-  Covotta Giulia  -  24/06/2016

Batman e la scriminante della legittima difesa – Simona Metrangolo

A poche settimane dalla prima proiezione italiana di un attesissimo cinecomic in cui due supereroi, "l'un contro l'altro armati", s'imputano a vicenda responsabilità civili e penali per le disastrose conseguenze delle scorribande di cui sono sistematicamente protagonisti, non è inusuale che il giurista si chieda se davvero vi sia spazio per riconoscere loro la responsabilità di qualcosa.

Fulcro dell'analisi che ci si accinge a compiere sarà il Cavaliere Oscuro, noto ai più come Batman, non potendo la scelta ricadere sul rivale Superman giacché una certa dottrina, invero minoritaria, potrebbe invocare a suo favore l'esimente culturale, nella specie dell'esercizio del diritto. Del resto, se sul pianeta Krypton danneggiare edifici pubblici e privati o perpetrare stragi umanoidi è consentito nei limiti imposti da consuetudini radicate o dai decreti del Consiglio dei Governanti, non si vede perché detta scriminante non possa operare anche sulla Terra, se si condivide la tesi c.d. integrazionista, attenta e sensibile a tutelare "richieste identitarie e specificità culturali altre" (S. ROSSI, in Persona e Danno, a cura di P. CENDON – Maltrattamenti in famiglia e scriminante culturale, 16 Aprile 2012).

Un occhio più attento potrebbe però obiettare che il kryptoniano sia giunto sul nostro pianeta da neonato e che sia stato cresciuto ed educato secondo le leggi e gli usi terrestri, assieme all'affetto e alla cura dei genitori adottivi, evidentemente beneficiari della disciplina di cui all'art. 44, (c.d. adozione in casi particolari). Ciò a meno di non considerare le sue origini aliene talmente strenue ed inestirpabili da costituire un vero e proprio patrimonio genetico, del tutto assimilabile ad un preesistente diritto naturale che si tramanda, di soggetto in soggetto, immutato e, per certi versi, involuto.

Ad ogni modo, reputando più condivisibile l'impostazione ricordata per prima, nei confronti di Superman non potrebbe applicarsi l'esimente culturale alla luce non solo di differenze "etniche" non più o difficilmente ravvisabili, ma anche di un'assimilazione delle inoculate radici aliene a quelle, normative in primis, dell'ordinamento che lo ha accolto.

Del resto, in modo non dissimile ha opinato una recente giurisprudenza laddove ha escluso che, in casi come quello dell'impiego da parte degli zingari di minori nell'accattonaggio, il giudice debba assolvere per difetto di dolo, prima ancora che per la ritenuta operatività di una scriminante culturale (cfr. Cass. Pen., sez. V, 28 settembre 2012, n. 37368).

Se si condivide, dunque, la tesi appena esposta, Batman e Superman verseranno nel medesimo campo d'indagine, essendo in tutta evidenza destinatari di uguali considerazioni.

Ciononostante, si persiste nella scelta del solo Batman quale "agente modello" ai nostri fini,  non fosse altro perché indubbie sono le sue origini e il vissuto terrestri (nota è la sentenza di condanna a trent'anni, resa in abbreviato, per la rapina e l'omicidio aggravati dei genitori da parte del malvivente recidivo Joe Chill, attualmente in stato di semilibertà: artt. 99, co. II, n. 2, 628, co. III, n. 1, 61, n. 5, c.p. e 575 c.p.; pena poi ridotta in executivis a 24 anni ex art. 81, II co., c.p.).  

A fortiori indubbia, pertanto, sarà l'applicazione nei suoi confronti del nostro diritto.

Batman, al secolo Bruce Wayne, è un ricco uomo d'affari che ha investito parte del suo ingente potentato economico nella costruzione di un deposito sotterraneo di armi e veicoli tecnologicamente avanzati, allo scopo di farne uso per difendere la città di Gotham dall'incalzare dei fenomeni di micro e macro-criminalità.

La sua vera identità è conosciuta da pochissime persone, sebbene siano in tanti, specie la stampa, ad ipotizzare che sotto la celebre maschera di uomo-pipistrello si nasconda l'altrettanto popolare imprenditore (finito in sella, inoltre, ai maggiori rotocalchi per avere beneficiato di un provvidenziale condono edilizio su una nuova costruzione, edificata ai piani inferiori della sua villa...).

