Interessi protetti  -  Redazione P&D  -  05/04/2022

Verso un nuovo approccio alla giustizia : considerazioni introduttive - Massimo Niro

1.Teoria e pratica del diritto sono complementari e non scindibili : non c’è una buona teoria del diritto senza un’attenzione per la pratica e le prassi dei tribunali, così come non c’è una buona pratica del diritto senza un’attenzione per gli aspetti teorici e le elaborazioni della dottrina. Professori, magistrati e avvocati dovrebbero abituarsi ad essere meno auto-referenziali e più disponibili a prendere in esame e comprendere i punti di vista delle altre categorie. Certo, il professore insegna il diritto, il giudice lo applica e decide le controversie, l’avvocato difende la parte e si rivolge al giudice per ottenere giustizia : i ruoli sono diversi, ma tutti sono operatori del diritto e contribuiscono per quanto loro compete a rendere il diritto effettivo, concreto, verificabile. Anche più o meno giusto, non secondo una visione astratta della giustizia, ma secondo una visione concreta che guarda all’esperienza e alla vita delle persone.

Una responsabilità enorme, quindi, per il professore, il magistrato, l’avvocato : una decisione ingiusta, non equa non dipende solo dal giudice che emette il provvedimento finale, ma anche dagli avvocati che hanno preso parte al processo ed anche, a ben vedere, dai professori che hanno studiato e scritto sugli argomenti di quel processo, influenzando gli avvocati e il giudice.  

Beninteso, ognuno risponde in base al suo ruolo : è chiaro che la maggiore responsabilità di una decisione ingiusta è del giudice che ha deciso, senza approfondire maggiormente tutti gli aspetti della causa e senza cogliere le questioni dirimenti o più importanti. Si esclude qui l’ipotesi, possibile ma per fortuna residuale, di un giudice che decide in un certo modo perché non imparziale tra le parti in causa ( v. art. 51 c.p.c. sull’astensione del  

giudice ). Ma è ben possibile ed anzi probabile, attesa la complessità del diritto e di alcune controversie giudiziarie, che il giudice in buona fede ed in coscienza pervenga ad una decisione che è assai opinabile, criticabile, lontana dalla giustizia del caso concreto.

Certo, i tecnici del diritto diranno che una decisione ingiusta può essere impugnata e, all’esito del giudizio di impugnazione, può essere riformata o annullata, così che la decisione definitiva del caso sarà quella più giusta. E’ vero, in uno Stato di diritto le decisioni di primo grado sono impugnabili e possono essere riformate o annullate : ma quanto tempo e quante risorse, non solo economiche, sono necessarie per questo scopo ?

La “durata ragionevole del processo” è dal 1999 un imperativo costituzionale ( art.111 Cost.) e, in questa ottica, è importante che si giunga prima possibile ad una decisione equa, che scoraggi le parti dal proporre impugnazione, che inevitabilmente dilata i tempi del procedimento. Ma l’obiettivo di una decisione equa - che necessariamente è il portato di un “processo equo”, v. art. 6 Cedu - non è facile da raggiungere e non può essere perseguito efficacemente - a parere di chi scrive - solo agendo sul versante del giudice, tanto meno agitando le bandiere di una sua maggiore responsabilità ( civile oltre che disciplinare, dato che quest’ultima in Italia funziona sufficientemente, anche a confronto con altri Paesi europei ). Sicuramente, occorre accrescere la professionalità del giudice ( e del pubblico ministero ), utilizzando gli strumenti della formazione iniziale e permanente, da incrementare adeguatamente nella direzione di una formazione “professionalizzante”, che sia in grado di illuminare i momenti più importanti e delicati della funzione giurisdizionale, non limitandosi ad aumentare il bagaglio di nozioni, ma cercando di valorizzare prassi virtuose ed esperienze innovative e di stimolare il confronto tra i diversi operatori ( giudici ma anche avvocati e studiosi ). Analogamente si tratta di migliorare gli strumenti di rilevazione e valutazione della professionalità del magistrato, tema oggi dibattuto anche a seguito delle iniziative referendarie sulla giustizia e degli esiti del giudizio di ammissibilità dinanzi alla Corte costituzionale ( che ha ritenuto ammissibile il quesito sui Consigli Giudiziari, che punta ad estendere anche agli avvocati già presenti in tali organi la facoltà di deliberare sulle valutazioni di professionalità dei magistrati ).  

2. Questo è necessario ma non sufficiente, secondo un approccio in parte nuovo alla giustizia che modestamente si tenta di illustrare con queste considerazioni introduttive : approccio che risente, inevitabilmente, della lunga esperienza giudiziaria dello scrivente, sia in ambito civile che penale.  

