-  Cendon Paolo  -  31/07/2012

UN DIRITTO PER TUTTI: LA NUOVA FRONTIERA DEI DIRITTI UMANI - Paolo CENDON

Viene pubblicata qui (anche se ha un valore soprattutto storico) una relazione di Paolo Cendon presentata a un convegno genovese di vent'anni fa

 

GENOVA - Il Diritto dei Nuovi Mondi - 5/7 novembre 1992

 "Un diritto per tutti" è il titolo assegnato a questa relazione da Giovanna Visintini; e mi viene spontaneo iniziare il discorso con una semplice constatazione.

 Molti sono gli aspetti per cui il nostro paese risulta   famoso all'estero: l'arte, gli spaghetti, la Ferrari, il papa, gli stilisti, Federico Fellini. E così via. Se veniamo al diritto, però, pochi figurano gli elementi per cui il "Made in Italy" può dire di essere davvero celebre sulla terra; meno ancora i settori per cui risultiamo, effettivamente, conosciuti non unicamente in Argentina o in Venezuela, ma anche negli Stati Uniti, a Cuba, in Canada, nel Messico, in Australia. E ancor più rare   - mi sembra - le cose per cui non solo succede, a noi italiani, di trovarci   invitati all'estero per seminari o convegni di vario genere; ma nei cui confronti (si constata che) sono i forestieri a venire semmai in Italia, a controllare se alcune promesse di rinnovamento sono mantenute, se certe speranze stanno   avverandosi.

 Una di queste realtà - politico/turistico/culturali - è sicuramente quella rappresentata dalla legge 180:   ossia il provvedimento normativo che quindici anni orsono ha (come si sa) cancellato, almeno sulla carta, i manicomi dalla scena ufficiale del nostro paese.

 Parlo come civilista che vive a Trieste; e c'è anche il fatto che sono veneziano di nascita, così come lo era Franco Basaglia. Motivi geografici a parte, sarebbe difficile però - effettivamente - dire in quanti altri luoghi della penisola   succede (come dove abito) che vi siano delegazioni di psichiatri stranieri, gruppetti di filosofi, politici, e poi scrittori, esperti in sociologia di vari ambienti, architetti, e ancora giornalisti di varie branche, cultori di diritto sanitario, epistemologi, curiosi   interdisciplinari o transculturali, operatori   OMS,   e quant'altri mai, i quali settimanalmente giungono all'ex O.P.P. di S. Giovanni, nel parco al centro della città di S. Giusto, per guardare e documentarsi - che cercano di capire se, e come, l'utopia antimanicomiale sta procedendo.

 Dal vecchio mondo a quello nuovo? Sì, ma anche   dal nuovo mondo al vecchio, come si vede: almeno metà dei visitatori arriva dall'America. Ed ecco il miglior filo da seguire, allora, sul tema dei soggetti fragili o emarginati. E' un "diritto per tutti" che occorre cercare   di immaginare? Si tratta, anzi, di indovinare il volto che tale universo prescrittivo dovrebbe assumere (riguardo agli infermi psichici, e poi via via ai bambini, ad alcune minoranze, ai malati, agli handicappati fisici, ai detenuti, agli alcolisti, agli svantaggiati in generale) non solo per il tempo che ci divide dall'anno   duemila, ma addirittura durante il prossimo millennio?

 Direi allora che - volendo continuare a meritare l'attenzione di tanti stranieri (e difendere magari la nostra "competitività" come giuristi: non c'è un po' questo elemento di sfida intercontinentale, nel convegno genovese di oggi?) -   occorrerà   fare il bilancio con sincerità. Muovendo dalle questioni circostanti alla l. 180: ciascuna utilizzata, nella misura del possibile,   come   cartina di tornasole per pronunciarsi sullo statuto (e sul vissuto) di ogni altro soggetto "debole";   come banco sperimentale su cui misurare meriti, e inganni, di questa parte del sistema.

