-  Mazzon Riccardo  -  02/05/2017

Legittima difesa e risarcimento del danno: di chi è l'onere della prova? - Riccardo Mazzon

In ottica di legittima difesa, di particolare interesse si dimostra la pronuncia (rilasciata in sede penale) attraverso la quale il Tribunale decide, in sede d"appello, una controversia nata da atto, depositato in data 20.9.2010, avverso la sentenza (del 24.6.2010) emessa da Giudice di Pace, con la quale l"imputato veniva condannato alla pena pecuniaria di euro 1200 di multa, per il reato previsto e punito dall'art. 582 del codice penale, oltrecché al risarcimento del danno cagionato alla parte civile, da liquidarsi in separata sede, ed alla refusione delle spese processuali, liquidate in euro 2000 oltre accessori di legge.

Deduceva l'appellante, nel merito, che le prove in ordine alla sussistenza del reato erano carenti, perché il primo giudice si era basato esclusivamente sulle dichiarazioni della parte civile, omettendo di valutare emergenze probatorie di segno opposto e di analizzare criticamente le stesse deduzioni della costituita parte civile; in particolare, deduceva l'appellante che non vi era prova certa in atti che le lamentate lesioni non fossero state comunque conseguenza di una condotta aggressiva della stessa parte civile, tali da indurre l"imputato ad agire in stato di legittima difesa; concludeva infine l'appellante chiedendo, oltre all'assoluzione dal reato ascrittogli, il rigetto della condanna generica al risarcimento accordato alla parte civile e alla refusione delle spese (cfr., amplius, da ultimo, "Le cause di giustificazione nella responsabilità per illecito", Riccardo Mazzon, Giuffré 2017).

Il Tribunale (Tribunale La Spezia, 26/04/2011, n. 3) respinse l'appello, ritenendolo infondato, così come infondate erano da ritenersi le deduzioni difensive proposte in ordine all'incongruità del coacervo probatorio; invero, gli elementi di doglianza addotti dall'appellante si sostanziavano nella ricostruzione, giudicata errata, dei fatti e, in particolare, delle condizioni nelle quali la persona offesa ebbe a riportare le lesioni refertate in atti.

Sostenne l'appellante, invero, che la persona offesa, dopo avere visto l'imputato nell'atto di prelevare un pacchetto di cartone e di gettarlo successivamente nell'immondizia, avrebbe atteso che i due dipendenti, presenti nel supermercato - di cui la persona offesa era responsabile -, si fossero allontanati, richiamandolo per ottenerne spiegazioni: in particolare l"imputato, dipendente del punto vendita, chiedeva di poter uscire, ma ciò gli era reso impossibile dalla chiusura delle porte; ne nasceva un alterco, descritto dalla persona offesa come un'aggressione da parte del dipendente, ma che secondo quanto dedotto nell'appello sarebbe stato invece conseguenza della coercizione fisica esercitata dalla persona offesa sull"imputato: coercizione fisica che, secondo l'appellante, sarebbe avvalorata dalla deposizione dei testimoni e, nei cui confronti, la reazione dell"imputato, che ebbe a cagionare le lesioni alla parte civile, sarebbe riconducibile alle condizioni scriminanti di cui all'art. 52 c.p. (legittima difesa); quanto precede senza contare, inoltre, che anche l"imputato ebbe a riportare lesioni, debitamente refertate.

Nota a tal proposito il Tribunale che, seppur le cause di giustificazione non debbano essere provate da chi vi abbia interesse, su costui grava comunque un onere di allegazione, spettandogli di indicare gli elementi in base ai quali il giudice possa verificare la sussistenza delle condizioni scriminanti (o, almeno, l'errore putativo sull'esistenza delle stesse); ciò premesso, né la ricostruzione logica offerta dall'appellante, né gli elementi probatori che a suo dire sarebbero idonei a determinare la sussistenza della scriminante della legittima difesa appaiono idonei e sufficienti a tal fine: si è fatto riferimento, ad esempio, nell'atto di appello, alla deposizione di un teste affermante, fra l'altro, che l'imputato voleva uscire, la persona offesa lo voleva trattenere per chiarire e gli si parava davanti ("non so se l'abbia toccato", afferma tale testimone); sta di fatto che, secondo detto teste, vi fu il contatto fra i due, con reciproci spintoni, forse lo strappo della camicia della persona offesa, che aveva un segno rosso sul collo e che poi invitava lo stesso teste a chiamare i Carabinieri; sta di fatto, ancora che, al termine dell'alterco, l'imputato "è riuscito a uscire"; ancora, quanto alla deposizione di altro teste, sulla cui scarsa verosimiglianza il Tribunale afferma esplicitamente di nutrire perplessità assolutamente sovrapponibili a quelle del Giudice di prime cure, cionondimeno la stessa offriva una descrizione dei fatti assolutamente lacunosa - riferita in sostanza al fatto che la persona offesa avrebbe trattenuto l"imputato da un braccio, mentre questi cercava di uscire - e comunque tale da non consentire in alcun modo di apprezzare l'esatta e completa dinamica degli eventi, in termini tali da trarne il convincimento che l"imputato avesse agito in stato di necessità, al momento delle lesioni procurate alla persona offesa; in particolare, con riferimento a tale ultimo accadimento, l'elemento concreto di riscontro offerto in via testimoniale - a parte ovviamente le dichiarazioni della vittima e fatto salvo lo stesso referto medico - era il rossore al collo che la persona offesa presentava in seguito all'episodio, su cui avevano riferito i testi, mentre nessun teste aveva fornito elementi sulla condotta dell"imputato che avrebbe determinato dette lesioni; ciò, evidentemente, secondo il Tribunale, costituiva un elemento pregiudizievole alla verifica della compatibilità fra la condotta dell'imputato e le invocate condizioni scriminanti, atteso che era al momento della condotta lesiva censurata che sarebbero dovute esistere le condizioni scriminanti invocate.

