-  Redazione P&D  -  25/03/2016

LA CONDIZIONE DELLO STRANIERO TRA ESPULSIONE, PROTEZIONE INTERNAZIONALE E TUTELA DEI MINORI - Marina CIRESE

"LA CONDIZIONE DELLO STRANIERO TRA ESPULSIONE, PROTEZIONE INTERNAZIONALE E TUTELA DEI MINORI, SECONDO LA RECENTE GIURISPRUDENZA DI LEGITTIMITÀ " -

Marina CIRESE

 

 

Ufficio del Massimario e del Ruolo – Suprema Corte di Cassazione)

Sommario: 1. Premessa – 2. La protezione internazionale dello straniero extracomunitario - 3. Il controllo giurisdizionale sui provvedimenti di espulsione e di diniego del permesso di soggiorno – 4. Il diritto all"unità familiare e la tutela dei minori.

1. Premessa

Il trattamento giuridico dello straniero extracomunitario nell'attuale assetto normativo è il risultato di una duplice ed opposta tensione, che opera, nel contempo, in direzione del livello sovranazionale e di quello infranazionale.

Lo "status" dello straniero, invero, non si definisce solo nel binomio Costituzione-legislazione, ma risente dell'interazione con fonti sovranazionali (obblighi di diritto internazionale generale e convenzionale), con la progressiva attenuazione della tradizionale differenza tra diritti riconosciuti a tutti gli uomini e diritti riservati ai soli cittadini. Tale indirizzo interpretativo può farsi risalire alla sentenza n. 120 del 1967 della Corte costituzionale ove la Corte ebbe a riconoscere l'estensione agli stranieri «quando trattisi di rispettare quei diritti fondamentali» del principio di uguaglianza, garantito dall'art. 3 Cost., non "isolatamente considerato", ma "letto" in connessione con l'art. 2 Cost. e appunto con le norme di diritto internazionale, richiamate dall'art. 10, comma 2, della Costituzione.

In tempi più recenti, attraverso la chiave offerta dal principio di non discriminazione, viene esteso agli stranieri il godimento di diritti ritenuti fondamentali, quale il diritto alla salute e ad un alloggio, mentre il riconoscimento della titolarità delle diverse posizioni soggettive è il risultato di un'operazione di bilanciamento effettuata caso per caso, in relazione agli interessi in gioco.

Oggetto di specifica tutela è il trattamento giuridico dello straniero minore, tanto che lo stesso diritto all'unità familiare rileva in quanto funzionale alla garanzia del preminente interesse dello stesso a ricevere la massima espressione della funzione genitoriale.

Deve, quindi, rilevarsi che lo "straniero migrante" non costituisce una categoria omogenea, partecipando dello stesso processo di progressiva disarticolazione della contrapposizione fra cittadino e straniero che si manifesta nella difficoltà di definire uno statuto comune per il non cittadino, ovvero di individuare una fascia di diritti e obblighi capace di distinguerlo dal cittadino e dunque anche di definire una base-relazione fra essi. Nella condizione di fatto del migrante, il diritto internazionale pattizio odierno distingu e appronta trattamenti e tutele differenziate sia a motivo del titolo secondo cui lo straniero si muove dal proprio Paese, o comunque da quello di provenienza, e cerca ingresso in altro Stato, sia in relazione all"area geografico-territoriale interessata dalla migrazione in questione [1]

Di seguito si affronteranno alcuni dei temi maggiormente toccati dalle pronunce della Suprema Corte nel corso del 2015.

 

2. La protezione internazionale dello straniero extracomunitario

 

Se gli obiettivi del diritto internazionale classico sono strettamente legati alle esigenze degli Stati, che mirano in prima battuta ad assicurare la propria autonomia e la sovranità in regime di parità con gli altri attori internazionali, oggi tali obiettivi si intersecano con, e di fatto vengono limitati, dalle ricadute della concezione individualistica, e quindi non più statalistica, della società sulla comunità internazionale.

Notevole rilevanza nell"evidenziare detto passaggio evolutivo del diritto internazionale assume la disciplina inerente al trattamento degli stranieri. Se è vero che l"asilo ha radici antichissime e trova il proprio fondamento nell"esercizio della potestà statale, oggi la protezione dei rifugiati conosce ulteriori forme maggiormente orientate alla tutela dei diritti fondamentali dei migranti.

In altri termini, se tradizionalmente la concezione dell"asilo viene ricondotta ad una determinazione unilaterale che ciascuno stato esercita in maniera del tutto discrezionale, attualmente si parla di diritto di asilo, ritenendosi tale il diritto di ciascun individuo di chiedere asilo e beneficiarne sussistendone i presupposti.

Particolarmente significativa al riguardo è la Carta dei diritti fondamentali dell"Unione Europea la quale all"art.18 contiene una espressa previsione riguardante il diritto di asilo, norma che peraltro deve essere posta in relazione con il successivo art. 19 che, dopo aver prescritto il divieto di espulsioni collettive, sancisce il principio di " non-refoulement", stabilendo che "nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti".[2]

Allo stato attuale del diritto internazionale generale, non si può affermare l"esistenza di una norma consuetudinaria attributiva del diritto di asilo agli stranieri che assumono di essere perseguitati nel loro paese. Il godimento di tale diritto è invero subordinato ad una previsione normativa di origine nazionale o internazionale.