Batman è, dunque, un civis che si erge a giustiziere ed è a ciò mosso da sentimenti di umana condivisione e solidarietà sociale (arg. ex art. 2 Cost.). Questo basterebbe, a livello etico, per risparmiargli qualsiasi addebito di responsabilità per le sue azioni, anche laddove esse si siano tradotte in esiti lesivi per terzi.

Il diritto tuttavia è amorale per definizione, scevro da giudizi meramente speculativi, ragion per cui non può lasciarsi affascinare e giungere a conclusioni ideologicamente corrette. Al contrario, deve giungere a conclusioni che siano corrette per il diritto stesso in quanto conformi ai suoi dettami e alle prescrizioni tipiche dell'area giuridica di volta in volta vagliata dall'interprete.

De iure condendo dunque, Batman, in quanto civis e non militare, non riveste una posizione qualificata nei confronti della collettività: non è cioè destinatario di uno specifico obbligo, formalizzato in una norma ad hoc, in virtù della quale egli è tenuto ad agire in difesa dei consociati. Di conseguenza, e salvo ipotesi eccezionali (si pensi, ad esempio, all'omissione di soccorso ex art. 593 c.p.), il suo non attivarsi in contesti situazionali peculiari (rapine, omicidi, sequestri, cessioni di sostanza stupefacente, e via discorrendo) non gli rende applicabile alcuna ipotesi criminosa in forma omissiva, poiché il legislatore non gli ha riconosciuto, a monte, nessun dovere di agire.

Se così è, un'applicazione rigorosa – e paradossale - degli istituti del diritto penale vorrebbe che al cittadino che si faccia giustizia da sé "con violenza sulle cose o alle persone", nella convinzione che ciò gli spetti ("un preteso diritto") e non demandando ad altri il ripristino della legalità violata ("potendo ricorrere al Giudice"), si applichino le sanzioni di cui agli articoli 392 o 393 c.p. (esercizio arbitrario delle proprie ragioni mediante violenza sulle cose o alle persone).

Tuttavia, come ha arguito MUCCIARELLI (Oltre un discusso "ancorché". Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione e la legalità dell'interpretazione: qualche nota, nota a Cass. Pen., sez. V, ord. 2 marzo 2016, n. 676, in Diritto penale contemporaneo – 16 marzo 2016), una "disposizione, quand'anche redatta dal più attento ed avveduto dei legislatori, è comunque soggetta ad un'attività di interpretazione" da parte dell'operatore; attività che si compone di più e necessarie fasi. Una di queste è quella che concerne la verifica della effettiva configurabilità della fattispecie ritenuta applicabile in termini, quantomeno, di "ragionevolezza" di una sua operatività.

Detto diversamente, l'interprete, quando interfaccia la norma, non può limitarsi a valutarne la perfetta sovrapponibilità al caso di specie, ma deve spingersi oltre, chiedendosi se altra fattispecie, di parte generale o speciale nel caso del diritto penale, possa meglio attagliarsi a quel contesto.

Egli dunque si trova quasi sempre a dover gestire conflitti tra norme, con l'ausilio di strumenti interpretativi ad hoc (si pensi all'impiego dei criteri di specialità, sussidiarietà o consunzione/assorbimento nei casi di concorso apparente) o semplicemente facendo corretta applicazione di fattispecie espresse ed esistenti, tenendo peraltro da conto la modalità con cui il legislatore le ha costruite dal punto di vista linguistico (come avvertiva D. PULITANO', Illiceità espressa e illiceità speciale, in Riv. it. Dir. Proc. Pen., 1967, pag. 65, il rischio di "superfetazione normativa" e di "ridondanza espositiva" è sempre in agguato).

Ed è proprio guardando al diritto vigente che può sciogliersi il dubbio circa l'effettiva applicazione, ai danni di Batman, dei reati di cui agli artt. 392 o 393 c.p. .

