Mi ero subito accorto come alcuni tratti, tra quelli emersi studiando l’induzione alla follia, valessero anche rispetto a chi si “autoelimini”: indiscutibilità di punizioni in caso di malizia, tendenziale incidenza di un animus generico, ammissibilità del risarcimento in certi casi di colpa, sia pur grave.
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Scogli rispetto a una possibile condanna non mancano, tecnicamente, sul piano civile, allorché si parli di suicido; nessuno tale però da risultare determinante.
Non la circostanza che ci si trovi, a livello antropologico, di fronte a una precisa “coscienza e volontà” della vittima; elemento idoneo a spezzare, in teoria, il “nesso eziologico” rispetto all’illecito iniziale.
Una responsabilità non potrà mancare, per principio, allorchè l’offesa a monte risulti greve, insidiosa più del consueto: e il suicidio riguardi individui di spiccata labilità psicofisica, non in grado di sottrarsi a voci arcane, sottili; a richiami suggestivi dall’esterno.
Neppur lo è il fatto, aggiungiamo, che l‘interessato sia ormai defunto al momento del processo.
Non sempre un morto, prima di tutto, ci sarà davvero; il progetto autodistruttivo può non andare in porto (quanti vogliono uccidersi davvero?), toccherà allora all’interessato sopravvissuto domandare, in merito a quanto sia venuto riportando di negativo, - un risarcimento.
Nei casi di “suicidio riuscito” spetterà invece agli eredi agire in giudizio, per i riflessi che quella scomparsa cagioni loro; voci lesive che la circostanza di una morte tragica, unitamente al dato di un’addebitabilità “a titolo di dolo”, varrà a rendere particolarmente intense di norma, per qualità e quantità.