Deboli, svantaggiati  -  Redazione P&D  -  27/03/2024

Il nuovo "debolologo" 2024 - Paolo Cendon

Verso che tipo di studioso, “esperto in ristagni, in crepuscoli”, stiamo andando culturalmente? Qualche traccia orientativa non manca.

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Il nostro debolologo sa che le cose accadono,  abitualmente,  in casa, sul posto di lavoro, nei dintorni; mette al primo posto perciò i fili della quotidianità, per quanto umili. Segue l’assistito, con gli occhi o con la mente,  dal fisioterapista, al parco giochi coi figli, nei mercatini in piazza. Lo vede arrabattarsi con le diete, con gli orari del bus, con la piscina terapeutica; lo accompagna dal veterinario, in osteria, all’assemblea di condominio.

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Rifiuta i modelli pan-medicalistici, non pensa che tutto si riduca al corpo. Ha sempre in tasca la treccia dello ”Scoobidoo” (persona, beni, corporeità), quando affronta problemi che attengono a un certo spicchio. Quello del patrimonio mettiamo; dopo un attimo eccolo interrogarsi sui riflessi collaterali, all’intorno:  l’impatto sulla salute, sulla serenità interiore.

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Coglie al volo le insofferenze umane,  quelle che la realtà, accanto ai virgulti forti, alimenta in noi ogni giorno. Dipendenze più o meno serie, nuovi presidi; deficit negli scambi, non soltanto sbalzi  corporei, emotivi. Tontonerie anche, analfabetismi nascosti, sospettosità insensate; sensi di inadeguatezza, riluttanze estreme.

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Non teme di procedere a casaccio, ama i sentieri selvaggi; pensa che un ramo alto,  verso est, oppure a nord,   resti sempre misterioso negli alberi. Non ignora di influenzare più che altrove, operando in ambiti come quelli della vulnerabilità,   pensieri e movimenti di chi gli sta vicino. Mite nell’approccio, ammette di non conoscere qualsiasi rivolo, dell’esperienza umana, se occorre si abbandona alle congetture; sa come tutti al mondo abbiano paura di qualcosa. Ama i suoni e le provocazioni di altri linguaggi,  quando ispirati, fecondi: parole come “inclinazioni”,  ad esempio, “richieste”, “partecipazione”, “attività realizzatrici”, “animale d’affezione”, oppure “condizione emotiva”, “inesperienza”, “attenzione”, “legami di coppia”.

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Ogni creatura gli sembra tesa a conquistare, per se stessa, gli astri della “fragilità quale insieme”: l’unità interna, l’armonia complessiva dello spirito. Viversi come “qualcuno”, in senso buono, sapere chi e che cosa si è, grossomodo, chi si vorrebbe diventare, un giorno; ricondurre i fili personali a un centro unico, rinascimentalmente, non decidere se non stando lì, nel proprio nido, sul ponte di comando.

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  Il verbo “sentire” spesso in bocca: “Senti questo, mi sento in un certo modo, sentiamoci; non sento più, provo questi sentimenti per voi”. Meglio ancora il verbo “fare”, le sue voci, trasporre all’esterno le più adatte: “Cos’hai fatto ieri; non farlo più, è meglio; fallo pure se credi; facciamolo insieme se vuoi; lo farai con lei magari’ ”.

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Vede il confronto come base per ogni lievito, fermento umano. Invita a non tessere patti mefistofelici, tipo quelli dell’interdizione (“Sarai salvaguardato al 100%, perderai qualunque sovranità”); ripete che l’ anima umana è incedibile. Scambi metropolitani, quelli sì: i diritti dei singoli che camminano con le gambe dei Servizi, funzionalmente. Non gravare troppo sul giudice, far sì che il lavoro di sportello venga svolto dall’assessorato per il welfare del Comune. Che non ci si scordi mai di domandare, incontrando l’assistito, anche solo telefonandogli: “Come hai dormito stanotte, di cos’hai bisogno?”.

 




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