A tali fini, si consenta una esemplificazione provocatoria: si immagini che Tizio venga aggredito dal facinoroso Caio. Tanto nell'eventualità in cui Tizio reagisca all'aggressione difendendosi, quanto laddove intervenga un terzo a sua difesa, un'applicazione rigorosa degli istituti del diritto penale comporterebbe l'operatività, in ambedue i casi, dell'art. 393 c.p., ora in capo a Tizio ora in capo al terzo. A giudizio di taluno, infatti, la presenza dell'avverbio "arbitrariamente", all'interno della fattispecie citata, è esornativa, inutile: giusto, allora, considerarla tamquam non esset (il corsivo appartiene a S. SEMINARA, La riforma dei reati di false comunicazioni sociali, in Dir. Pen. Proc., 2015, 815 ss.). Di talché, la norma suonerebbe come: "Chiunque […] potendo ricorrere al giudice si fa ragione da sé medesimo usando violenza o minaccia alle persone è punito […] con la reclusione fino ad un anno", rendendosi così agevole una sua "schizofrenica" configurabilità, in barba al principio di tassatività e determinatezza della fattispecie penale.

A ben vedere, però, e fatti salvi i casi in cui davvero il Legislatore ha anti-economicamente arricchito le fattispecie di locuzioni inutili (si pensi al noto "ancorché oggetto di valutazioni" o ai "fatti materiali rilevanti" di cui all'art. 2621 c.c., attenzionato peraltro da recentissima giurisprudenza: Cass. Pen., SS. UU., 4 marzo 2016, n. 9186), l'avverbio "arbitrariamente" svolge qui una funzione ben precisa.

Il Legislatore ha voluto, cioè, sottolineare come, ai fini della configurabilità del reato de quo in tutti i suoi elementi costitutivi (elemento oggettivo, antigiuridicità ed elemento soggettivo), sia imprescindibile l'assenza di cause di non punibilità predicabili in capo a chi agisce.

Detto in modo diverso, opera arbitrariamente colui che, in spregio di disposizioni di legge, di regolamenti o di usi consolidati ed invalsi nella prassi, pone in essere un comportamento a questi contrario. Ma chi agisce a difesa di un suo diritto, specie ove "costretto dalla necessità di difenderlo dal pericolo attuale di un'offesa ingiusta", nei limiti della proporzionalità tra offesa e difesa, non è punibile, perché si sta difendendo legittimamente.

Legittimazione, secondo J. HABERMAS (L'inclusione dell'altro – Studi di teoria politica a cura di L. Ceppa, Feltrinelli – Giugno 2002, pagg. 216 e ss.), significa dotare taluno di un potere regolamentato sicché chi lo adopera può farlo in quanto a ciò legittimato, appunto, da un testo scritto. L'art. 52 c.p., norma rubricata come "difesa legittima", investe il civis che si trovi nella situazione di cui alla fattispecie del "potere" di difendersi da un'aggressione ingiusta e incombente, "sempre che" - statuisce l'articolo - "la difesa sia proporzionata all'offesa".

Pertanto se esiste una norma che permette all'agente, ricorrendo certi presupposti, di difendersi, l'art. 393 c.p. servirà, a fortiori, a disciplinare quei casi in cui la difesa sia volutamente "eccessiva", con ciò intendendo un'attività che trasborda dai canali normativi entro cui dovrebbe svolgersi (si veda, a riguardo, la v. Eccesso di potere, in Enciclopedia giuridica online Treccani, www.treccani.it).

Riprendendo l'esempio di qualche rigo più sopra, all'aggressione di Caio, Tizio ben potrà rispondere sferrando la propria azione difensiva, purché ricorrano i presupposti dell'art. 52 c.p. (pericolo attuale di subire un'offesa ingiusta – necessità di difendere un diritto proprio o altrui – proporzionalità tra offesa e difesa).

Stesse considerazioni, allora, potranno spendersi circa l'operato di Batman che, sebbene ordinario civis, e non militare, e per quanto sia indubbio agisca a mo' di giustiziere privato (non è per questo, in fondo, che il Commissario Gordon gli dà la caccia?), pone in essere condotte non dissimili da quelle di Tizio, e dunque riconducibili ad ipotesi di legittima difesa in senso stretto. Ciò soprattutto ove si consideri che il suo subitaneo intervento è volto a difendere diritti altrui dal pericolo attuale di aggressioni di terzi potenzialmente mortali (si noti, peraltro, che la dizione "diritti", nel corpo della norma, è volutamente generica e perciò atta a ricomprendere anche i diritti fondamentali della persona: come la vita o la salute, intesa come salvaguardia dell'integrità psico-fisica).

