Letteratura  -  Redazione P&D  -  21/08/2022

Tonti, tontine e giuridiche tontinerie - Massimo Paradiso

Due gruppi di persone avanzarono decisi nell’aula delle udienze e non si fermarono se non quando furono a una spanna da Governatore: forse immaginando che più si appressavano al giudice maggiore era la loro prossimità a un favorevole esito della lite, non lasciarono alcuno spazio libero. Fu il segretario che dovette con fatica farli allontanare: a parte la mancanza di rispetto verso il giudicante, Sancho Panza non vedeva bene da vicino per una leggera forma di miopia e non gradiva che gli si venisse sotto il naso. Distanziati un po’ i gruppi di persone, ne emersero due strani figuri che, alla toga nera, s’indovinava essere avvocati. E dico strani perché, se li avessero scelti come personaggi per una commedia buffa, non avrebbero potuto far di meglio (o magari di peggio, a seconda dei punti di vista). 

Uno era grasso come un tordo, ilare, pelato come una palla da biliardo, e si moveva a scatti facendo ballonzolare il ventre. L’altro incarnava tutto quel che gli si opponeva: magro come un’acciuga, ricordava le alici anche per una cert’aria muffita, come se il sale, oltre a prosciugare ogni umore, l’avesse rinsecchito riducendolo alla sola pelle. [E visto che la frase precedente è palesemente un commento personale del resocontista, sia permesso al curatore di richiamare una volta per tutte, in apertura di questo resoconto, l’avvertenza più volte formulata: se può dubitarsi, massime in questa occasione, che le parole messe in bocca al Sancho Panza siano proprio le sue, non è dato revocare in dubbio la fedeltà del resoconto ai fatti avvenuti nella sala d’udienze di Baratteria]. 

Era evidente che i due avvocati patrocinavano gli opporti schieramenti e si guardarono, prima di prendere la parola; ma senza astio di sorta, come per dire: prego Collega, inizi pure Lei; erano perciò contrapposti l’uno all’altro solo per ragioni procedurali. Infine, uno dei due prese risolutamente la parola.

«Eccellenza! Come certo avrà modo confermare l’illustre collega del Foro di Senares, siamo qui per una controversia del tutto peculiare, che mai forse è approdata a un’aula giudiziaria e che, sia detto francamente e senz’offesa per questo illustre giudicante che tutti ormai lodano come novello Salomone, presenta risvolti tecnico-giuridici di straordinaria complessità. Ma io, scusate Eccellenza, sto mettendo il carro davanti ai buoi e, imperdonabilmente, non mi sono ancora presentato, né ho presentato i miei assistiti. Mi chiamo Pedro de Alvarado e qui patrocino la posizione e i diritti degli eredi di Caetano Pizarro a fronte delle pretese degli eredi di Diego Altamirano, difesi dall’esimio collega Cristóbal de Morante, anch’egli del Foro di Senares, qui presente. Ed è col consenso dell’egregio giureconsulto appena mentovato oltre che, sa va sans dire, dell’insigne giudicante preposto a questa pubblica udienza, che mi appresterei a esporre le coordinate principali della diatriba giuridica sulla quale s’innestano le pretese delle contrapposte parti in causa».

Il nostro giudice, forte delle esperienze dei giorni precedenti, era ormai rassegnato: lo aspettava un profluvio di parole tra le quali non sarebbe stato facile districarsi, pur se negli avvocati aveva imparato almeno ad apprezzare la puntualità dei riferimenti ai fatti rilevanti, senza digressioni o deviazioni a circostanze marginali. Se ne uscì perciò con un asciutto «Dite pure, avvocato», nettamente contrastante con l’ampio, grazioso gesto col quale “l’egregio giureconsulto avversario” esprimeva il richiesto consenso all’iniziativa del primo.