 E siccome il caso vuole che, di recente, sia diventato una sorta di "esperto in comandamenti" (dal punto di vista editoriale), tale potrebbe essere l'ordine immediato del discorso. Non però secondo il passo di un decalogo: nei confronti di creature le quali - come i deboli - quasi mai hanno vite davvero movimentate (in senso mondano almeno), dieci prescrizioni sarebbe probabilmente troppe. Anche per uno studioso di diritto. Sei comandamenti appaiono più che sufficienti.

 Nè la miglior indicazione espositiva appare, d'altro canto, quella di una serie di punti, ben precisi, da analizzare al positivo. Piuttosto, su un tema così ricco e difficile, la scelta di una formula essenzialmente   negativa (non siamo nelle terre di Eugenio Montale?) - l'individuazione di tracce di lavoro che è opportuno non seguire, di errori da non commettere.

 

 [1] Non rinunciare al ruolo del diritto Mai supporre, anzitutto, che i soggetti "deboli" possano avanzare   nella società odierna per forza propria, farcela da soli, in tutte le evenienze significative: senza una rete di precetti che obblighi - chi di dovere - a occuparsi di loro, che permetta una reazione tecnica dinanzi alle inadempienze.

 Mai immaginare, in particolare, che esista - in un settore del genere - una specie di meccanismo spontaneo o di mano invisibile; che il mercato basti a risolvere le varie questioni insorgenti. Che, ai bordi delle istituzioni, operino   sempre folle di spiriti evangelici, contrattazioni volonterose, amministratori insonni; che sparse dapertutto vi siano inerzie feconde, assessori bendisposti, pieghe di bilancio ignorate, sistematiche remissioni di debiti, erogazioni inattese. Che ovunque si incontrino personaggi usciti dai film di Frank Capra, avanzi di cassa, funzionari in odore di beatitudine; spontaneità miracolose, sorprese natalizie, imitatrici di Madre Teresa, rifinanziamenti o riequilibri automatici.

 Anche qui insomma - qui anzi, soprattutto - lo strumentario oggettivo del diritto rimane indispensabile per la giustizia; sotto più punti di vista: suggella formalmente le eventuali conquiste (amministrative, organizzative, politiche), impedisce o rallenta i ritorni all'indietro, rende sanzionabili,   formalmente, le evasioni. Talora mette in moto meccanismi di contagio, di rilancio.

 E' difficile, sì, che le leggi economiche siano favorevoli agli handicappati e ai bisognosi - in generale, amiche o alleate delle persone fisiche, in quanto tali. Ma il diritto delle persone ha, spesso, le sue "ragioni" che l'economia non conosce.

 

 [2] Non pensare che il diritto possa bastare Diritto sì, ma quale? Quello fatto di proclamazioni sognanti, di stendardi agitati ai discorsi d'inaugurazione, di sdegno nelle assise internazionali? Di slogan ostentati nei primi articoli di ogni legge-quadro regionale?

 In parte sì, anche questo è utile alla causa. Fissa una serie di paletti: registra l'emersione di nuove sfumature (pure i deboli hanno novità, tecnologie che li riguardano, miti cangianti, avvicendamenti, leggi d'emergenza, farmaci che vanno e vengono, vite che se non si spengono si allungano). Rinsalda - con la continuità - il rango dei vecchi comandi; ed è un pregio notevole.

 Però non solo questo; oltre al diritto, molte altre cose necessitano. Meglio ancora, serve un diritto riempito di tanti altri elementi. E prima di ogni altra cosa - come chiave di lettura sistematica - quello che si è cominciato a denominare, dagli anni '70 in poi, il "territorio", che potrebbe oggigiorno chiamarsi   organizzazione intrecciata, cascami del Welfare State, funzionamento quotidiano, effettività. Con le varie sfaccettature immaginabili. Le nervature amministrative, le scuole di formazione degli operatori, le strutture intermedie; la sensibilità e il realismo dei giudici, degli uffici del lavoro, le sinergie del volontariato. La collaborazione fra uffici pubblici, il bando a mille rivalità, sospettosità, incomunicazioni.

