrittivo, dovendosi badare anche agli sviluppi potenziali dell"impresa razionalmente prevedibili, nonché alle pratiche difficoltà, che sovente s"incontrano, ad isolare l"espansione di un"impresa in un determinato ambito territoriale; pertanto, la localizzazione non deve essere intesa secondo un criterio restrittivo, riguardo soltanto all"attività esplicata in un determinato momento, nel luogo di produzione e di commercio, ma facendo anche riferimento alla possibilità di espansione all"intera zona territoriale, al cosiddetto mercato di sbocco, raggiunta dall"attività complessiva dell"impresa» (Cass. 12136/13)

Inoltre, in base «all'art. 2564, comma 1, c.c. - applicabile anche all'insegna in virtù dell'art. 2568 c.c. - allorché la ditta sia uguale o simile a quella usata da un altro imprenditore e possa creare confusione per l'oggetto dell'impresa e per il luogo in cui questa venga esercitata, essa "deve essere integrata o modificata con indicazione idonee a differenziarla». (Cass. 12136/13 nonché Cass. 16283/09).

La sentenza in commento al riguardo ha però precisato che l'art. 2564 c.c., trova applicazione unicamente nei confronti della ditta ma non del marchio, dato che i due istituti si basano infatti su principi e presupposti diversi: la ditta serve a identificare l'imprenditore; il marchio è il segno distintivo della provenienza del prodotto/servizio ed ha la funzione di indicare l'imprenditore che ha prodotto le merci od i servizi.

Come più volte enunciato dalla Corte di Cassazione – e confermato dalla sentenza che qui si pubblica - in materia di marchi registrati «l'utilizzazione commerciale del nome patronimico, deve essere conforme ai principii della correttezza professionale e, quindi, non può avvenire in funzione di marchio, cioè distintiva, ma solo descrittiva, in ciò risolvendosi la preclusione normativa per il titolare del marchio di vietare ai terzi l'uso nell'attività economica del loro nome» (così, testualmente, la sentenza in commento; conforme ex multis, Cass. 6021/2014); ne consegue che sussiste la contraffazione quando il marchio accusato contenga il patronimico protetto, pur se accompagnato da altri elementi (Cass. 29879/2011; Cass. 16283/2009; Cass. 6024/2003; Cass. 9154/1997; Cass. 8157/1992).

E' quindi preclusa, per difetto di novità, la registrazione di un successivo marchio che riproduca il cuore del marchio anteriore costituito dal patronimico, nonostante l'aggiunta di elementi differenziatori di contorno, potendosi determinare un rischio di confusione per il pubblico, quale rischio di un erroneo riferimento dell'attività dell'una all'altra impresa, soprattutto qualora tale eventualità sia resa altamente probabile dall'identità, o quantomeno affinità, dei prodotti (Cass. 13067/2008; Cass. 8119/2009).

Tale principio è stato ribadito peraltro anche dopo l'entrata in vigore del codice della proprietà intellettuale essendosi confermato che, ai sensi del D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, art. 21, l'utilizzazione commerciale del nome patronimico, corrispondente al marchio già registrato da altri, non può avvenire in funzione distintiva, ma solo descrittiva, in quanto l'avvenuta modifica normativa, rispetto alla previsione del R.D. 21 giugno 1942, n. 929, art. 1 bis, (con la soppressione dal testo normativo delle parole "e quindi non in funzione di marchio, ma solo in funzione descrittiva"), lascia ferma la necessità che l'uso del marchio debba essere conforme ai principi della correttezza professionale (Cass. 6021/2014).




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