«In esordio al mio dire – riprese l’avvocato – accennavo alla singolarità che vede deferita d’autorità a questa sede una questione per l’innanzi affidata a un arbitrato guidato dalla Escuela de derecho dello Studium generale di Salamanca, e che ha visto impegnati giureconsulti tra i più illustri, vuoi per l’inusitata complessità delle questioni poste alla scienza giuridica, vuoi per la novità starei per dire assoluta, vuoi infine per la rilevanza, non soltanto economica, della controversia che vede coinvolte due delle famiglie più illustri del regno di Castiglia e Leòn. E l’autorità che ha disposto tale deferimento è nientemeno che quella del duca d’Alba e Villahermosa, che Iddio protegga». L’avvocato si rese conto che la sua insistenza su quel “deferimento” rischiava di alienargli le simpatie di chi pur doveva giudicare, sicché si affrettò ad aggiungere: «Una decisione, infine, che ritengo si debba senz’altro approvare, atteso che la predetta questione pende ormai da circa dieci anni senza che si riesca a venirne a capo».

La pazienza del giudice però già periclitava – forse perché non aveva quasi chiuso occhio durante la notte –, sicché ritenne di intervenire in maniera secca: «Avvocato, l’ascoltiamo volentieri, ma da un professionista come lei ci aspetteremmo meno circonvoluzioni, che talora hanno dell’ozioso, e la capacità di centrare subito l’oggetto del contendere». Un lieve sorriso aleggiò sulle labbra dell’avvocato di controparte, che non per nulla aveva concesso volentieri la prima parola all’avversario: sapeva infatti che la sua verbosità irritava immancabilmente i giudici. Si meravigliava però che il giudice si fosse già stancato: forse, non essendo giurista, non era aduso a certe elucubrazioni che sembrano indispensabili agli avvocati, magari soltanto per impressionare il cliente. Male invece ci rimase l’avvocato de Alvarado, per essere stato ripreso da un bifolco travestito da giudice, e non volle rinunciare a prendersi una piccola vendetta. D’altra parte l’inveterata abitudine a un eloquio elaborato, quando non intenzionalmente contorto, gli rendeva difficile anche soltanto concepire pensieri lineari: dovette perciò sforzarsi non poco, e con risultati non sempre commendevoli. Disse perciò:

«Accolgo volentieri, ed anzi con un po’ di sollievo, l’invito alla concisione del nostro eccellentissimo giudice e dico pertanto, senza più por tempo in mezzo e senza ulteriori delucidazioni, che il nucleo della questione riguarda una tontina». Quindi assaporò con vera voluttà lo sconcerto di tutti i presenti, ivi compresi gli ufficiali del comune, alcalde e siniscalco in testa. Inutile dire che nulla comprese neppure il nostro giudice: ma la cosa non lo preoccupò più di tanto, visto che erano tante le cose che gli riuscivano incomprensibili.

Assaporata la sua piccola vendetta, l’avvocato de Alvarado pensò bene di riprendere le sue abitudini oratorie e pensò bene di prenderla da lontano: «Forse qualcuno, e non necessariamente tra i più sprovveduti, penserà che tontina derivi da tonto... », disse, e si guardò intorno in attesa di reazioni. Il siniscalco, volendo fare il saputello, accennò un sorrisetto di compatimento e mormorò: «Ma figuriamoci...». Ma l’avvocato subito incalzò: «Sì, è proprio così!...» facendo arrossire il siniscalco, tra la soddisfazione compiaciuta degli altri funzionari, ma per aggiungere subito dopo: «Attenzione però. Tontina deriva sì da tonto, ma qui la parola non va intesa come sinonimo di sciocco o di scimunito. Tonto è semplicemente il cognome di un italiano...» e mentre il siniscalco aveva la sua piccola rivincita, che fece valere dardeggiando uno sguardo di trionfo sui colleghi, proseguì: «Se poi derivi da un soprannome, e pertanto scaturisca dalla disistima da cui la famiglia era circondata, non saprei dire. Certo si è che, se mai lo erano stati, “tonti” non lo erano più quando un esponente di detta famiglia, Enrico de Tonti, elaborò il primo abbozzo di un’idea che oggi va sotto il nome di “tontina” e che tante discussioni e diatribe sta sollevando nelle scuole di diritto di mezza Europa». 