 I soldi, certamente. Ma anche la fine di troppi sprechi - dovuti a mere sovrapposizioni di competenze. E poi, "day hospital", teatrini, appalti preferenziali (qua sì); laboratori artigianali, scuole di riqualificazione, cooperative sociali. Cucine, assemblee, piccole editorie, mezzi stipendi;   padiglioni lindi, feste, teledrin, vigili di quartiere.

 Soprattutto assistenti sociali che giorno per giorno (per i deboli che non possono recarsi nei Centri) entrino discretamente nelle case "difficili", sorveglino gli inizi del male;   assumano informazioni e comunichino notizie (verticalmente, orizzontalmente), accertando eventuali aggravamenti, focolai imprevisti, doppi legami.

 E, per chiunque sia al potere, mai dimenticare che quanto più tutto funziona, tanto più le cose rischiano di precipitare - ogni sei mesi, ogni anno. Sapere che, da qualche parte, occorrerà fare in modo di rinsanguarlo - e che questa necessità si presenterà di continuo.

 Per chi, poi, queste cose deve studiarle, lo stesso. Raccolte di leggi, beninteso; ma anche tutto il resto. Le statistiche della circoscrizione, l'ampiezza dele isole pedonali, i bilanci del Comune, l'organizzazione dei trasporti; la qualità del verde pubblico, gli orari degli asili nido, l'officina per la riparazione delle carrozzelle.

 

 [3] Non abdicare al ruolo del diritto civile - Non solo il diritto civile, abbiamo detto. Anche servizi socialsanitari, provvidenze fiscali, amministrative, reticolati assistenziali: tutto quanto può occorrere al benessere di chi è escluso, isolato. Diversamente da ciò che in dottrina accade spesso, però, mai credere che - nel tratteggio dei percorsi di attenzione al destino delle persone sfortunate - lo studioso possa prescindere dalla considerazione del diritto civile.

 Il motivo? Appare connaturato all'essenza stessa del problema. E' nell'incrinatura delle possibilità di scambio con il contorno circostante, nella colloquialità sospesa o ferita, che va colto il motivo unificante delle posizioni dei soggetti fragili.   Nessuno escluso. Detto con una parola: la debolezza   come perdita di una   "relazionalità" -     verso l'esterno   come all'interno delle mura di casa (privacy, esigenze alimentari, cultura, necessità spicciole, mass-media, ambiente, istruzione, hobby, arte, animali domestici) - che ben esisteva magari, nel passato della persona, in misura normale o almeno accettabile. O che non c'è mai stata, per colpa di qualcosa o di qualcuno. O per colpa di nulla. E la cui mancanza provoca comunque sofferenze giornaliere, attiva circuiti di emarginazione, apre circoli viziosi. E che potrebbe ricostituirsi, o non deteriorarsi ulteriormente, qualora l'interessato non continuasse ad essere solo con se stesso.

 Ecco allora il diritto civile o privato: diritto delle persone/della persona - in quanto branca attrezzata ad offrire risposte (sol che l'interprete ne riprenda le file, muovendo non solo dal codice civile: è palese la debolezza di ispirazione del legislatore del '42, su questo punto!) su tutti i versanti in cui si svolge la vita quotidiana. La famiglia, per cominciare: oppure il lavoro, la casa, i trattamenti sanitari, i diritti fondamentali,   gli alimenti. E poi la banca, il mutuo, la locazione, il condominio;   le vacanze, la tutela risarcitoria, il testamento, l'assicurazione, il riposo.

 Le cose di ogni giorno, soprattutto: quelle la cui necessità rende - al tempo stesso - il debole "meno" diverso (non le desidera anche lui come chiunque?) e "più" diverso (non le ha tanto meno di quanto occorrerebbe?) rispetto agli altri.

 Certo, non soltanto il diritto civile. Però, certamente, l'insieme delle regole privatistiche come sala motori di ogni prerogativa individuale. Dove sono destinati a collaudarsi gli strumenti difensivi che occorrono. E in cui si tratta però -   da parte dell'interprete non intimidito dalla difficoltà del compito -   di volare occasionalemente anche in alto, tratteggiando   le grandi linee delle posizioni soggettive   degli individui deboli: le indicazioni di cui altri comparti del diritto si vedranno chiamati magari, accanto al diritto civile, a   secolarizzare il contenuto.