La Convenzione di Ginevra del 1951 predispone la tutela del "rifugiato", ovvero di colui che, avendo il fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un gruppo sociale o per le proprie opinioni politiche, si trovi fuori dal paese di cui è cittadino o nel quale abbia la propria residenza abituale e non possa o non voglia a causa di questo timore, avvalersi della protezione di quel paese oppure a chiunque, non avendo la cittadinanza e trovandosi fuori dal paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra.

La disciplina stabilita da tale convenzione, nonché dal Protocollo di New York del 1987, che hanno impresso al rifugio ed all"asilo un"evoluzione significativa, si è poi rivelata inadeguata a fronte del mutamento intervenuto nella realtà internazionale che ha presentato via via più che situazioni di persecuzione individuale, situazioni di diffusa violenza e sistematica violazione dei diritti di interi gruppi di persone.

Di qui l"adozione con il Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 di un "pacchetto" di direttive in materia di protezione del richiedente asilo o di persona altrimenti bisognosa di protezione, assimilandosi in un unico status giuridico persone bisognose di protezione internazionale tecnicamente qualificati come rifugiati e coloro che invece necessitano di una tutela temporanea o sussidiaria.

A livello europeo la Direttiva 2004/83 introduce la "protezione sussidiaria" quale nuova forma complementare a quella riconosciuta dalla Convenzione di Ginevra. Ulteriore risposta alle esigenze di tutela è la Direttiva 2011/95/UE, nota come direttiva qualifiche, che si indirizza verso il riconoscimento di uno status "unico" in grado di garantire gli stessi diritti ai rifugiati ed a coloro che beneficiano di protezione sussidiaria (attuata in Italia con il d.lgs. 21 febbraio 2014 n. 18).

In Italia il diritto di asilo è garantito dall"art. 10 comma 3 della Costituzione secondo cui "Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l"effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d"asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge."

In assenza di una legge organica sull'asilo politico che, in attuazione del dettato costituzionale, ne fissi le condizioni, i termini, i modi e gli organi competenti in materia di richiesta e di concessione, il diritto di asilo deve intendersi come diritto di accedere nel territorio dello Stato al fine di esperire la procedura per ottenere lo "status" di rifugiato politico, e non ha un contenuto più ampio del diritto di ottenere il permesso di soggiorno temporaneo di cui all"art. 1, comma 5, del decreto legge 30 dicembre 1989, n. 416, convertito, con modificazioni, nella legge 28 febbraio 1990, n. 39 ( in tal senso tra le altre Cass. Sez.1, n. 18940/2006).

In relazione poi alla particolare condizione, può essere riconosciuto al cittadino straniero che ne faccia richiesta lo status di rifugiato o può essere accordata la misura di tutela di protezione sussidiaria.

Segnatamente, il rifugiato è colui che abbia un timore fondato di essere perseguitato, nel proprio Paese di origine, per motivi costituzionalmente rilevanti. A riguardo va detto che per "persecuzione" si intendono le minacce alla vita, la tortura, le ingiuste privazioni della libertà personale, le violazioni gravi dei diritti umani. Per essere riconosciuto rifugiato, non è indispensabile essere già stato effettivamente vittima di persecuzione, bensì è sufficiente il fondato motivo di temere l'esposizione, in caso di rimpatrio, ad un serio rischio di persecuzione.

Tra gli effetti del riconoscimento dello status di rifugiato vi è il diritto al ricongiungimento familiare, il permesso di soggiorno o titolo di viaggio, la parificazione sanitaria e scolastica con il cittadino italiano. Viceversa non può essere concesso lo status di rifugiato allo straniero che: a) abbia commesso un crimine contro la pace, di guerra o contro l'umanità; b) abbia commesso, al di fuori del territorio italiano, prima del rilascio del permesso di soggiorno in qualità di rifugiato, un reato grave ovvero atti particolarmente crudeli, anche se perpetrati con un dichiarato obiettivo politico, che possano essere classificati quali reati gravi; c) si sia reso colpevole di atti contrari alle finalità e ai principi O.N.U..

La protezione sussidiaria (definizione individuata in via residuale rispetto a quella di rifugiato) è, invece, la protezione che viene accordata allo straniero privo dei requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistano fondati motivi di ritenere che possa essere esposto, in caso di rientro nel Paese di origine o nel Paese in cui aveva la propria dimora abituale, ad un rischio effettivo di subire un grave danno, ed il quale non possa o non voglia, a causa di tale rischio, avvalersi della protezione di detto Stato.

Tale protezione sussidiaria viene, generalmente, riconosciuta in caso di pericolo oggettivo derivante da violenza indiscriminata e non necessariamente individuale.

Infine, la protezione umanitaria può essere concessa mediante il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi "ad hoc", ovvero, quando, pur non essendo ravvisabili gli estremi per la protezione internazionale, sussistano gravi motivi di carattere umanitario per il richiedente asilo.

Lo status di rifugiato e le forme di protezione sussidiaria sono riconosciute all'esito dell'istruttoria effettuata dalle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale.