L’avvocato avrà avuto i suoi difetti, ma certo conosceva il suo mestiere, perché aveva suscitato l’interesse di tutti e in particolare dei giuristi presenti. Riprese dunque: «Corre l’obbligo di precisare che, allo stato, questa “tontina” è poco più che un’idea, uno schema di composizione di privati interessi che dal contratto ripete struttura e funzione e che però non riscuote ancora generale riconoscimento e tanto meno prammatica sanzione. In breve, questo banchiere, perché di un banchiere si tratta, ha lanciato un’idea di massima che, a quanto pare, il figlio Lorenzo sta perfezionando. Stando alle voci che circolano infatti egli si appresterebbe a sottoporla all’attenzione del re di Francia e dei suoi ministri come strumento atto a risollevare le sorti delle dissestate finanze francesi». Catalizzata l’attenzione, dopo una breve pausa l’avvocato riprese. «Non è questo tuttavia l’aspetto che ci interessa ed è giunto il momento di esplicitare in che cosa consiste la struttura di questa tontina e perché essa viene portata a questo augusto consesso giudicante». 

Il povero Sancho non sapeva più che faccia fare. Anche lui era passato per ipotesi e disillusioni a proposito della “piccola tonta” e ancora non sapeva di che cosa si trattasse; poi, aveva il sospetto che, più che adulazione o cortigianeria – sulle quali si poteva glissare, facendo finta di niente –, certe espressioni fossero invece palesemente ironiche, e dunque oltraggiose per la sua persona e per la carica che rivestiva. Ma insomma..., proprio non sapeva decidersi e perciò decise di tacere, passando sopra alla questione. Intanto, l’avvocato de Alvarado aveva ripreso la sua arringa.

«In breve, la tontina consiste in una società o associazione, detta appunto tontinaria, che ha questo di caratteristico. Alcune persone si aggregano mettendo in comune un bene, per lo più un immobile o un capitale conferito per l’occasione, e questo bene rimane in comproprietà fra tutti gli associati, che se ne spartiscono i frutti come avviene d’ordinario. Alla morte di ciascun partecipante, tuttavia, la sua quota non cade in eredità, non va agli eredi: essa si accresce a quella dei superstiti fino a quando, rimasto in vita uno solo di essi, costui diviene proprietario esclusivo del bene o del capitale. È perciò una operazione di rischio e, si noti, non è consentito disporre della propria quota: né per atto tra vivi, né a causa di morte». Fece una pausa l’avvocato, per riprender fiato, e il suo collega Cristóbal de Morante ne approfittò per farsi avanti.

«Se sua Eccellenza lo consente, a questo punto vorrei intervenire io per illustrare, con specifico riferimento alla questione che in oggi viene portata in quest’aula di giustizia, come e perché un contratto similare è intervenuto tra i danti causa degli odierni querelanti che, dunque, qui si presentano non già in veste di contraenti, bensì in qualità di aventi causa dai rispettivi, predetti danti causa o de cuius che dir si voglia». Il buon Sancho si volse candidamente con aria interrogativa al fido segretario e questi gli sussurrò che, nel discorso dell’avvocato, gli aventi causa non si identificavano con quelli che lì avevano causa; e questo perché la “causa” che lì si aveva non era la stessa “causa” che essi avevano dal loro de cuius, e cioè dall’ereditando, questa consistendo nei diritti che dallo stesso si avevano a “causa di morte”. Il nostro spalancò gli occhi, ancor più confuso e il segretario, scusandosi, chiarì che si trattava degli eredi di coloro che avevano stipulato questo benedetto contratto.

Senza attendere autorizzazione di sorta, il difensore proseguì. «In via preliminare, è bene che l’Eccellenza vostra sia messa al corrente delle vicende che, in ultimo, hanno riguardato i rapporti tra gli ultimi superstiti dell’associazione tontinaria. In origine, erano nove e misero in comune un palazzo signorile di ben 52 stanze appartenuto a don Martin Velázquez de Cuéllar. Questi, giocatore incallito e impenitente, aveva già dilapidato quasi tutto il suo patrimonio durante la guerra nelle Fiandre, vuoi tirando i dadi nelle maledette trincee fangose, vuoi giocando a faraona nei salotti. Infine, gli avvenne di perdere anche il palazzo patrizio: nove capitani di ventura gli avevano strappato il palazzo, vincendone ciascuno una porzione. Non trovando essi da rivenderlo né da affittarlo, e non volendolo lasciar vuoto e senza custodia, pensarono bene di concederlo in comodato, e cioè in uso gratuito, agli Ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme». Il vecchio Sancho si sentì in qualche modo riconfortato, sentendo parlare di cose alla sua portata e annuì con forza, mentre Cristóbal de Morante proseguiva.