 

 [4] Una volta che si è cominciato, non fermarsi C'è,   sul terreno di cui stiamo discorrendo, una sorta   di contagiosità permanente: sia all'interno dello statuto di ogni singola categoria (di soggetti handicappati), sia fra un insieme e l'altro di deboli. Una contagiosità - per chi constata i primi segni della trasformazione - da non deludere tecnicamente, pena il formarsi di squilibri peggiori dei precedenti, di vuoti penosi e ingiustificabili.

 Così, se accade a un certo punto che vengano messi in opera nuovi precetti, riguardo alla fascia degli infermi psichici, sarà difficile che qualcosa di quei mutamenti non arrivi a interessare, più o meno profondamente, qualche altro gruppo di disabili. Ad esempio: forme inedite di fronteggiamento terapeutico della devianza psichica, offriranno esempi anche per gli anziani o per i tossicodipendenti; nuove forme di gestione comunitaria per gli alcoolisti, potranno applicarsi anche ai tossicodipendenti; e così certi farmaci, certe ipotesi di gestione psicodinamica, certi specialisti "psi" negli uffici giudiziari, certe forme di convenzione con gli enti pubblici.

 Oppure: qualora si enfatizzi - con un provvedimento normativo - l'imprescindibilità del momento del "consenso" al trattamento sanitario, con riguardo a un certo gruppo di creature sfortunate, non passerà molto tempo prima che il seme gettato coinvolga tutti gli altri deboli. Se si rifiniscono nuove modalità di protezione sostitutiva rispetto a un settore di incapaci, sarà difficile (per lo studioso) non porsi il problema dell'estensione dei medesimi strumenti ad altri comparti di individui sfortunati.

 Guerra tra i poveri, ma anche pace (spontaneo conformarsi di statuti) tra i poveri.

 E,   d'altro canto, riuscire a incidere su (quello che era sino al giorno prima) il baluardo di un certo statuto segregativo, per una determinata categoria di disabili, significherà   - quasi sempre - aprire dubbi, o vertenze, in ordine ai   residui versanti disciplinari di quella categoria. Sia dentro che fuori il diritto privato.

 Viene approvata, mettiamo, una legge 180 che (sulla carta) cancella dalla scena del paese un'istituzione come il manicomio? Sarà impossibile non domandarsi, prima o dopo, sempre per gli infermi psichici, come debbano venir organizzati - nei quartieri - i Centri sostitutivi dell'istituzione che si abolisce; come dovrà avvenire l'assistenza domestica dei "matti", quali organi pubblici saranno chiamati a dar vita alle case-appartamento, alle comunità protette. Come andrà riformato il collocamento obbligatorio dei sofferenti psichici; cosa occorrerà chiedere, per essi,   al diritto penale, a quello penitenziale. E poi sul piano civilistico: come andranno immaginati correttivi grandi e piccoli nelle regole in materia di contratto, di famiglia, di   responsabilità civile, di ambiente, di accesso alla giustizia, di successioni mortis causa.

 

  [5] Non sottovalutare l'importanza delle tecniche - Quando si discorre con gli esperti del sociale (penso, ad esempio, a taluni "antipsichiatri", gelosi di certe purezze o spigolosità da anni '60 o '70), accade non di rado di vedere accolti   con diffidenza i richiami a qualsivoglia forma di "tecnica". Anche di tipo giuridico.

 Si teme,   già nel suono di quella parola, una volontà di rifugio entro forme di specialismo; entro gusci passibili di svilire, alla lunga,   l'approccio generale al problema. Qualcosa,   sembrerebbe, di illusorio e sovrastrutturale, destinato a offuscare   gli orizzonti dell'interprete più generoso -   annacquando quella lotta verso i diritti civili in cui (si afferma) consiste l'essenza stessa del "movimento".