Premesse le linee generali degli istituti previsti a tutela dello straniero extracomunitario, le pronunce della Suprema Corte appaiono ispirate dall"esigenza di garantirne l"effettività.

Con riferimento al riconoscimento del diritto alla protezione internazionale, la Suprema Corte, con sentenza, sez. 6-1, n. 05926/2015, ha stabilito che, qualora vi siano indicazioni che cittadini stranieri o apolidi, presenti ai valichi di frontiera in ingresso nel territorio nazionale, desiderino presentare una domanda di protezione internazionale, le autorità competenti hanno il dovere di fornire informazioni sulla possibilità di farlo, garantendo altresì i servizi di interpretariato necessari per agevolare l"accesso alla procedura di asilo, a pena di nullità dei conseguenti decreti di respingimento e trattenimento, dovendo, il giudice statuire, altresì, sulla dedotta illegittimità del primo, a causa della omessa informazione.

Si precisa, inoltre, che tale dovere di informazione è fondato su di una interpretazione costituzionalmente orientata al rispetto delle norme interposte della CEDU, come a loro volta interpretate dalla Corte sovranazionale.

La domanda di protezione internazionale, di cui all"art. 3, comma 5, del d.lgs. 19 novembre 2007, n. 251, deve essere adeguatamente circostanziata.

Il procedimento, secondo la giurisprudenza di legittimità, non si sottrae al principio dispositivo, sicché il richiedente ha l"onere di indicare i fatti costituitivi del diritto azionato, pena l"impossibilità per il giudice di introdurli d"ufficio nel giudizio.

La Corte di Cassazione (Sez. 6-1, n. 16201/2015) ha altresì chiarito che, se viene presentata una domanda di protezione internazionale, il giudice non deve prendere in considerazione puramente e semplicemente la maggiore o minore specificità del racconto del richiedente asilo, ma è tenuto a valutare se questi abbia compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda, se tutti gli elementi in suo possesso siano stati prodotti e se sia stata fornita una idonea motivazione dell"eventuale mancanza di altri elementi significativi.

Il fatto da dimostrare va identificato nella grave violazione dei diritti umani alla quale il richiedente asilo sarebbe esposto rientrando in patria, di cui costituisce indizio anche la minaccia ricevuta in passato, che fa presumere la violazione futura in caso di rientro.

Con riguardo all"onere della prova, la Suprema Corte ha puntualizzato che, in un procedimento finalizzato al conseguimento della protezione internazionale sussidiaria, il richiedente ha obblighi specifici.

Lo straniero ha un dovere di cooperazione consistente nell"allegare, produrre o dedurre tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la domanda, mentre l"autorità decidente ha l"obbligo di informarsi in modo adeguato e pertinente con riferimento alle condizioni generali del Paese di origine, allorquando le informazioni fornite dal richiedente siano deficitarie o mancanti. In particolare, è necessario l"approfondimento istruttorio officioso, allorquando il richiedente descriva una situazione di rischio per la vita o l"incolumità fisica che derivi da sistemi di regole non scritte sub-statuali, imposte con violenza e sopraffazione verso un genere, un gruppo sociale o religioso o semplicemente verso un soggetto o un gruppo familiare nemico, in presenza di tolleranza, tacita approvazione o incapacità a contenere o fronteggiare il fenomeno da parte delle autorità statuali. E ciò proprio al fine di verificare il grado di diffusione ed impunità dei comportamenti violenti descritti e la risposta delle autorità statali.

In linea con tale orientamento, i giudici di legittimità (Cass. n.14998/2015) hanno osservato che, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, ai sensi dell"art. 14, lett. b) e c), del d.lgs. n. 251 del 2007, non è onere del richiedente fornire una precisa qualificazione giuridica della tipologia di misura di protezione invocata, ma è onere del giudice, avvalendosi dei poteri officiosi di indagine e di informazione, di cui all"art. 8, comma 3, del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, verificare se la situazione di esposizione a pericolo per l"incolumità fisica indicata dal ricorrente è astrattamente sussumibile in entrambe le tipologie tipizzate di rischio e sia effettivamente sussistente nel paese nel quale dovrebbe essere disposto il rientro al momento della decisione. Il requisito della individualità della minaccia grave alla vita o alla persona di cui all"art. 14, lett. c), del d.lgs. n. 251 del 2007 non è subordinato alla condizione che il richiedente fornisca la prova che egli è interessato in modo specifico con riferimento alla sua situazione personale, in quanto la sua esistenza può desumersi anche dal grado di violenza indiscriminata che caratterizza il conflitto armato in corso, da cui dedurre che il rientro nel Paese d"origine determinerebbe un rischio concreto per la vita del richiedente. Inoltre, il cittadino straniero che è imputato di un delitto comune (nella specie omicidio durante una rissa), punito nel paese di origine con la pena di morte, non ha diritto al riconoscimento dello status di rifugiato politico, poiché gli atti previsti dall"art. 7 del d.lgs. n. 251 del 2007, non sono collegati a motivi di persecuzione inerenti alla razza, alla religione, alla nazionalità, al particolare gruppo sociale o all"opinione politica, ma unicamente alla protezione sussidiaria riconosciuta dall"art. 2, lett. g), dello stesso decreto, qualora il giudice di merito abbia fondati motivi di ritenere che, se tornasse nel Paese d"origine, correrebbe un effettivo rischio di subire un grave danno.