«Nel corso della guerra, e poi per altre vicende, vennero a morte sette dei soci originari così che ne rimasero due: Diego Altamirano e Caetano Pizarro. Entrambi ormai avanti negli anni, i loro animi si inasprirono, come talora succede vuoi per vecchiezza vuoi per durezza di carattere, trattandosi di uomini d’arme. Fatto sta che mentre il Pizarro godeva ancora ottima salute, quella di Altamirano declinava a vista d’occhio. Il primo perciò già si vedeva unico signore del palazzo e su quello ormai contava per ben maritare la figlia, quasi priva di dote, al punto che s’era sbilanciato con l’auspicato genero e lo sperato consuocero. Or avvenne invece che il Pizarro si scoprì una brutta forma di cancro, che minacciava di condurlo a morte da un giorno all’altro. Decise allora di non poter più aspettare e sfidò a duello l’Altamirano: contava così di dare una mano alla sorte, rimanendo l’unico superstite. Certo fu molto furbo perché, senza testimoni, offese gravemente il suo consocio che pertanto lo sfidò a duello». 

«Su questo, illustre collega, discuteremo in seguito, dacché non mi constano le circostanze che voi allegate» interruppe, ma amabilmente, l’avvocato de Alvarado. «Quando e come vorrà l’esimio procuratore di parte avversa» replicò l’altro, che riprese: «Entrambi gravemente feriti in conseguenza del duello, avvenne che il Pizarro sopravvisse per qualche minuto, rimanendo così l’ultimo superstite e pertanto, incredibilmente, pretende di esser divenuto proprietario esclusivo del palazzo de qua». Tacque alfine, guardando il giudice.

«Bene. Abbiamo così afferrato almeno un capo della matassa, che però mi sembra comunque ancora aggrovigliata... » buttò lì il buon Sancho, temendo non gli chiedessero di decidere in base a quel che avevano detto. Ma non era certo così. L’avvocato degli eredi Pizarro, Pedro de Alvarado, a questo punto chiese la parola. «Eccellenza, mi vedo costretto a riprendere per sommi capi quanto ebbi a dire in ordine al contenuto del contratto di tontina: l’ultimo dei superstiti vede accrescere la propria quota con quella del penultimo a rimanere in vita. E si noti che questo avviene in via automatica, senza bisogno di manifestazioni di volontà, e d’altra parte – lo voglio rimarcare – senza possibilità di rifiuto. Sì, Eccellenza, sì Signori! È questa una caratteristica propria di tutti i diritti reali: la loro elasticità, la loro attitudine ad espandersi all’intera cosa una volta che, per una qualsiasi ragione, sia venuto meno l’eventuale diritto di altri sul bene. Ma attenzione! Non è che questo succeda solo nel contratto di tontina: già si verifica in via generale nell’istituto della comproprietà nel caso in cui uno dei condomini, ad es., rinunzi alla propria quota. Qui in definitiva, e sia pure in virtù di un patto espresso tra le parti, si verifica proprio questo: che la quota del superstite si accresce di quella che è venuta a trovarsi priva di proprietario per effetto della morte del medesimo. Non vedo dunque come possa revocarsi in dubbio che il mio assistito, e per esso di poi i suoi discendenti ed eredi, siano divenuti proprietari dell’immobile de qua».

«L’esimio collega – proruppe Cristóbal de Morante – passa sotto silenzio uno dei fondamentali principi che reggono il nostro diritto successorio: una regola che risale ai primordi del diritto romano e che commina la sanzione della indegnità a succedere per l’erede – rectius: per il chiamato all’eredità – che abbia causato la morte dell’ereditando. Vero è che la giuridica dottrina ritiene comunemente non attagliarsi la previsione all’omicidio non doloso, ma certo nessuno, nella presente fattispecie, ardirà sostenere si sia trattato di omicidio colposo. Ammesso e non concesso che esulasse dall’animo del Pizarro un vero e proprio intento omicidiario – non aveva egli certo ragione di odiare il vecchio compagno d’arme – certo l’evento-morte era “preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione”, come recitano i migliori canoni a proposito della definizione dell’estremo del dolo. Invero, se il bene doveva acquisirsi in capo all’ultimo superstite, è giocoforza ritenere che nel Pizarro albergasse proprio e specificamente l’intento di condurre a morte colui che ormai costituiva l’unico ostacolo che si frapponeva all’agognato acquisto». 