Facendo uso dei principi generali del diritto penale e confrontando, in questo caso, le due fattispecie (art. 52 ed art. 393 c.p.) l'interprete riesce a sciogliere il nodo interpretativo e ad applicare la norma che si confà maggiormente alla situazione di fatto.

Quid iuris, tuttavia, qualora la condotta difensiva di chi agisce ex art. 52 c.p. spieghi effetti benevoli per sé o per altri, ma divenga fonte di un danno per terzi?

Per rendere meglio il concetto, può farsi un esempio. Si pensi all'ipotesi in cui Tizio (che ha ferito ad un arto Sempronio per evitare che questi ferisse ad una gamba Caio), complice il rinculo dell'arma da fuoco adoperata, sia sobbalzato all'indietro rispetto al proprio campo d'azione, così percuotendo un passante in transito o danneggiando lievemente un'insegna stradale.

Il malcapitato passante, o l'Amministrazione comunale titolare del bene leso, vanta o può vantare diritti avverso il fatto dannoso di Tizio? In altre parole, Batman può essere chiamato a rispondere, in sede civile o penale, di eventuali illeciti la cui fonte è da rinvenirsi in un fatto di per sé non punibile?

Per rispondere a tale interrogativo, l'interprete dovrà, in tutta evidenza, far uso delle coordinate ermeneutiche dianzi citate e "combinarle" con le disposizioni normative di cui l'ordinamento si compone. Quest'ultimo, in particolare, presenta un cospicuo compendio di norme, ognuna delle quali dettata per il perseguimento di un fine specifico o per la salvaguardia di un bene ritenuto particolarmente meritevole di tutela (è la c.d. ratio legis, ossia ciò che viene altresì definito come lo spirito della legge: cfr. la v. Ratio legis, in Enciclopedia giuridica online Treccani, www.treccani.it).

Quale esempio di norme del primo tipo, si pensi alla clausola penale di cui all'art. 1382 c.c. che, secondo una diffusa opinione (cfr., ex multis, M. FRATINI, Compendio superiore di Diritto Civile, Nel Diritto Edit., Roma - Novembre 2013, pagg. 781 ss.), prescrive la liquidazione forfettaria del danno subito dalle parti negoziali, in conseguenza dell'eventuale inadempimento o del ritardo, al mero scopo di indurle alla resa esatta della prestazione dedotta nel contratto stipulato.

Quale esempio di norme del secondo tipo si pensi invece alla prevalenza della successione testamentaria su quella c.d. legittima, indice della volontà del legislatore di accordare alla voluntas del de cuius un ruolo preminente nella ripartizione post mortem dei suoi averi. Argomentando a contrario, ciò significa assegnare alla legge una funzione meramente residuale nella regolamentazione delle ricchezze private; il che, peraltro, parrebbe in linea con la centralità, corrisposta dal codice, all'autonomia dei paciscenti nella predisposizione di rapporti negoziali (arg. ex art. 1322, II co., c.c.).

Ancora, quale esempio di norme del secondo tipo, si pensi alla scriminante dello stato di necessità (art. 54 c.p.), che trova un suo corrispettivo "civilistico" nell'art. 2045 c.c. . Qui, al pari di quanto visto per l'ipotesi della legittima difesa, non è punibile chi abbia commesso il fatto ove "costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo" (art. 54, I co., c.p.).

Com'è agevole intuire leggendone il disposto, questa fattispecie parrebbe risolutiva del caso poco prima descritto, in cui ci si chiedeva se Tizio possa/debba rispondere, penalmente o civilmente, del vulnus arrecato allo sfortunato passante mentre era intento a difendere Caio dagli imminenti illeciti di Sempronio.

Ebbene, analizzando – norme alla mano - minuziosamente la vicenda, e magari scomponendola in tutte le sue fasi esplicative, si noterà che la percossa perpetrata al passante da Tizio costituisce la situazione oggettiva cui fa riferimento l'art. 54 c.p. con la locuzione "chi ha commesso fatto".

