-  Redazione P&D  -  06/02/2009

ELUANA: UNA PERSONA, NON UNA BANDIERA – Paolo PITTARO

 Il tragico caso di Eluana Englaro scuote le coscienze, divide le opinioni, coinvolge pronunce di organi giudiziari, arriva alla soglia del conflitto fra organi istituzionali dello Stato (Ministro della Salute versus Magistratura, Consiglio dei Ministri versus Presidente della Repubblica): vicende ben note. Tanti (medici, giuristi, sociologi, filosofi morali, giornalisti, politici, prelati cattolici e non, singoli cittadini e via dicendo) sono intervenuti nel dibattito sui giornali, nella radio-televisione, nei blog telematici ed in ogni possibile mezzo di comunicazione.

Personalmente vorrei proporre a me stesso, prima che agli altri, alcune riflessioni generali sul tema: come semplice componente di questo consorzio umano, prima che come giurista penalista. E attendo le risposte da me stesso, prima che da altri.

1) Si afferma che il coma è irreversibile. Si ribatte che non si tratta di un malato terminale, cui viene prolungata l’esistenza in modo artificiale, ma di un essere vivente che abbisogna solo di alimentazione, posto che non è in grado di farlo personalmente, e che esistono ipotesi di risveglio anche dopo molti anni. L’impressione è che, anche a livello medico-specialistico, non ci sia unanimità: donde, e non a caso, il contrasto, anche a questo livello, sul tema.
La domanda che (mi) pongo è la seguente: siamo certi, oltre ogni ragionevole dubbio, che la situazione personale in cui la paziente si trova sia irreversibile?

2) Il padre, cui va tutto il nostro rispetto, afferma che tale sarebbe stata la volontà della figlia, espressa mentre era in vita. Ma non c’è alcuno scritto, nessuna prova, solo indizi. E sorgono testimonianze contrarie.
La domanda che (mi) pongo è la seguente: siamo certi, oltre ogni ragionevole dubbio, che tale sarebbe stata la volontà della donna?

3) Togliere l’alimentazione tramite il sondino cagiona l’atroce morte per fame e per sete. Si dice che non soffrirà; si ribatte che non è vero; si controribatte che soffrirà si, ma nel corpo, ma non nella coscienza, che è assente. In effetti non si sa proprio che cosa avviene esattamente. Anche qui, l’impressione è che, anche a livello medico-specialistico, non ci sia unanimità: donde, e non a caso, il contrasto, anche a questo livello, sul tema.
La domanda che (mi) pongo è la seguente: pur ammesso che sia (moralmente e giuridicamente) lecito (ma vedi, supra, nn. 1 e 2), siamo certi, oltre ogni ragionevole dubbio, che non soffrirà proprio?

Tali quesiti, a mio avviso, potrebbero bastare. Con tutta sincerità, ad essi io mi sento di rispondere: no, non ne sono affatto certo, oltre ogni ragionevole dubbio. Non so gli altri.

Alcune ulteriori riflessioni, quasi complementari.

4) Il padre, cui – ripeto – va tutto il nostro rispetto, afferma che, per lui, Eulana è morta tanti anni fa. Peraltro, egli stesso afferma che le suore di Lecco in tutti questi anni l’hanno accudita con professionalità, dedizione e, soprattutto, amore. Le stesse suore che sono sempre disposte ad accoglierla ed a prendersene cura, senza alcun onere, come sempre è stato, a carico della famiglia.
Ma, allora, perché non lasciarla lì? Perché questa tensione verso la morte (anche) fisica? Qual’è la vera sofferenza? Quella di Eulana, o quella del padre nel vederla in quella condizione?

5) L’impressione è che il “caso” Englaro sia diventato una questione di principio, un terreno di scontro ideologico: è diventata una bandiera. Ma Eulana è una persona, e non può essere strumentalizzata a sostegno di una ideologia. Non è una condannata ingiustamente, una sorta di caso Dreyfus o di Sacco e Vanzetti, sui quali si erano mobilitati politici ed intellettuali per salvare loro la vita. Al contrario, è una persona, in riferimento alla quale tanti si mobilitano a favore della morte. Perché? Se vive, è una condanna a morte; se è morta, perché farne un vessillo? Paradossalmente, le stesse forze politiche che da tempo si battono per l’abolizione della condanna alla pena capitale in ogni paese, oggi ne auspicano la morte. Sembra contraddittorio: al diritto alla vita si contrappone un diritto alla morte.

6) Si afferma, anche, che, ammesso si tratti di vita, quale razza di vita sarebbe, in quelle condizioni? Si contrappone, allora, al concetto di vita, quello di “qualità” della vita. Accogliendo tale assunto, il pericolo è enorme. Chi è in grado di definire la qualità di un’esistenza? Il diretto interessato, un giudice, un medico, la maggioranza, chi detiene il potere? Ogni sofferente, depresso, handicappato, anziano, demente, malato (inguaribile o meno), o perfino indigente, incompreso, diverso per razza, orientamento sessuale o via dicendo, rischierebbe allora di definirsi o di essere definito come espressione di una vita non qualitativamente degna di essere vissuta: donde la legittimità del suicidio, della morte per scelta, per decreto, per eliminazione sistematica; donde pure lo sterminio, il lager, il gulag, l’olocausto di infausta memoria. In nome di un principio astrattamente seducente, la deriva potrebbe essere devastante.

7) Manca una legislazione sul tema. Ben venga: la auspichiamo. Ma non dimentichiamo che esistono convenzioni (per quanto non ancora ratificate) che proprio sull’enorme emozione suscitata dalla morte della statunitense Terry Schiavo, parimenti deceduta per fame e sete, una volta toltale l’alimentazione tramite sondino, hanno stabilito come non possa considerarsi accanimento terapeutico la somministrazione dei normali mezzi di nutrimento.

8) Da ogni parte si auspica il silenzio; rotto sia da chi vorrebbe l’epilogo in sordina, sia da quelli che vi si oppongono con ogni mezzo. Forse si potrebbe parlare meno di diritti, di princìpi, di ideologie e perfino di amore: forse basterebbe la pietas verso una persona, senza lo sventolio di una bandiera.




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