Ma de Alvarado certo non rimase silente: «Per amor di concisione, omettiamo pure di soffermarci sulla questione se, ove mai fossimo in presenza di ipotesi che potesse esser qualificata come indegnità a succedere – e ciò sia detto per mera, astratta, astrattissima ipotesi escogitata per amor di discussione –, omettiamo pure, dicevamo, di trattare la questione se la posizione del Pizarro vada qualificata in termini di “chiamato all’eredità” piuttosto che di “erede”. Ricordo infatti che un vecchio brocardo, nel sancire che indignus capere potest, sed non potest retinere, implicitamente attribuisce a chi pur sia qualificato come indegno la qualità di erede e non di (mero) chiamato. Trascuriamo dunque di trattare una siffatta questione – che comunque si appalesa come meramente teorica nel caso di specie, atteso che la contestazione alla pretesa del sedicente erede è stata immediata, neppur ponendosi perciò il problema di una eventuale prescrizione del diritto di controparte di accettare l’eredità – e veniamo piuttosto al nocciolo della questione». 

A questo punto, non solo il nostro Sancho ma tutti gli astanti erano nella confusione più totale e avevano rinunciato a seguire gli avvocati nelle loro circonvoluzioni, sì che ciascuno cominciò ad occupare il tempo come più gli veniva congeniale: qualcuno chiacchierava col vicino, qualcun altro faceva gli occhi dolci alla comare sperando che il marito non se ne accorgesse; altri fantasticava di vincite al giuoco di palazzi nobiliari, altri ancora sbadigliavano senza ritegno. L’avvocato de Alvarado, intanto, continuava imperterrito.

«L’illustre collega infatti trascura che nel caso di specie l’acquisto in capo al Pizarro non s’è compiuto per via ereditaria: s’è compiuto in virtù del contratto stipulato tra le parti nel momento in cui s’è dato l’evento contemplato nel contratto medesimo. In altre parole, qui il decesso non opera come semplice “innesco” di una vicenda traslativa di diritti che trova il suo fondamento nella legge, come nelle successioni a causa di morte: è nella legge infatti che si ritrova la necessaria valutazione di opportunità, da un punto di vista sociale, in ordine alla preventivata traslazione di diritti appartenuti a chi non è più; ed è altresì nella legge che viene specificata la “direzione” di detta vicenda traslativa: e cioè a in capo a chi, e a quali condizioni, si acquisiranno i beni. Al contrario, nel caso che ne occupa la scomparsa (di uno o più) dei contraenti costituisce un mero evento condizionale, e precisamente la condizione sospensiva, cui è subordinato il menzionato effetto traslativo». 

«Meraviglia – replicò subito Cristóbal de Morante – che un fine giureconsulto qual è l’egregio collega del Foro di Senares non colga la contraddizione insita nelle sue stesse parole. Egli cos’altro ci ha detto infatti se non che, nel contratto in questione, il decesso di una certa persona è la “causa” dell’acquisto che si determina in capo a un’altra? Se per causa s’intende, e non può non intendersi, l’evento che produce, che “causa” appunto il divisato effetto, non può che restarne confermato l’assunto: anche il nostro è un “acquisto a causa di morte” e pertanto devono applicarsi tutti i principi e le regole che disciplinano la materia». 

«Non creda il pregiato collega che appellarsi alla lettera delle parole lo condurrà ad altro luogo che non sia un vicolo cieco: quando si dice che le successioni determinano acquisti “a causa di morte” lo si dice semplicemente per distinguerli, e poi contrapporli, a quelli che si determinano “per atto tra vivi”, e cioè per contratto». «Posso convenire – replicò subito Cristóbal de Morante – che questo sia la funzione per così dire immediata della contrapposizione: ciò non toglie, tuttavia, che le vicende acquisitive siano rette da regole proprie e diverse. Quello che ci occupa è un acquisto a causa di morte e dunque, applicando le relative regole, chi ha cagionato la morte di un soggetto non può succedergli nei diritti».