L’approccio nuovo sta nel tentativo di affrontare le questioni della giustizia con un’ottica globale e complessiva, che non guardi soltanto alla figura del giudice e all’ordinamento giudiziario ma anche alla figura dell’avvocato e a quella del professore di diritto, cercando di elaborare una sorta di catalogo dei diritti e dei doveri dell’operatore del diritto, al fine di perseguire una giustizia più credibile, più comprensibile, in una parola più giusta ( se non fosse che la locuzione “giustizia giusta” è talora strumentalizzata per finalità politiche : ma non importa, del resto il “giusto processo” è entrato in Costituzione con la modifica dell’art.111 ).  

Complementarità di ruoli e di funzioni tra chi giudica, chi difende, chi insegna il diritto, perché ciascuna categoria con forme e modalità diverse contribuisce al servizio giustizia, alla sua “qualità” che può essere ottima, buona, discreta, pessima.  

Cosa si intende, più precisamente, per qualità della giustizia ? Una giustizia qualitativamente accettabile è una giustizia che spiega in modo chiaro ed esauriente le proprie decisioni, che segue un iter processuale possibilmente snello caratterizzato dal rispetto del contraddittorio e delle garanzie difensive, che si mostra nelle sue varie fasi sempre accessibile, trasparente, disponibile al confronto, con le modalità ed i limiti stabiliti dalle norme processuali. Una giustizia in cui i vari attori sono collocati su un piano di parità, anche il P.M. nel processo penale rispetto al difensore dell’imputato, e così possono concorrere efficacemente ad una decisione equa.

La qualità della giustizia è essenziale ed irrinunciabile : senza qualità la giustizia può anche essere efficiente, nel senso di smaltire numerosi procedimenti e abbattere l’arretrato, ma non potrà mai essere veramente giusta. Naturalmente, occorre predisporre i mezzi più appropriati, anche materiali ed organizzativi, per far sì che la risposta giudiziaria sia possibilmente celere e comunque fornita in tempi ragionevoli, ma mai a scapito della qualità della stessa risposta. Se un giudice è oberato di fascicoli e non riesce a definirli in tempi ragionevoli, la soluzione non è costringerlo a definirli in fretta con decisioni sommarie, per non incorrere in un procedimento disciplinare, ma consentirgli di recuperare l’arretrato esonerandolo temporaneamente dalle udienze e cercare di uniformare i carichi di lavoro dei magistrati addetti allo stesso settore : qui è chiamata in causa la capacità e la responsabilità del dirigente dell’ufficio giudiziario.

Nella prassi è invece frequente, purtroppo, che sia sanzionato disciplinarmente il magistrato oberato di lavoro per i ritardi nel deposito dei provvedimenti, senza considerare l’aspetto più ampio del problema e le eventuali responsabilità organizzative dei dirigenti.

D’altro canto, l’interesse delle parti e dei loro difensori non è soltanto di vincere la causa, ma anche di trovare una risposta giudiziaria articolata, convincente, esauriente : almeno, così dovrebbe essere e così occorre che il sistema sia modificato, modificando vecchie e non sempre nobili abitudini della classe forense. Se si deve convenire con l’avvocatura che va riconosciuto alla stessa un ruolo più importante e più incisivo nel sistema giustizia, anche con una modifica costituzionale che espliciti questo ruolo dell’avvocatura, per altro verso questo significa che l’avvocato non è solo un libero professionista ( esercente una professione intellettuale ex art. 2229 c.c. ), ma altresì un professionista che esercita un’attività di pubblica rilevanza : il che può comportare dei limiti rispetto ad una visione puramente privatistica dell’attività ( il tema richiede approfondimenti, che non sono possibili in questa sede ).  

3. Se il coinvolgimento dell’avvocato in questa visione “comunitaria “ della giustizia può considerarsi naturale, è meno naturale che sia coinvolto il giurista teorico, il docente universitario di materie giuridiche, il quale talvolta non è avvocato e quindi non è partecipe, in prima persona, delle vicende processuali e giudiziarie. Eppure si è recentemente sostenuto, con specifico riferimento alla giustizia penale, che “ La scienza giuridica non può ridursi a esegesi. Piuttosto deve costruire il sistema, ricomporre i frammenti e uscire dai labirinti. Può farlo solo lei. Il diritto penale della Costituzione prevede il rispetto della persona che entra nel processo, l’attenzione per il principio di ragionevolezza, la garanzia della prevedibilità delle conseguenze giuridiche del proprio operato, la disintossicazione dell’ordinamento dall’eccesso di sanzioni. Sono i cardini di un sistema penale costituzionalmente corretto e fondano la legittimazione dell’ordinamento. La irrinunciabilità di questi principi chiama la cultura giuridica a esercitare un proprio ruolo nel dibattito pubblico, contribuendo al consolidamento dei valori costituzionali come regole di civiltà. “

( Luciano Violante, “ I danni del populismo penale “ , Il Foglio del 13-14 novembre 2021 ).

