-  Redazione P&D  -  02/07/2014

VENTI DI RIFORMA - Gianmichele FADDA

Nel De Legibus (II, 5), Cicerone ci dice che " … noi consideriamo come nostra patria tanto quella dove siamo nati quanto quella che ci ha accolti. Ma è necessario che nel nostro attaccamento abbia la meglio quella che fa si che il nome <> sia il bene comune dell"intera cittadinanza."

Duemila anni più tardi, Piero Calamandrei nel suo Discorso sulla Costituzione pronunciato il 26 gennaio 1995, a proposito del compito della Repubblica di rimuovere le disuguaglianze ammoniva l"uditorio: "E allora voi capite da questo che la nostra costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte è una realtà". "In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere. Quanto lavoro avete da compiere! Quanto lavoro vi sta dinanzi!"

Dunque la repubblica, quale ragion d"essere della civitas intesa come una comunità di genti diverse protese al bene comune, è democratica quando si prefigge il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine sociale ed economico che finiscono per limitare di fatto la libertà e l"uguaglianza.

Vien allora da chiedersi cosa ne sia di questo compito quando si tratta di tutelare i diritti dei cittadini, di renderli uguali davanti alla legge, nel cuore e nella mente di quelli che allora erano giovani ed oggi quasi vegliardi passano il testimone ad altri "giovani".

Vale a dire cosa ne è oggi di quel compito, di quella funzione essenziale, non a caso sovrana, che consiste nel rispondere ad una domanda di giustizia, in due parole iuris dicere, nella testa di chi immagina di riformare l"ordinamento repubblicano ed in particolare la giustizia in Italia?

Se, per avventura, il suo obiettivo fosse migliorare il sistema nel suo complesso la prima domanda che dovrebbe porsi sarebbe: la vera minaccia delle vie legali in Italia si traduce nella frase "ti faccio causa" o "fammi causa"?

Per rispondere, forse, bisognerebbe esercitare la professione di avvocato che per primo, ed in prima persona, raccoglie le istanze di giustizia dei cittadini.

Se, soltanto per un attimo, il buon caro legislatore potesse accomodarsi sul divano ed ascoltare i cittadini mentre si rivolgono al loro avvocato potrebbe udire conversazioni come queste: "Sa avvocato, per quell"assegno a vuoto che mi ha rifilato quel cliente, ci ho pensato su e mi sono detto che recuperare i soldi diventava troppo lunga, preferisco recuperarlo fisicamente … con un amico …"

A quel punto l"avvocato penserebbe, tra sé e sé, che soltanto l"altro giorno l"Ufficiale Giudiziario gli ha chiesto 100,00 euro per notificare un pignoramento e, a precisa domanda, gli ha fatto leggere una circolare ministeriale che ha prontamente recepito una ordinanza del Presidente di un certo Tribunale con cui si imponeva modalità di notifica, segnatamente consegna a mani, tali da giustificare simili esborsi.

Poi subitamente si ricorderebbe dell"ordinanza di sfratto eseguita circa un anno dopo dalla convalida (la quale a sua volta era stata emessa dopo un anno), che ha comportato la richiesta d"intervento della forza pubblica (la quale peraltro, nonostante il "comandiamo di dare esecuzione …", si era anche rifiutata), e ben 665,50 euro per sole spese anticipate, con il solo risultato di riprendere il possesso dell"immobile, ingombro tuttavia dei beni mobili del debitore che rifiuta, senza pagarne sino ad ora il fio, ogni forma di collaborazione.

Ed ancora, ripenserebbe a quel ricorso ad una procedura speciale, il cd rito sommario, che dovrebbe assicurare una decisione rapida quando si controverte di sole questioni di diritto oppure la causa può essere decisa sulla base di prove documentali, frustato dall"assegnazione ad un Giudice onorario il quale, prima ancor di leggersi il fascicolo, lascia chiaramente intendere di preferire la via ordinaria che gli consentirebbe di decidere con sentenza.

Dopodiché, uscito il cliente, l"avvocato si aggiorna sui venti di riforma per apprendere che, annunciato un giudizio civile della durata di un anno in primo grado, non si esita ad affossare nei fatti ogni ricorso all"autorità giudiziaria richiedendo di anticipare "contributi" (ovvero tasse) talmente onerosi da tradursi in un invito indiretto, ma non tanto, a desistere (se poi l"avventato cittadino volesse ricorrere in secondo grado, quell"invito si fa seria minaccia perché l"importo viene anche aumentato).

E quindi, con rammarico, quell"avvocato ma soprattutto il legislatore non potrà che concludere che, oggi, in Italia la vera minaccia è "fammi causa".

In effetti, quando si apprende che la riforma del processo civile passa dagli "accordi assistiti", dalla degiurisdizionalizzazione (si proprio cosi) delle controversie, ben si capisce che oramai sopra la testa del Giudice fa bella mostra di sé questa frase: "se cerchi giustizia, per favore, non rivolgerti allo Stato: negozia!" in luogo del caro vecchio "la legge è uguale per tutti".

E la ragione sta in un semplice dato statistico: quante sentenze emette un giudice a fronte del numero di fascicoli assegnati? Questa è l"unica domanda che si pone chi governa e valuta la magistratura, togata ed onoraria.

Ma se mai il legislatore volesse, bontà sua, ricordarsi che l"arretrare della giustizia per mano pubblica equivale a non rendere giustizia, a non rispondere alla domanda di giustizia, ad affermare che i diritti dei cittadini non sono tali ma sono ridotti a merce di scambio, e che quando il cittadino non trova risposta dallo Stato va a cercarsela altrove, allora comprenderebbe che meno Stato nel campo della giustizia equivale ad un tessuto sociale lacerato dalla forza, soprattutto economica, del più forte; equivale a negare la ragion stessa dell"esistenza di una comunità di persone quale dovrebbe essere lo Stato e, ancor più grave, ad erodere dalle fondamenta una democrazia.

Quel sacro compito assegnato alla Repubblica di rimuovere le disuguaglianze viene tradito ogni volta che lo Stato non si interroga sull"efficienza del suo sistema giurisdizionale, dove efficienza non equivale ad una decisione pur che sia, ma richiede immediatezza senza essere sommaria, in una parola, direbbe Chiovenda, oralità!

Un autentico spirito riformatore si dovrebbe preoccupare di mettere nelle condizioni, giudici ed avvocati, di dibattere di diritti e fatti davanti ad un giudice terzo capace di decidere immediatamente (vale a dire senza riservarsi di leggere, chissà quando, atti scritti) all"esito di un contraddittorio, serrato, ma sui fatti e sulle ragioni del diritto.

Tanto al fine di consentire alla giurisprudenza di accogliere i fenomeni socio giuridici che emergono soltanto nei dibattiti fra addetti ai lavori ma non più nelle aule dove pure operano le stesse figure.

In quale altro modo si può pretendere di cogliere in una sentenza quel fenomeno denominato "antropologizzazione del diritto civile" oppure l"emersione di interessi esistenziali della persona, magari anche oltre lo scarno testo normativo, eventualmente riformandolo laddove non è possibile colmarlo, se non in un processo fecondo dal punto di vista dialettico?

Certamente, non sarà creando riti speciali e specialisti della famiglia o dell"impresa che potrà nascere un nuovo processo civile dove la persona, e non più il fascicolo, torni ad essere al centro dell"attenzione del giudice e dove l"avvocato, finalmente, ritorna al suo antico e nobile ruolo di colui che prende la parola in difesa di qualcuno.




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