Interessi protetti  -  Nicola Todeschini  -  11/06/2018

L'avvocato può mentire e diffamare in atti? Per la Cassazione si, per noi no

E’ molto delicato e quanto mai attuale il dilemma -che per chi scrive non è però tale- che la III sezione della Corte di Cassazione in un infelice arresto liquida, in un paio di pagine, rigettando i motivi di ricorso con i quali un avvocato, parte in diversi giudizi che lo vedevano opposto all’ex moglie, chiede la cassazione di pronunzia della Corte d’Appello di Torino; quest'ultima aveva parzialmente riformato una sentenza del Tribunale di Torino, pronunziata nel corso dell’anno 2014, a definizione di un procedimento a cognizione ridotta azionato dal ricorrente odierno in odio al collega che aveva difeso la moglie in diversi procedimenti (tutti peraltro con esito vittorioso per il ricorrente).

Ma, al di là della vicenda, che fa da sfondo alla questione giuridica, e alla quale sarà fatto solo richiamo sintetico per consentire la comprensione del caso, il tema che ci coinvolge tutti e che, potremmo dire, ha a che fare con lo stile del giurista (argomento che mi è particolarmente caro), riguarda proprio i limiti del diritto di difesa e la soluzione che si deve accogliere allorché il diritto di difesa, da un lato, e il diritto al decoro e all’onore dell'avversario, dall’altro, si trovino in potenziale conflitto. E’ un conflitto, appunto, potenziale, a mio avviso, come più innanzi spiegherò, perché dubito fortemente che il diritto di difesa e di verità abbisogni di condotte che oltraggino il diritto all’onore e al decoro della parte avversaria.

Si tratta bensì di un conflitto -apparente- tra diritti, che dovrebbe essere risolto nel senso di non ammettere mai che l’onore e il decoro possano trovarsi in contrasto effettivo con il diritto di difesa poiché, argomentando diversamente, si dovrebbe accettare un mortificante concetto di diritto di difesa che richiama più l'Azzeccagarbugli di manzoniana memoria o comunque la peggior immagine cinematografica dell’avvocato pronto e disponibile a qualsiasi condotta, anche a violare il diritto di verità oggettiva nei confronti del Giudice e degli avversari, ad utilizzare qualsiasi strumento anche obiettivamente falso pur di tentare di avvantaggiare la posizione del proprio cliente; soprattutto consapevole d’essere impunito e di non agire all’interno di un perimetro i cui confini sono rappresentati dal decoro e dall’onore dell’avversario come se sia ammessa, nel nostro ordinamento giuridico, una difesa anche non decorosa e non onorevole.

Ma così non è, e non vorrei che fosse, anche perché diversa condotta è imposta dalle regole deontologiche che, come è noto, sono ormai regole normative alle quali gli operatori del diritto debbono guardare senza l’atteggiamento spocchioso di chi le indaghi quali fonti meramente regolamentari alle quali, al più, ispirare un argomento.
Nè possiamo accettare l’idea, che si trarrebbe argomentando in senso contrario, di una abilità, quella del giurista e dell’avvocato in particolare, che si misurerebbe per l’adesione pedissequa, acritica, addirittura concorrente, nei confronti delle esigenze, delle condotte e pure degli illeciti commessi dal proprio cliente, in un quadro, quello del regime processuale del contenzioso, che finirebbe per apparire sciolto da qualsiasi regola a guisa di un colosso nel quale l’unico fine è quello di non farsi sbranare dalle fiere e dove onore e decoro contano solo nella misura in cui siano anche strumentali alla salvezza.

Ebbene io non credo a questo processo, tantomeno a questa idea, sciaguratamente fascinosa per alcuni, dell’avvocato luciferino che funziona molto nelle serie americane, né tanto meno nella prospettiva di un processo nel quale conti solo la salvezza da un’accusa, ovvero il riconoscimento di un diritto, a qualsiasi costo, con qualsiasi mezzo, anche al prezzo del pregiudizio arrecato all’onore e al decoro avversario.

Anche perché, a ben vedere, come peraltro accade pure nel caso che è stato da ultimo sottoposto alla Corte di Cassazione in questa pronunzia, una difesa ispirata alla violazione dell’onore e del decoro altrui è una difesa che lamenta, per non dire urla, la propria inefficienza, la scarsità degli argomenti, un’ispirazione etica, deontologica, tecnica, di basso livello che giunge sino a sconfinare nel concorso nell’illecito del proprio cliente e che si mostra beffardamente certa di godere di copertura e di sostegno.