Si concorda con Violante che il ruolo della scienza giuridica, in tempi complessi come quelli odierni, non può restare confinato dentro le aule universitarie, non può ridursi a mera esegesi dei testi normativi, ma deve svolgersi appieno nel dibattito pubblico, apportandovi il contributo di chi studia e ricostruisce il sistema giuridico. Dunque, anche il sistema giustizia non è solo “affare” dei magistrati e neppure degli avvocati, ma richiede il coinvolgimento e la corresponsabilità della dottrina, dei professori di diritto. Con quali modalità ?

Anzitutto si intende rammentare a tutti che secondo l’art.104 Cost. un terzo dei componenti del C.S.M., l’organo di auto-governo della magistratura, è eletto dal Parlamento in seduta comune “ tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio “ ( quarto comma ) : va aggiunto che proprio fra i componenti designati dal Parlamento il Consiglio elegge un Vice-presidente ( quinto comma ). Ne consegue che i professori universitari di materie giuridiche sono già coinvolti da molti anni nel sistema giudiziario, attraverso il circuito dell’autogoverno, e quindi non possono dichiararsi estranei alle problematiche di un mondo che conoscono e che contribuiscono ad amministrare dalla sede istituzionale del C.S.M.. Inoltre, si è già accennato alla presenza di rappresentanti dell’avvocatura in seno ai Consigli Giudiziari, organi di autogoverno locale la cui importanza è stata finora notevolmente sottovalutata : ebbene, nei Consigli Giudiziari sono presenti anche rappresentanti dell’Università e se le attuali competenze dei componenti non togati sono piuttosto limitate, si prevede un possibile sensibile aumento delle loro competenze, anche a seguito del quesito referendario sui C.G. sul quale saremo chiamati prossimamente ad esprimerci.  

Se questo è vero, va dato peraltro atto che il ruolo effettivo dei docenti universitari in seno al CSM ( e ancor più in seno ai Consigli Giudiziari ) è parso fino ad oggi modesto, non proprio di rilievo, forse anche per le non sempre appropriate designazioni da parte delle forze politiche presenti in Parlamento ( in un successivo contributo sarà esaminato il ruolo rivestito dalla politica sulle tematiche della giustizia ). Nondimeno, la presente fase storica è caratterizzata da una profonda delegittimazione della magistratura e della componente togata del CSM, a seguito del ben noto affaire Palamara, e quindi un ruolo più incisivo e costruttivo della componente laica del Consiglio appare auspicabile ed opportuno.

Il punto è però di passare da una visione “politicistica” del CSM, che purtroppo è degenerata in una visione affaristica e spartitoria, ad una visione istituzionale di questo importante organo di rilevanza costituzionale, così da restituirgli quella credibilità e quel prestigio che oggi appaiono alquanto offuscati.  

Ma la corresponsabilità dei giuristi teorici nelle questioni della giustizia non va realizzata soltanto dal lato del CSM e dei Consigli Giudiziari, ma anche e soprattutto nel concreto dell’esperienza giudiziaria, nel processo, pur se il professore non sia anche difensore : egli è comunque un esperto di diritto e come tale non può che interessarsi all’aspetto applicativo del diritto ( law in action ). Naturalmente, il giurista teorico potrà ben dissentire da certe soluzioni giurisprudenziali, ma proprio dalle sue argomentate critiche ai provvedimenti dell’autorità giudiziaria potrà derivare un “miglioramento” della giustizia, attraverso la presa di coscienza degli operatori pratici ( magistrati e avvocati ).  

Discorso utopistico, recezione acritica di suggestioni da common law ? Forse, ma la situazione attuale di una giustizia molto lontana dagli standard di qualità sopra accennati è davanti a noi, giuristi pratici e teorici del sistema Italia : se teniamo alla giustizia del nostro paese dobbiamo fare qualcosa, dal basso, senza aspettare come al solito, dall’alto, soluzioni pre-confezionate. Perché la giustizia è qualcosa di più della legge, della mera legalità, come ben sapevano i nostri Costituenti, e chi ha a cuore la giustizia non può accontentarsi di restare nel suo orto e coltivare da solo i suoi prodotti.




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