Con riferimento all"impugnazione dei provvedimenti in materia di protezione internazionale, la Corte con sentenza, sez. 6-1, n. 18704/2015 ha puntualizzato che, a seguito dell"abrogazione dell"art. 35, comma 14, del d.lgs. n. 25 del 2008, in materia di ricorso per cassazione, deve applicarsi il termine ordinario di cui all"art. 327 c.p.c. e non già il termine di trenta giorni di cui all"art. 702-quater c.p.c., relativo al rito sommario di cognizione, applicabile ai giudizi di merito in virtù dell"art. 19 del d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150.

Tale interpretazione scaturisce dalla necessità di attribuire priorità nella trattazione delle controversie in materia di protezione internazionale, non anche nel senso di rendere applicabili al giudizio di legittimità disposizioni abrogate o riguardanti i giudizi di merito, posto che ciò sarebbe in contrasto con il diritto delle parti al giusto processo e con la necessità di assicurare l"effettività del diritto di difesa.

La semplice proposizione del ricorso del richiedente asilo avverso il provvedimento negativo della commissione per la protezione internazionale sospende l"efficacia esecutiva di tale provvedimento (tranne in alcune ipotesi, peraltro non dichiarate sussistenti dal giudice del provvedimento impugnato) di talché non scatta l"obbligo per il richiedente di lasciare il territorio nazionale, previsto dall"art. 32, comma 4, del d.lgs. n. 25 del 2008, permanendo per converso la situazione di inespellibilità prevista dall"art. 7, comma 1, fino alla decisione della commissione territoriale.

L"insorgenza di cause appartenenti all"ambito della protezione internazionale, integranti il divieto di espulsione di cui all"art. 19, comma 2, lett. b), del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, non possono essere valutate ove si siano verificate dopo il rimpatrio coattivo, ma solo quando siano coeve all"applicazione della misura espulsiva.

 

3. Il controllo giurisdizionale sui provvedimenti di espulsione e di diniego del permesso di soggiorno

 

Le condizioni dell'ingresso e del soggiorno degli stranieri extracomunitari in Italia sono delineate dagli articoli da 4 a 9 bis del d.lgs. n. 286 del 1998.

Il quadro normativo emergente dagli articoli appena menzionati delinea un complesso di titoli abilitativi all'ingresso e al soggiorno nel territorio italiano che si pongono tra loro in un rapporto di progressiva «gradualità». Dai cd. visti per l'ingresso, disciplinati dall'art. 4, alle ipotesi di permanenza prolungata, al permesso di soggiorno di cui all"art. 5, che può essere rilasciato per diversi motivi (di lavoro, studio, formazione ecc.) fino ad una situazione di permanenza più consolidata e cristallizzata con il permesso di soggiorno.

Non è invece consentito l'ingresso allo straniero che rappresenti una minaccia per l'ordine pubblico e la sicurezza dello Stato e per le relazioni internazionali, così come non è ammesso in caso di commissione di reati che destano particolare allarme sociale.

I decreti di espulsione (artt. 13 e 14) emessi dalle autorità amministrative rappresentano invece, il principale strumento di contrasto al fenomeno dell'immigrazione clandestina. L'espulsione amministrativa ha il preciso scopo di assicurare «una razionale gestione dei flussi di immigrazione nel nostro Paese».

In via generale, il sistema normativo nazionale che regola l'accesso e l'immigrazione dei soggetti non appartenenti all'Unione Europea si incentra sulla previsione di obblighi di richiesta del permesso di soggiorno secondo precise modalità e sotto comminatoria di espulsione per colui che a tali obblighi ed oneri si sottragga.

L'art. 13 del d.lgs. n. 286 del 1998 distingue tra l"espulsione disposta dal Ministro dell'interno «per motivi di ordine pubblico e sicurezza», cui si aggiunge una seconda ipotesi di espulsione disposta dalla medesima autorità amministrativa «per motivi di prevenzione del terrorismo», e l" espulsione disposta dal Prefetto (art. 13, comma 2).

Essa può avvenire quando lo straniero è entrato nel territorio dello stato sottraendosi ai controlli alla frontiera e non è stato respinto, quando si è trattenuto nel territorio dello Stato senza permesso di soggiorno, quando debba essere considerato persona socialmente pericolosa o indiziata di far parte di associazioni di tipo mafioso. In ambedue i casi, l'espulsione è eseguita dal Questore (art. 13, comma 4).

Con riguardo al riparto di giurisdizione, il legislatore ha demandato al giudice amministrativo la giurisdizione in materia di rilascio e rinnovo del permesso di soggiorno e degli altri titoli equipollenti (art. 6, comma 10) mentre il sindacato sui decreti prefettizi di espulsione (con le eccezioni di cui all'art. 13, comma 11) è devoluto alla giurisdizione ordinaria (art. 13, comma 8).