«E sia! Proviamo a ipotizzare – frappose Pedro de Alvarado – che si debbano applicare le regole successorie. Ma se così fosse, la prima regola che da applicarsi sarebbe quella che vieta i patti successori, e in particolare quelli detti istitutivi. È noto che questi sono gli accordi con i quali già in oggi si stabilisce a chi andranno i propri beni in eredità. Dunque, ci si vincola ora per allora, si predetermina la sorte che avranno i propri beni a partire dal momento della morte. Ed è noto altresì che questo patto è vietato, come ammonisce il principio, anch’esso risalente al diritto mano, che vuole sia ambulatoria la voluntas testantis unque ad vitae supremum exitum. Ebbene, cos’altro hanno fatto i paciscenti se non stabilire in anticipo la sorte di un loro bene al momento, e a causa, della morte? Se dunque, dobbiamo applicare le regole del diritto successorio, il contratto di tontina è nullo. Pertanto, gli eredi qui presenti acquisterebbero, ma per via di acquisti ereditari mortis causa, ciascuno la quota che era appartenuta al loro ereditando, sia questi Caetano Pizarro, sia egli Diego Altamirano. Soluzione, quest’ultima, in sé possibile e fors’anche non irragionevole. Senonché, se la tontina fosse nulla, nulli e privi di effetto si rivelerebbero anche i precedenti acquisti via via realizzatasi per effetto dei decessi degli originari contraenti che si sono susseguiti nel tempo. Dunque – concluse con un sorriso di trionfo l’avvocato – le parti oggi in causa dovrebbero restituire agli eredi dei loro consociati i 7/9 dell’immobile di cui si tratta! Le sembra un buon risultato?», concluse beffardamente.

L’avversario, però, non fece una piega e replicò: «Ovviamente no, no che non sarebbe un buon risultato per le parti oggi in causa. Ma è un esito necessitato? Non credo proprio. E non lo credo per un fatto che mi permetto di riportare alla memoria dell’illustre collega: la tontina di cui parliamo è stata pattuita nelle Fiandre, dove gli originari contraenti si trovavano di servizio nelle armate del nostro amato sovrano Filippo, che Dio protegga. Ebbene: non mi risulta che nei Paesi Bassi quel contratto sia vietato e, d’altronde, neppure posto in discussione. E al riguardo è noto il principio che regola i rapporti di diritto internazionale privato e che qui, per semplicità, mi permetto di riassumere nel principio locus regit actum: per decidere della validità di un contratto occorre rifarsi alla disciplina vigente nel luogo in cui il contratto medesimo è stato concluso».

«Rendo onore alla correttezza professionale del mio eminente avversario, l’avvocato Morante, che non ha spacciato per certa la notizia della liceità della tontina nei Paesi Bassi. E pertanto, se il collega conviene con me, propongo di chiedere una sospensione del presente giudizio in attesa di appurare la disciplina colà vigente sul ridetto contratto di tontina». «Senz’altro, eminente collega! – rispose subito l’avversario –. La sua mi sembra proposta degna della massima considerazione nonché di schietta approvazione. Non si può decidere, sulla base di dati manchevoli o insufficienti, un caso importante come questo: un caso, sia detto per inciso, che non a caso pende ormai da quasi dieci anni in un arbitrato guidato dalla Escuela de derecho dello Studium generale di Salamanca, e che vede tuttora impegnati giureconsulti tra i più illustri ed acclamati». 

Come già rilevato, da tempo il buon Sancho aveva rinunciato a seguire la querelle, come del resto quasi tutti gli astanti. Comprese però che alla fine i due difensori avevano concordato sulla opportunità, anzi sulla necessità, di un rinvio. E si trattava di una causa pendente da oltre dieci anni! Stava per dare il suo consenso, per liberarsi dall’impaccio, quando gli sovvenne una frase che aveva sentito nella bottega del barbiere: Causa che pende, causa che rende. Non ricordava se si trattava di un proverbio o di una barzelletta. Guardando però le espressioni distese e soddisfatte dipinte sulle facce dei due procuratori, gli venne il sospetto che al loro repentino accordo non fosse estraneo il fine di continuare a far “rendere la causa”. Vide anche che nei due contrapposti gruppi di “aspiranti eredi” numerose s’erano fatte le facce scure e palesemente irritate: e lo credo, dopo dieci anni! Decise quindi che gli avvocati non l’avrebbero spuntata. Fece avvicinare le parti in causa, parlottò sottovoce con loro e infine si alzò in piedi con un lieve sorrisetto sulle labbra.