L'averlo compiuto in virtù di un "titolo" legittimante l'azione, viceversa illecita (l'art. 52 c.p.), rappresenta invece la c.d. situazione necessitata, cui l'art. 54 c.p. fa riferimento con l'espressione "per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona"; pericolo – prosegue la norma – dall'agente "non volontariamente causato, né altrimenti evitabile".

E' di solare evidenza, allora, come l'operatività dell'esimente ex art. 54 c.p. sia ancorata al necessario presupposto della non volontarietà/non causalità dell'evento dannoso a monte (il "potenziale" illecito di Sempronio), che si tradurrà in una risposta difensiva "forzata" la quale, a sua volta, giustificherà la "volontarietà" del fatto dannoso a valle (quello, cioè, materialmente causato a terzi da Tizio che ha agito in difesa dell'incolumità di Caio; bene giuridico che l'art. 54 c.p. si prefigge di salvaguardare).

Tanto premesso, ci si chiede dunque se può dirsi realmente volontario il fatto dannoso compiuto da Tizio nell'esempio di cui sopra, dato che parrebbe, in realtà, essere mera conseguenza di una vis maior cui resisti non potest.

A ben vedere, il rinculo dell'arma da fuoco imbracciata da Tizio è un fatto non dominabile dalla volontà umana: è l'effetto conseguente, secondo scienza, all'azione del fare fuoco. Quest'effetto sarà di maggiore o minore intensità in base al tipo di arma imbracciata, in base alla specifica esperienza di chi la imbracci, alla sua forza fisica, nonché in base alle circostanze di luogo e tempo in cui detta azione viene a realizzarsi.

Quell'effetto pertanto non potrà qualificarsi come "governabile" dall'agente, presupposto richiesto dall'art. 54 c.p. ai fini della sua operatività. In altre parole, la scriminante dello stato di necessità, proprio in quanto tale, si caratterizza per privare di antigiuridicità la condotta di chi agisce in quanto costretto dalla necessità di farlo.

Ciò significa, dunque, che il fatto commesso da chi si giova di detta causa di giustificazione, rimarrà comunque tipico e colpevole, ma non sarà illecito per l'ordinamento giuridico. Prova di ciò sia la irresponsabilità penale del soggetto agente, che andrà assolto "perché il fatto non costituisce reato" (cfr. Cass. Pen., SS. UU., 29 maggio 2008, n. 40049), ma la sua responsabilità in sede civile, essendo eventualmente tenuto a indennizzare il terzo-danneggiato ex art. 2045 c.c. .

In definitiva, per ricordare un esempio caro alla manualistica più tradizionale (cfr., ex multis, G. FIANDACA – E. MUSCO, Manuale di diritto penale – parte generale, Quinta Ediz., Zanichelli Edit. - 2007, pagg. 558 ss.), lo stato di necessità ricorre in casi come quello dell'alpinista che, in balia di una improvvisa tormenta di neve e disponendo di un'unica fune per giungere a valle, non la renda fruibile al compagno, mandandolo incontro a morte certa.

E' chiaro, qui, che l'alpinista, "costretto dalla necessità di salvare sé dal pericolo attuale di un danno grave alla persona", nel bilanciamento tra la salvaguardia del bene giuridico incolumità propria-incolumità di altri, prediliga preservare se stesso. Ragion per cui anche l'ordinamento non gli muoverà, ad esempio, un rimprovero ex art. 593, aggravato dall'evento morte (art. 593, III co., c.p.).

Un discorso a parte meriterebbe, invece, l'ipotesi in cui l'alpinista ricopra una posizione di garanzia a favore dello sfortunato compagno, dovendosi qui applicare la disposizione dell'art. 54, II co., c.p., che disciplina la "inefficacia scriminante" del c.d. soccorso di necessità. Ivi resta fermo tuttavia il fatto che l'interprete sarà comunque chiamato a valutare attentamente, in capo alla guida esperta, l'esigibilità in concreto di una condotta conforme al dovere istituzionale che connota il suo ruolo (per una approfondita disamina della questione, si veda S. RUSCICA, Temi svolti 2013 – Civile, penale, amministrativo, Dike Giuridica Edit. - 2013, pagg. 553 ss.).