Con riguardo alle ipotesi di giurisdizione del giudice ordinario, la Suprema Corte è intervenuta su specifiche questioni relative al diritto di soggiorno dello straniero.

Tra le decisioni più significative, si segnala Sez. 6-1, n. 18254/2015, secondo cui il divieto di reingresso in Italia dello straniero, destinatario di un provvedimento di espulsione, non può superare il termine di cinque anni previsto dall"art. 13, comma 14, del d.lgs. n. 286 del 1998, come novellato dal decreto legge 23 giugno 2011, n. 89, conv. con modif. nella legge 2 agosto 2011, n. 189, di recepimento della direttiva n. 115/2008/CE.

Si é precisato, inoltre, che non è necessaria la speciale autorizzazione del Ministero dell"interno, prevista dal medesimo art. 13, comma 13, nelle ipotesi in cui lo straniero, per particolari ragioni, intenda fare rientro nel territorio dello Stato prima della scadenza del divieto.

Con specifico riferimento al sindacato del giudice ordinario sulla legittimità dell"atto amministrativo emesso dal Questore, quale presupposto del decreto di espulsione, la Suprema Corte, con Sez. 6-1, n. 14610/2015, ha affermato che al giudice non è consentita alcuna valutazione sulla legittimità del provvedimento del questore che abbia rifiutato, revocato o annullato il permesso di soggiorno, ovvero abbia negato il rinnovo, poiché tale sindacato spetta unicamente al giudice amministrativo, la cui decisione non costituisce in alcun modo un antecedente logico della decisione sul decreto di espulsione. Ne consegue che la pendenza di tale ultimo giudizio non giustifica la sospensione del processo instaurato dinanzi al giudice ordinario con l"impugnazione del decreto di espulsione del prefetto, attesa la carenza di pregiudizialità giuridica necessaria tra i due procedimenti.

Nello stesso ambito, merita menzione la pronuncia, Sez. 6-1, n. 17408/2015, secondo cui il giudice di pace, investito dell"impugnazione del decreto di espulsione emesso dal prefetto, può sindacare solo la legittimità del provvedimento e, se non conforme a legge, disporne l"annullamento, ma non anche sostituire od integrare la motivazione dell"atto, trattandosi di una attività preclusa alla giurisdizione ordinaria.

Da ultimo con sentenza Sez.6-1, n. 22606/15, la Suprema Corte ha affermato che in tema di immigrazione va cassato senza rinvio il provvedimento del giudice di pace che, investito dell"impugnazione del decreto di espulsione emesso dal prefetto, non si limiti a sindacare la legittimità del provvedimento impugnato ma ordini al questore il rilascio del permesso di soggiorno, trattandosi di attività che rientra nelle attribuzioni della P.A. e non in quelle giurisdizionali.

Sotto altro profilo, tuttavia, il controllo giurisdizionale sul ricorso avverso il provvedimento di espulsione disposto ai sensi dell"art. 13, comma 2, lett. c) del d.lgs. n. 286 del 1998 deve avere ad oggetto il riscontro dell"esistenza dei presupposti di appartenenza ad una delle categorie di persone pericolose indicate nell"art. 1 della legge 27 dicembre 1956 n. 1423, così come sostituito dall"art. 2 della legge 3 agosto 1988 n. 327, ovvero nell"art. 1 della legge del 31 maggio 1965 n. 575, come sostituito dall"art. 13 della legge 13 settembre 1982 n. 646 ( riferimenti oggi da intendersi alle corrispondenti disposizioni del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione approvato con d.lgs. 6 settembre 2011 n. 159).

Il giudice di pace, quindi, ha poteri di accertamento pieni e non limitati da una insussistente discrezionalità della Pubblica Amministrazione, ritenendosi che non si attenga a tali principi il giudice che, al fine di verificare l"appartenenza dello straniero ad una delle categorie prima indicate, si limiti a prendere atto di una condanna penale omettendo ogni verifica in ordine alla valutazione di pericolosità sociale formulata dal Prefetto.

Il giudice, in sede di convalida del decreto di trattenimento dello straniero raggiunto da provvedimento di espulsione, è tenuto, alla luce di un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 14 del d.lgs. n. 286 del 1998 in relazione all'art. 5 par. 1 della CEDU (che consente la detenzione di una persona, a fini di espulsione, a condizione che la procedura sia regolare), a rilevare incidentalmente, ai fini della decisione di sua competenza, la manifesta illegittimità del provvedimento espulsivo, che può consistere anche nella situazione di inespellibilità dello straniero.

 

4. Il diritto all"unità familiare e la tutela dei minori

 

La giurisprudenza costituzionale asserisce che l'esigenza della convivenza del nucleo familiare si radica negli artt. 29, 30, 31 Cost. che assicurano protezione alla famiglia ed in particolare, nell'ambito di questa, ai figli minori e che il diritto e il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli (art. 30 Cost.) e perciò di tenerli con sé, ed il diritto dei genitori e dei figli minori ad una vita comune nel segno dell'unità della famiglia sono valori fondamentali della persona, che perciò spettano in via di principio anche agli stranieri.

Detti principi, peraltro, sono affermati anche da alcune disposizioni di trattati internazionali ratificati dall'Italia, in particolare gli artt. 8-12 della CEDU, l'art. 10 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966, e infine gli artt. 9 e 10 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo.