Quante volte ci siamo trovati, noi avvocati, al cospetto di una difesa poco dignitosa perché astiosa, inutilmente polemica, faziosa pure nell’indicazione di principi di diritto astrattamente disponibili, figlia di una identificazione pericolante ed umiliante tra avvocato difensore e proprio cliente; quante volte abbiamo osservato il fastidio del  Magistrato, ma quante altre volte pure la sua indifferenza ad una prospettazione bieca della funzione del difensore quasi ad accettazione, mesta e anche per tale ragione ingiustificabile, proprio di quel colosseo senza regole che potrebbe mai essere o diventare il processo. Quante altre volte, invece, e fortunatamente sono la maggior parte, abbiamo semplicemente incontrato colleghi capaci che con dignità, decoro, e nel rispetto della dignità e del decoro dei nostri assistiti, hanno invece operato in modo franco, deciso, magari cinico ma retto, individuando semmai percorsi giurisprudenziali desueti o non sufficientemente argomentati ma mai al di fuori del perimetro delle regole e, soprattutto, con uno stile che non travalica mai nell’offesa come invece sa ben fare chi non è educato al rispetto delle altre persone, delle regole fondamentali del processo.

E’ chiaro quindi che preoccupa tale arresto -anche in senso etimologico- che liquida, con perigliosa rapidità, la questione del “conflitto tra il diritto a svolgere la difesa giudiziale nel modo più largo e insindacabile e del diritto della controparte al decoro e all’onore” sostenendo che “l’art. 89 codice di procedura civile ha attribuito la prevalenza al primo, nel senso che l’offesa all’onore e al decoro alla controparte comporta l’obbligo del risarcimento del danno nella sola ipotesi in cui le espressioni offensive non abbiano alcuna relazione con l’esercizio del diritto di difesa”.

Secondo la pronunzia in commento, inoltre, l’obbligo risarcitorio non sussisterebbe mai quando tali espressioni offensive “pur non trovandosi in un rapporto di necessità con le esigenze della difesa presentino, tuttavia, una qualche attinenza con l’oggetto della controversia e costituiscano, pertanto, uno strumento per indirizzare la decisione del Giudice a vincere la lite”.

Trovo estremamente pericoloso -e diseducativo per chi si avvicini alla professione- alludere ad un teatro ove apparenze, giustificazioni infantili, arroganza, siano mai utili ad immaginare che un'espressione offensiva possa mai essere uno strumento per indirizzare la decisione del Giudice e vincere la lite: quando mai si vincono le liti grazie agli insulti e alla diffamazione? 

Semmai ingiuria e diffamazione dovrebbero far vincere la lite a chi le subisca, non a chi le utilizzi per “indirizzare la decisione del Giudice e vincere la lite”!

E ancora, quale Giudice mai può essere colui che si lasci abbindolare da espressioni offensive pronunziate per tentare di condizionarlo ad accoglierne le tesi, quando invece è pacifico, mi sento di affermare, che il Giudice debba soltanto essere condizionato dal contenuto della regola e dagli argomenti giuridici che le parti pongono alla sua attenzione per suggerirne l’applicazione.

Mai dovrebbe il Magistrato essere condizionato da valutazioni extra giuridiche se non utili ad individuare percorsi ermeneutici, ad offrire uno scenario, però costituzionalmente orientato, al quale guardare per fare governo attento della regola.  Quando mai tale ausilio può essere correttamente individuato in espressioni offensive che oltraggino l’onore e il decoro dell’avversario?

Tanto più, sia consentito, in un caso come questo nel quale, tra l’altro, l’accusa d’essere una sorta di stalker ed  ambiguo persecutore giudiziario, rivolta ad una parte, che di professione fa l’avvocato, era così meschina e falsa oggettivamente, in considerazione della circostanza che il presunto stalker giudiziario aveva vinto tutti i procedimenti che aveva instaurato nei confronti dell’ex moglie, a riprova della correttezza del suo operato.
Immaginare che espressioni offensive, e quindi di deprimente contenuto tecnico e di assai discutibile contenuto etico, pronunziate in contrasto con precetti deontologici, possano mai essere funzionali “allo scopo perseguito con gli atti difensivi nei quali sono contenute” è ingiustificabile perché allude alla chance di articolare argomenti non grazie allo studio, all’approfondimento, ma alla volgare sfida tra epiteti, in un contesto che nessun genitore ben educato potrebbe paventare nemmeno a giustificazione del figlio che abbia esagerato in una discussione con l’amico.

E’ un inammissibile passo indietro, all’Azzeccagarbugli di manzoniana memoria ma, ancor di più, verso il medioevo dell’abilità forense che invece conosce, in questo Paese, straordinarie eccellenze e, come in questo caso, anche tristi ed umilianti occasioni di ripensamento.

Possiamo accettare senza tema un pronuncia che di fatto potrebbe essere invocata a giustificazione e protezione di un lessico deludente, indignitoso, che all'abilità sostituisca il lazzo e la diffamazione? Certo che no. 

E se l'offesa fosse stato rivolta ad un magistrato? 




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