Alla luce di tutto quanto esposto, nell'esempio prima citato, sembra difficile riconoscere a Tizio la volontarietà, e dunque la colpevolezza, per il fatto dannoso (percossa/danneggiamento) causato al passante o all'Amministrazione comunale. Questo perché, come già spiegato, il rinculo dell'arma da fuoco adoperata si atteggia a conseguenza naturale del suo uso, tale per cui il soggetto non agit sed agitur: non si muove, ma è mosso dalla vis maior cui resisti non potest prima ricordata.

Un tale fenomeno rinviene la sua identità giuridica in una fattispecie del codice penale: l'art. 45, caso fortuito o forza maggiore.

Una certa giurisprudenza ha ritenuto che esso recida il nesso causale che lega la condotta del reo all'evento lesivo hic et nunc verificatosi, così impedendone l'ascrizione in capo al soggetto agente. Così opinando, il fatto del "reo" non solo non sarebbe colpevole, ma mancherebbe altresì degli ulteriori requisiti della tipicità e dell'antigiuridicità idonei a qualificarlo come illecito penalmente rilevante ai sensi delle prescrizioni del nostro ordinamento giuridico. Questo perché, a monte, il fatto compiuto dal soggetto agente non costituirebbe l'antecedente causale di quell'effetto lesivo (cfr. Cass. Pen., SS. UU. 11 settembre 2002, n. 30328).

Non è mancato, tuttavia, chi ha elaborato correttivi a quest'impostazione, sottolineando come in realtà la disposizione dell'art. 45 c.p. sottenda una causa di esclusione della sola colpevolezza, e non della causalità in toto.

Il caso fortuito, cioè, inteso quale fattore imprevedibile e inevitabile, escluderebbe l'esigibilità, in capo all'agente, di una condotta conforme al precetto penale; ciò che impedisce all'interprete di muovergli qualsivoglia rimprovero a titolo di dolo o colpa.

Una simile impostazione, tuttavia, circoscrive sensibilmente il campo di applicazione della fattispecie dell'art. 45 c.p. . Inoltre, reca con sé il rischio di una sua tacita abrogazione o, meglio, di un suo "assorbimento" - quantomeno con riguardo alle conseguenze prevedibili di una data condotta - all'interno dell'art. 54, I co. .

Concludendo, entrambe le concezioni illustrate conducono, ove ne ricorrano i presupposti, alla non punibilità del soggetto agente, ma comportano ricadute differenti in punto di responsabilità civile.

Infatti, ove si sposi la prima tesi, la recisione del nesso di causalità condotta-evento comporta, a fortiori, l'irresponsabilità del danneggiante; ciò quand'anche si versi nel campo della responsabilità contrattuale, sub specie da inadempimento (si pensi alla "scusante" della impossibilità sopravvenuta della prestazione per cause non imputabili al debitore: art. 1256 c.c.).

Ove si sposi la seconda tesi, come già visto, il danneggiante dovrà indennizzare il danneggiato (che sia il passante o l'Amministrazione) dei danni subiti in conseguenza del fatto commesso.

La misura di detta indennità è, per legge, rimessa all'equo apprezzamento del giudice (art. 2045, ultima parte, c.c.).

Tirando le fila del discorso, Tizio/Batman non risponderà penalmente dei fatti compiuti per legittima difesa o per stato di necessità; non lo stesso potrà dirsi però per i danni "materiali", non patrimoniali/biologici (percosse al passante) o patrimoniali (insegna stradale divelta), arrecati a terzi estranei alla scena criminis.

Nei loro confronti, ben è possibile che il supereroe mascherato sia chiamato ad un cospicuo indennizzo, se non addirittura ad un risarcimento del danno. E a giudicare dall'entità dei disagi cagionati a cittadini e Città nel cinecomic di cui in apertura, non è escluso che il giudice civile, nella correlata sentenza, iscriva una ipoteca sui beni del famoso imprenditore (sperando tuttavia che non vi concorrano già altri creditori di grado potiore o, peggio, muniti di privilegio).




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