«Le conclusioni alle quali sono giunti i due illustri procuratori mi hanno pienamente convinto! La causa in questione pende ormai da troppo tempo. D’altra parte, come pure hanno riferito, se da oltre dieci anni i migliori giureconsulti di Castiglia e Aragona discutono senza riuscire a trovare il bandolo della matassa, deve trattarsi di questione veramente difficile. Come pensare allora che una tale questione possa essere risolta in un tribunale in cui siede un giudice munito di buon senso più che di scienza? Gli avvocati, interessati come sono alla soluzione della questione teorica, di comune accordo propongono un rinvio della decisione. Questo tuttavia non mi sembra opportuno: si rischia che gli eredi piuttosto che ereditare riescano soltanto a raggiungere il defunto nell’al di là prima che intervenga la decisione. Propongo allora, visto che si tratta di questione troppo difficile per gli uomini, di affidarla al giudizio di Dio!». 

Un brusio di sorpresa si levò tra la folla e, mentre gli aspiranti eredi annuivano, gli avvocati protestarono all’unisono: «Ma Eccellenza, le ordalie sono residuo di un barbaro passato. Sono ormai unanimemente condannate e su questa condanna convergono la Chiesa, i decreti e i decretalisti!». «Per quanto ne so – replicò il giudice – quelle che sono condannate sono le ordalie di sangue; le altre sono tollerate, insieme ai giuramenti, almeno quando vi sia il consenso delle parti interessate. Se dunque le parti in causa lo consentono, potremmo procedere all’ordalia più semplice: quella per sorteggio».

La proposta riscosse un largo consenso: il sorteggio elideva gli aspetti più discutibili, e talora truculenti, delle ordalie più antiche; inoltre, non faceva dipendere l’esito della questione dalla forza o dall’abilità dei campioni che si misuravano “per conto terzi”, secondo un costume che pure aveva conosciuto larga diffusione soprattutto nelle cause civili. Dunque, concluse il buon Sancho, sempre che sia volontà di Dio, l’esito della prova sarà il migliore possibile, il più giusto in assoluto. Tra le rimostranze degli avvocati e l’eccitazione del pubblico, che mai aveva assistito a un simile giudizio, il giudice stabilì che si sarebbe lanciato in aria un reale d’argento lasciandolo poi ricadere sul pavimento e, a maggior garanzia d’imparzialità, il lancio sarebbe stato effettuato da un ragazzo. Scelte testa e croce dalle parti in causa ed effettuato il lancio, avvenne che la moneta, dopo aver urtato contro il soffitto, andò a cadere su una travatura della volta. 

Altra complicazione. Arrampicarsi sulla trave per verificare l’esito della prova o ritenerla nulla? E in tal caso, rifare la prova era lecito o avrebbe significato tentare Dio, come affermava qualcuno? E se il suo giudizio fosse proprio questo? Che nessuno doveva avere quel palazzo, prezzo di frode se non di delitto? Alla fine, a decidere per tutti fu una gazza ladra: vista brillare la moneta, calò su di essa e se la portò via lasciando tutti col naso per aria. Una cosa sembrava chiara al buon Sancho: la farina del diavolo va sempre in crusca. Fece perciò avvicinare gli aspiranti eredi e ancora una volta confabulò sottovoce con loro. Infine si alzò e:

«Le parti in causa, d’accordo tra di loro, convengono di rinunciare a ogni pretesa sul palazzo in questione e ciascuna per la parte che ad essa compete, se le compete, ne fa pubblica donazione agli Ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme. La donazione è fatta con l’onere di tener ferma l’attuale destinazione – e cioè pubblico spedale e ospizio per i poveri – e l’obbligo di far celebrare cento messe per la salvezza delle anime di Diego Altamirano e di Caetano Pizarro. La seduta è tolta».

Gli avvocati discutevano animatamente tra loro, il pubblico ancora indugiava in sala discutendo dell’accaduto, mentre il buon Sancho guadagnava rapidamente l’uscita tirando un sospiro di santa soddisfazione. 

Brano tratto da

“Chiedo giustizia, Eccellenza..." Resoconto esattissimo delle udienze di giustizia tenute da S.E. don Sancho Panza Governatore dell’isola di Baratteria




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