Oggi la protezione dell'unità familiare è prevista anche dalle norme delle direttive comunitarie sul soggiorno dei comunitari e dei loro familiari (anche extracomunitari) e sul diritto al ricongiungimento familiare degli extracomunitari. In particolare il d.lgs. 8 gennaio 2007 n. 5, in attuazione della direttiva 2003/86/CE del Consiglio, del 22 settembre 2003, relativa al ricongiungimento familiare, ha introdotto nel d.lgs. n. 286 del 1998 disposizioni di favore. In particolare nell"art. 5 comma 5, si prevede che, per il rifiuto del rilascio, ovvero per la revoca o il diniego di rinnovo del permesso di soggiorno, nel caso di straniero che abbia esercitato il diritto al ricongiungimento familiare o di familiare ricongiunto, «si tiene conto anche della natura e dell'effettività dei vincoli familiari dell'interessato, dell'esistenza di legami familiari e sociali con il Paese di origine, nonché, per lo straniero già presente sul territorio nazionale, anche della durata del soggiorno nel medesimo territorio nazionale» (e analoga modifica è stata apportata, per quel che riguarda il provvedimento amministrativo di espulsione, all'art. 13, con l'inserimento del comma 2-bis).

Particolare tutela ricevono i diritti fondamentali del minore straniero extracomunitario

Infatti sulla base della Convenzione sui diritti del fanciullo, siglata a New York dall'Assemblea generale dell'ONU il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con la legge del 27 maggio 1991, n. 176, lo Stato è impegnato a garantire una sempre più completa ed effettiva protezione del minore, prevedendo, tra l'altro, particolari forme di assistenza del bambino privo di una famiglia ed adottabile o del bambino rifugiato e riconoscendo che il bambino non può essere separato dai genitori contro la sua volontà salvo che lo dispongano le autorità competenti nel suo interesse. La convenzione impegna ogni Stato a favorire il ricongiungimento familiare quando un membro della famiglia viva in uno Stato diverso da quello in cui vivono altri membri del nucleo familiare.

Una interpretazione delle norme sugli stranieri favorevole al minore e alla famiglia si impone ed è espressamente prevista dallo stesso testo unico delle norme in materia di immigrazione. Ed invero l'art. 28, comma 3 del d.lgs. n. 286 del 1998 prevede che in tutti i procedimenti giurisdizionali e in tutti i procedimenti amministrativi finalizzati ad attuare il diritto all'unità familiare e riguardanti i minori deve essere preso in considerazione con carattere di priorità il superiore interesse del fanciullo, conformemente a quanto previsto dall'art. 3, comma 1, della citata Convenzione sui diritti del fanciullo.

Il vincolo familiare giustifica la sottrazione del trattamento del migrante al regime generale sugli stranieri, emergendo l"intenzione del legislatore di conservare i legami affettivi, nel rispetto delle indicazioni imposte dal bilanciamento con le esigenze di tutela dello Stato.

Secondo la Suprema Corte (Sez. 6-1, n. 17942/2015) il "diritto all"unità familiare", infatti, non ha carattere assoluto, atteso che il legislatore, nel contemperamento dell"interesse dello straniero al mantenimento del nucleo familiare con gli altri valori costituzionali sottesi alle norme in tema di ingresso e soggiorno degli stranieri, può prevedere delle limitazioni bilanciando l'interesse dello straniero al mantenimento del nucleo familiare con gli altri valori costituzionali sottesi alle norme in tema di ingresso e soggiorno degli stranieri.

Con detta pronuncia si interviene fornendo un importante chiarimento attorno ai presupposti richiesti dall'art. 31, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 per la concessione di un provvedimento che autorizzi il familiare del minore all'ingresso o alla permanenza nel territorio nazionale.

In particolare, la Corte ha ritenuto che le situazioni a tal fine rilevanti devono essere di non lunga o indeterminata durata e non caratterizzate dalla tendenziale stabilità e che, pur non prestandosi ad essere preventivamente catalogate e standardizzate, si devono comunque concretare in eventi traumatici e non prevedibili che trascendono il normale disagio dovuto al proprio rimpatrio o a quello di un familiare.

Alla stregua di detta interpretazione, si rigettava il ricorso, atteso che nel caso di specie la situazione dedotta dalla ricorrente non era destinata a durare per un tempo determinato e temporaneo, con ciò risultando incompatibile con la natura dell'autorizzazione richiesta, dovendosi peraltro considerare che il danno che sarebbe derivato al minore non sembrava caratterizzato dai requisiti di effettività, concretezza e gravità.

La tematica affrontata nella pronuncia in esame risulta caratterizzata da una particolare problematicità, atteso che a fronte dell'interesse del minore si rileva un contrastante interesse dello Stato alla regolamentazione e limitazione del soggiorno da parte degli stranieri ove la soluzione si incentra sull"interpretazione dei "gravi motivi" che legittimano il familiare all'ingresso o alla permanenza in Italia.

Attorno al concetto di gravi motivi di cui all'art. 31, comma 3, d.lgs. n. 286 del 1998 si sono tradizionalmente registrate contrastanti interpretazioni nell'ambito della stessa giurisprudenza di legittimità.