Osserva all'uopo il tribunale che, pur volendosi ipotizzare che la persona offesa avesse cercato di trattenere l'appellante nel punto vendita, eventualmente parandoglisi davanti o cercando di trattenerlo anche fisicamente, ciò non è di per sé sufficiente a determinare condizioni atte a porre l'imputato nella necessità di reagire avvalendosi della forza fisica, soprattutto sotto il profilo della inevitabilità altrimenti, requisito indefettibile della legittima difesa; ed anzi, aggiunge sempre il giudicante d'appello, era emerso che comunque, al termine del diverbio, l'imputato - a quanto è dato di sapere, senza dover superare con forza alcun ostacolo - riusciva a uscire dal supermercato, il che certamente non deponeva per un'assenza di alternative alla replica violenta alla supposta aggressione della parte civile e al costringimento, che sarebbe stato esercitato da questi, nei confronti dell'imputato, per farlo rimanere nel punto vendita: tanto osservato, aggiunge il Tribunale, e pur volendo valorizzarsi il referto medico a carico dell"imputato (che peraltro, come non sfugge al Tribunale, dà conto solo di lesioni "riferite" e quindi non obiettivamente diagnosticate), deve evidenziarsi che le lesioni volontarie reciproche tra due contendenti non implicano necessariamente che uno di essi abbia agito in stato di legittima difesa; e nella specie, non era emerso in modo univoco che la persona offesa avesse assunto l'iniziativa di aggredire l"imputato, non potendosi escludere, in base ai pochi elementi forniti dalle deposizioni testimoniali, che questi avesse esercitato per primo la violenza, nel tentativo di uscire dal supermercato: ed è noto che, in caso di lesioni volontarie reciproche, non ricorre la legittima difesa qualora i due contendenti si siano lanciati contemporaneamente alla reciproca aggressione.

Ricorda, inoltre, il giudice d'appello che, sempre in tema di legittima difesa, la reazione è necessaria quando è inevitabile, vale a dire non sostituibile da un'altra meno dannosa, ugualmente idonea ad assicurare la tutela dell'aggredito; ne consegue che l'allontanamento di costui, se non fa correre alcun pericolo anche a terzi, deve essere la soluzione obbligata, in quanto la reazione è pur sempre un atto violento al quale si deve ricorrere come "extrema", davvero inevitabile, "ratio" per salvare un proprio bene, e non per sacrificare l'onore: in tale quadro, e in base agli elementi raccolti, pur a fronte delle allegazioni difensive non fu dato apprezzare la sussistenza di condizioni ipoteticamente sussumibili nello schema della legittima difesa, invocato dall'imputato.

Il Tribunale aggiunge inoltre, come nel caso di specie non possa neppure parlarsi di scriminante putativa, atteso che nulla autorizza a ritenere che l'imputato non si rendesse conto delle condizioni in cui egli poneva in essere la sua condotta lesiva; né, ancora, di eccesso colposo di legittima difesa, atteso che l'assenza dei presupposti della scriminante della legittima difesa - in specie del bisogno di rimuovere il pericolo di un'aggressione, mediante una reazione proporzionata e adeguata -, impedisce di ravvisare l'eccesso colposo, che si caratterizza per l'erronea valutazione di detto pericolo e della adeguatezza dei mezzi usati: per le considerazioni che precedono e facendo proprie quelle svolte nell'appellata sentenza, ritenne, pertanto, il giudicante conclamata la sussistenza del reato addebitato all"imputato e che lo stesso ne andasse ritenuto responsabile; l'equità ed adeguatezza della pena, delle statuizioni civili e della liquidazione delle spese di giustizia indussero, poi, a confermare la decisione di primo grado.


 




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