 Moniti del genere (pur giustificati, qua e là, da   evasività o "dandismi" metodologici) non debbono esser ragione di disarmo scientifico; soprattutto per quanto riguarda le risorse organizzative di una disciplina giuridica. Le strumentazioni civilistiche in particolare: sarebbe ingiusto accusarle di reagire ai mutamenti della realtà in maniera sempre cieca o presuntuosa. Nell' imprinting stesso di forme del genere è da cogliere, semmai, una nota dialettica, vertenziale -   che funge da vaccino (quasi sempre) contro il pericolo di   subire meccanicamente gli alti e i bassi delle proclamazioni.

 Ecco allora, per lo studioso, la necessità di impegnarsi sul terreno rimediale (esegetico, di analisi della giurisprudenza;   ove occorra riformistico, attento agli ammonimenti della comparazione), affrontando questioni quali:

 (a) come potrebbero immaginarsi "centri-servizi" unificati (a livello di USL o di Amministrazione provinciale) in grado di gestire, magari in termini automatici, pacchetti di provvidenze standardizzate per i deboli - riscossione stipendi, pagamento bollette, ratei di acquisti, premi assicurativi, contributi previdenziali, abbonamenti, ordini alla banca, pensioni, decisioni amministrativo/condominiali,   versamenti associativi,   canoni, etc.;

 (b) se e quando sia possibile ottenere forzatamente, con una pronuncia del giudice (ordinario o amministrativo), l'insediamento di un ufficio/servizio previsto dalla legge, l'eliminazione di una barriera architettonica, la messa in opera di un assistente scolastico specializzato;

 (c) quali mezzi vadano immaginati, nel diritto dei contratti, onde consentire - a favore di un debole - eventuali recessi o esoneri da responsabilità per inadempimenti, o al fine di prevedere necessità particolari di informazioni (ad esempio, per i contratti di massa);

 (d) se non dovrebbe farsi luogo a margini più o meno estesi di apprezzamento/rilevanza della   colpa "soggettiva", autorizzando il giudice a "tarare" il contenuto del comportamento esigibile in funzione delle possibili difficoltà o menomazioni psico-fisiche della vittima o del danneggiante;

 (e) se non meriti di essere potenziata (in via legisltaiva, o sul piano dell'applicazione giurisprudenziale) l'area in cui operano   - a favore di soggetti deboli (figli, consumatori, donnmne, lavoratori subordinati, bersagli della pubblicità commerciale, vittime di incidenti, etc.) - fenomeni di inversione dell'onere della prova;

 (f) se non dovrebbe farsi luogo a forme di assicurazione specifica per le persone fragili, esposte - come tali - ad arrecare danno (in misura maggiore del consueto) sia a se stesse, sia ad altri soggetti.

 

 [6] Non puntare su modelli eccessivamente rigidi Gli strumenti di protezione/sostituzione dei deboli, per l'avvenire, vanno immaginati come realtà scostantisi dalla     falsariga dell'interdizione (una risposta, com'è noto, eccessivamente severa, frutto di concezioni ormai superate in sede psichiatrica, che finisce per annullare alcuni fra i diritti fondamentali della persona), e debbono articolarsi invece su modelli   aperti, non invalidanti; in particolare su:

 (I) l'idea di una abito "sostitutivo" che sia fatto a misura dell'interessato: frutto cioè di una progettazione corale di familiari ed esperti, contrassegnato da tutte le garanzie sostanziali e processuali che occorrono;

 (II) il ricorso a un'espropriazione di poteri che sia limitato allo stretto necessario, e non calpesti il principio fondamentale di conservazione (per tutto il resto) della capacità d'agire;

 (III) la messa in primo piano della persona in tutta la parabola dell'amministrazione sostitutiva, con l'indicazione di una necessità costante di ascolto (da parte del vicario o del giudice) per le richieste e i bisogni che la quotidianità venga palesando.

 

 E' bene fermarsi qui. Sei comandamenti soltanto,   per il momento, ma   possono bastare. Forse ne salteranno fuori altri quattro - e magari ancor più - nel corso del prossimo convegno dell'autunno   2492. Se per allora saremo riusciti  ad evitare questi primi sei errori, potremo dire però di non aver speso male il nostro tempo.




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