L'orientamento risalente, nella prospettiva di salvaguardare il territorio nazionale da una immigrazione non regolamentata a sostanziale svantaggio del "superiore interesse del fanciullo", ha interpretato restrittivamente il concetto di gravi motivi, ritenendo che questo richiedesse l'accertamento di situazioni di emergenza di natura eccezionale e contingente, di situazioni, cioè, che non siano normali e stabilmente ricorrenti nella crescita del minore.

In seguito alla pronuncia Sez. U, n. 22216/2006, ha tuttavia cominciato a farsi strada una interpretazione estensiva dei gravi motivi connessi con lo sviluppo psico-fisico del minore, non limitati dai requisiti dell'eccezionalità e contingenza, ma strettamente connessi allo sviluppo del fanciullo in modo da prendere in considerazione il preminente interesse del minore stesso in relazione alle varie circostanze del caso concreto, quali l'età, le condizioni di salute (anche psichiche)nonché il pregiudizio che potrebbe a questi derivare dall'allontanamento dei familiari.

Nel solco di una interpretazione estensiva dell"art. 31, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 si pone la decisione della S.C., Sez. 1, n. 24476/2015, ove si afferma che la "ratio" dell"istituto è la tutela del minore globalmente considerato, comprensiva tanto della salute fisica quanto di quella psichica e che sussistono i "gravi motivi" legittimanti la temporanea autorizzazione della madre al soggiorno allorché l"allontanamento del minore dalla madre o lo sradicamento della situazione attuale di vita determinino un pregiudizio ed un grave rischio per l"equilibrio psico-fisico del minore.

Nella fattispecie la Corte ha fondato l"accoglimento del ricorso sulla prognosi del grave pregiudizio che sarebbe derivato alla minore di anni due, che peraltro aveva già subito l"abbandono del padre, dall"allontanamento dalla figura materna e dallo sradicamento dalla situazione di vita attuale.

In linea con la tutela specifica assicurata ai minori e nell"ottica del loro "superiore interesse" si esprime anche la sentenza, Sez. 6-1, n. 17819/2015, che ha statuito che il padre straniero di un minore di sei mesi, che abbia provveduto al riconoscimento del figlio, ha diritto ad ottenere il permesso di soggiorno temporaneo, ai sensi dell"art. 19, comma 2, lett. d), del d.lgs. n. 286 del 1998, trattandosi di una disposizione finalizzata alla tutela del rapporto genitoriale nell"ottica di una crescita armoniosa del bambino nei mesi immediatamente successivi alla sua nascita.

In linea con tale filone interpretativo si pone anche Sez. 6-1, n.15191/2015, secondo cui la temporanea autorizzazione alla permanenza in Italia del familiare del minore, prevista dall'art. 31 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, in presenza di gravi motivi connessi allo sviluppo psico-fisico, non richiede necessariamente l'esistenza di situazioni di emergenza o di circostanze contingenti ed eccezionali strettamente collegate alla sua salute, potendo comprendere qualsiasi danno effettivo, concreto, percepibile ed obiettivamente grave che, in considerazione dell'età e delle condizioni di salute ricollegabili al complessivo equilibrio psico-fisico, deriva o deriverà certamente al minore dall'allontanamento del familiare o dal suo definitivo sradicamento dall'ambiente in cui è cresciuto. Deve trattarsi tuttavia di situazioni non di lunga o indeterminabile durata e non caratterizzate da tendenziale stabilità che, pur non prestandosi ad essere catalogate o standardizzate, si concretino in eventi traumatici e non prevedibili, che trascendano il normale disagio dovuto al proprio rimpatrio o a quello di un familiare. Nel caso sottoposto al suo esame la Corte ha cassato il provvedimento impugnato con cui si era omesso di tenere conto dell'età ancora prescolare del minore.

Analoga valutazione è alla base di Sez. 6.1, n, 25419/2015, secondo cui la temporanea autorizzazione alla permanenza in Italia del familiare del minore, prevista dall'art. 31 del d.lgs. n. 286 del 1998 in presenza di gravi motivi connessi al suo sviluppo psico-fisico, non richiede necessariamente l'esistenza di situazioni di emergenza o di circostanze contingenti ed eccezionali strettamente collegate alla sua salute, ma può comprendere qualsiasi danno effettivo, concreto, percepibile ed obiettivamente grave che, in considerazione dell'età o delle condizioni di salute ricollegabili al complessivo equilibrio psico-fisico, deriva o deriverà certamente al minore dall'allontanamento del familiare o dal suo definitivo sradicamento dall'ambiente in cui è cresciuto. Deve trattarsi, peraltro, di situazioni di non lunga o indeterminabile durata e non caratterizzate da tendenziale stabilità che, pur non prestandosi ad essere catalogate o standardizzate, si concretino in eventi traumatici e non prevedibili che trascendano il normale disagio dovuto al proprio rimpatrio o a quello di un familiare. Nel caso sottopostole la Corte ha cassato il decreto che, escludendo la inevitabilità della separazione dai loro figli minorenni, nati in Italia ed in età prescolare, aveva negato l'autorizzazione a due genitori senegalesi, privi di permesso di soggiorno, senza valutare lo sforzo da essi compiuto di inserirsi in Italia, né il pregiudizio che i minori avrebbero potuto subire, per effetto dell'allontanamento dal luogo natio, per l'insufficiente grado di sviluppo della loro personalità che ne avrebbe reso problematico l'adattamento a condizioni di vita e ad usanze profondamente diverse.

