-  Redazione P&D  -  10/06/2010

INFANZIA, DONNE E FAMIGLIE IMMIGRATE: DISCRIMINAZIONE E INTERVENTO GIURISDIZIONALE - Lorenzo MIAZZI

È il caso di un imputato di Verona che si era rifiutato di servire, nel bar che gestiva, le consumazioni richieste da cittadini extracomunitari, dichiarando espressamente di non voler servire alcun extracomunitario: la Suprema Corte ha ritenuto che nel comportamento “ispirato in modo unico da intolleranza” vi fosse “la coscienza e la volontà di offendere l’altrui dignità umana in considerazione della razza, dell’etnia o della religione dei soggetti nei cui confronti la condotta viene posta in essere”. Ancora la Corte ravvisa l’aggravante della finalità di discriminazione ed odio etnico, razziale e religioso nel gesto di chi cerca di togliere il velo a una donna di religione islamica che sta andando alla moschea per pregare: il fatto era accaduto a Genova.
Discriminati nel campo dei rapporti di lavoro, sono i lavoratori immigrati: i quali non solo spesso lavorano in condizioni irregolari quando non di vero sfruttamento, ma fanno maggiore fatica degli italiani anche a ottenere la tutela giudiziaria dei loro diritti. E la condizione non cambia, certo, quando dalla parte del datore di lavoro vi sono altri stranieri, i quali spesso creano situazioni di sfruttamento rese più odiose dalla vicinanza dei rapporti, come nel caso dei laboratori tessili gestiti da cinesi, o in certe forme di lavoro domestico, che sono state considerate giustamente come forme di lavoro forzato, se non addirittura di schiavitù.
Nella sanità soggetti deboli sono spesso quegli extracomunitari che sono colpiti da malattie che si credevano scomparse nei paesi occidentali, e che non sono portate da loro, ma causate dalle condizioni in cui sono costretti a vivere: su questo punto il rapporto di “Medici senza frontiere” sulle condizioni di vita e di salute dei lavoratori stranieri stagionali nel sud d’Italia contiene dati inequivocabili e smentisce ogni ipocrisia e speculazione politica.
Si potrebbe continuare, ma la relazione è incentrata non sui conflitti sociali esterni, ma sui rapporti interni ai gruppi immigrati, in particolare alle famiglie, per veder come la legge italiana e la giurisprudenza tutelano i soggetti deboli di quei rapporti, che sono le donne e i minori. Ora, va detto subito che la questione religiosa non c’entra, o entra poco, o entra come paravento, anche in queste situazioni. Ad esempio, le “mutilazioni genitali femminili” (MGF) sono collegate ad aspetti culturali più ampi e in gran parte precedenti l’Islam; lo sfruttamento in senso penale (ad esempio, nella prostituzione, nei vari racket...) è effettuato alla pari da senegalesi, albanesi, rumeni; lo sfruttamento in senso stretto – economico – dei soggetti deboli, minori e donne, riguarda tradizionalmente e quasi esclusivamente gli zingari: che sono, in pari misura, cattolici, ortodossi, musulmani; lo sfruttamento della prostituzione è agito da senegalesi come da albanesi e da romeni; e c’entra poco la religione anche con la violenza alle persone. Entra in gioco invece la laicità dello Stato, quando si tratta di garantire la parità di trattamento delle persone.

1. Famiglia e pluralismo giuridico
1.1. Famiglia e immigrazione


La complessità del fenomeno dell’immigrazione porta a sviluppare, fra le altre, una riflessione sul ruolo della legge, o meglio della giustizia, nel conflitto insito in ogni società multiculturale, partendo da quel particolare punto di osservazione che è la famiglia. Quella italiana è ormai indubitabilmente una società multiculturale; e non potendovi essere dubbi sul ruolo cruciale che la famiglia svolge in ogni società, non stupisce che i problemi che sorgono trovino in essa maggiore evidenza. La famiglia è contemporaneamente il principale motore dell’integrazione e della convivenza, ma anche il luogo nel quale il conflitto (fra identità e differenze, fra tutela delle minoranze e tutela dei diritti individuali…) si fa più aspro, e più laboriosa è la mediazione: perché in relazione ai bambini e alla famiglia “le parti, sia private, sia pubbliche, sono spinte a difendere in modo ‘integralistico’ i propri valori, poiché è in gioco la loro identità culturale”
Va detto che questo è un momento critico anche per le famiglie “italiane” (e quindi, anche per gli interventi a tutela dei loro componenti) per le quali sta diventando sempre più difficile la precisazione del ruolo sociale e la valutazione delle relazioni interne; infatti alla scontata frattura generazionale si aggiunge la frammentazione “orizzontale” dei modelli, conseguente al venir meno della omogeneità dei valori – morali, religiosi, civici – che sino a non molti anni addietro disegnavano un’idea di famiglia sostanzialmente condivisa8. Dalle relazioni coniugali ai rapporti fra genitori e figli, dalla pratica religiosa alle attività del tempo libero, i “modi di essere” delle famiglie italiane (e, quindi, le loro regole interne) sono i più diversi e contrastanti.
L’osservazione non sembri superflua, in quanto la mancanza di “regole familiari” chiare e condivise non è senza conseguenze anche per gli stranieri che giungono nel nostro paese. Infatti, gli immigrati, che costituiscono la minoranza culturale (anzi, un insieme di minoranze culturali) del paese che li ha accolti, non si trovano di fronte una società omogenea, ma una società in
cui la “maggioranza culturale” è frazionata in una pluralità di gruppi sulla base di diversità sociali, ideologiche e politiche. Quindi essi devono mettere in rapporto la propria concezione di famiglia, le loro regole e consuetudini anche giuridiche, con concezioni e comportamenti nuovi ed estranei, che non formano un modello coerente cui fare riferimento, proposto unitariamente dalla maggioranza culturale. Per questo anche l’intervento giudiziario riguardante le famiglie straniere (o i conflitti culturali comunque connessi alla famiglia) diventa più difficile e delicato.

[…]


L’autore è Giudice del Tribunale di Adria – Rovigo, responsabile dell’area diritto minorile della rivista “Diritto, immigrazione, cittadinanza”.
Il brano riproduce l’intervento alla Conferenza tenuta l’8 novembre 2007, nel Corso di Sociologia del diritto della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia.




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