Richiamandosi a tali principi la Suprema Corte, con Sez,6.1, n. 17339/2015, ha cassato il decreto che aveva negato l'autorizzazione invocata dai genitori nigeriani di una minore privi di attuale permesso di soggiorno, senza, però, valutare la possibilità per gli istanti di regolarizzare la propria posizione lavorativa, nonché la situazione di grave criminalità e instabilità in cui versa la Nigeria e le conseguenze di un rientro forzato per la loro figlia.

Sui beneficiari di questo diritto di mobilità "derivato", si è pronunciata Sez. 1, n. 15362/2015, secondo cui, in tema di espulsione del cittadino straniero, l"art. 13, comma 2 bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, impone di tenere conto, nei confronti dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare, della durata del soggiorno, nonché dell"esistenza di legami con il Paese di origine, dovendo il giudice effettuare una valutazione caso per caso, senza distinguere tra vita privata e vita familiare, trattandosi di estrinsecazioni del medesimo diritto fondamentale tutelato dall"art. 8 CEDU, che non prevede gradazioni o gerarchie.

Il principio della tutela privilegiata garantita alla famiglia ed in particolare al minore si desume "a contrario" da Sez. 6-1, n. 14610/2015, ove si afferma che l"espulsione dello straniero che convive in Italia con un parente, non implica la violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, la cui tutela, sancita anche dall"art. 8 della CEDU, non è incondizionata, essendo consentita quale misura necessaria ai fini della sicurezza nazionale, del benessere economico del Paese, della difesa dell"ordine e della prevenzione dei reati, della protezione della salute e della morale e della protezione dei diritti e delle libertà altrui.

Alla superiore valutazione dell"interesse del minore appare ispirata anche Sez. 1, n. 1843/2015, secondo cui la valutazione circa la possibilità di consentire al minore l'ingresso in Italia ed il ricongiungimento con l'affidatario, anche se cittadino italiano, non può essere esclusa neppure nel caso della "kafalah" negoziale, (istituto di affidamento familiare proprio di alcuni ordinamenti giuridici che si ispirano all'insegnamento del Corano, che non ha quale presupposto una situazione di abbandono del minore bensì di semplice difficoltà o inadeguatezza dell'ambiente familiare originario, sicché non cancella il rapporto di filiazione, ma si propone di assicurare al minore l'opportunità di vivere in una situazione più favorevole alla sua crescita). In tal caso, invero, detta valutazione deve essere effettuata caso per caso, valutando sempre come prioritario l"interesse del minore. Sui beneficiari di questo diritto di mobilità "derivato", si è pronunciata Sez. 1, n. 15362/2015, secondo cui, in tema di espulsione del cittadino straniero, l"art. 13, comma 2 bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, impone di tenere conto, nei confronti dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare, della durata del soggiorno, nonché dell"esistenza di legami con il Paese di origine, dovendo il giudice effettuare una valutazione caso per caso, senza distinguere tra vita privata e vita familiare, trattandosi di estrinsecazioni del medesimo diritto fondamentale tutelato dall"art. 8 CEDU, che non prevede gradazioni o gerarchie.

A sottolineare la centralità del tema la Suprema Corte, sez.6-1, n. 3004/2016 ha da ultimo stabilito che il decreto di espulsione emesso nei confronti dello straniero che abbia omesso di chiedere, nei termini di legge, al Tribunale per i minorenni, il rinnovo dell'autorizzazione al soggiorno per gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico e tenuto conto dell'età e delle condizioni di salute dei figli minori che si trovano nel territorio italiano, è illegittimo per violazione della clausola di salvaguardia della coesione familiare di cui agli artt. 5, comma 5, e 31, comma 3, del d.lg. n. 286 del 1998, ove non contenga alcun riferimento alle ragioni per cui non è stata presa in considerazione la sua situazione familiare.
E" indubbia pertanto l"emersione di uno "status del minore extracomunitario" che partecipa dei caratteri di entrambi i termini di cui si compone. Quello appunto di "minore" e quello di "extracomunitario" misurandosi su tale terreno la tenuta ed il bilanciamento dei principi afferenti alla tutela della famiglia e dei minori ed alla sicurezza delle frontiere, entrambi temi di evidente attualità.

 

 

 



[1] Vedi "La protezione dello straniero nello spazio giuridico europeo: il contributo della giurisprudenza internazionale e nazionale. Un nuovo approccio nel "vecchio Continente ? "- Seminario nazionale. Catania 20-21 febbraio 2015.

[2] Si veda in proposito "Asilo e altre forma di protezione internazionale" Giuseppina Pizzolante - "L"immigrazione e la mobilità delle persone nel diritto dell"Unione Europea" autori vari- Monduzzi Editoriale 2012




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