Diritto, procedura, esecuzione penale  -  Redazione P&D  -  04/04/2020

Proposte di modifiche dell'art. 10 e dell'art. 28 DPR n. 488 del 1988 - Elvira Reale, Giovanna Cacciapuoti

La vittima di stupro di fronte ad un autore di reato minorenne: piani diseguali 

La cronaca spesso ci consegna notizie di vittime di efferati stupri ad opera di minori, spesso organizzati in gruppi, costrette a rimanere inermi prima di fronte alla violenza brutale di ragazzi che agiscono come dei veri orchi e poi di fronte alla rigidità di un ordinamento che non consente loro di avere giustizia, sono storie di vittimizzazione secondaria che si ripetono, racconti di vite distrutte che restano segnate per sempre da violenze e abusi, senza risarcimento perché non è loro riconosciuta la possibilità di costituirsi in giudizio, e senza giustizia perché agli aggressori è consentito di cancellare il delitto con un colpo di spugna. 

Tutto ciò perché l’intero sistema penale minorile riflette la tendenza a centrare l’attenzione non tanto sul reato commesso, ma sul minore e si sviluppa in tale direzione, imponendo al magistrato minorile una visione strettamente rieducativa, che deve creare un percorso specifico finalizzato al recupero del minore, autore del reato. 

La riforma del processo penale minorile nel nostro ordinamento è stata, attuata con il D.P.R. 448 del 1988.
Una riforma che ha seguito a distanza di pochi anni l’adozione da parte delle Nazioni Unite delle “Regole minime sull’amministrazione della giustizia dei minori” (le c.d. “Regole di Pechino” del 1985) e ha preceduto di un anno l’adozione della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (1989). 

In conformità con la normativa internazionale, la riforma muove dall’idea che, come ha affermato la Corte costituzionale: “la giustizia minorile deve essere improntata all’essenziale finalità di recupero del minore deviante mediante la sua rieducazione ed il suo reinserimento sociale” (Corte Cost. sentenza n. 125 del 1992). 

Questa idea si è tradotta in alcuni principi che orientano l’intervento della giustizia penale nei confronti dei minorenni: 

1. Il “principio di adeguatezza” per il quale “il processo penale minorile deve adeguarsi, sia nella sua concezione generale, sia nella sua applicazione concreta, alla personalità del minore e alle sue esigenze educative, in quanto deve essere teso alla reintegrazione del minore nella società”.

2. Il “principio di minima offensività”, per il quale i giudici e gli operatori sono chiamati a decidere tenendo presente che l’ingresso di un minore nel sistema penale può mettere a rischio lo sviluppo della sua personalità e comprometterne l’immagine sociale, con il conseguente risultato di “degradarlo” e “desocializzarlo”. 

I giudici e gli operatori hanno, dunque, l’obbligo di considerare tutti gli strumenti a loro disposizione per evitare l’ingresso del minore accusato di avere commesso un reato nel circuito penale.
Il D.P.R. 448 del 1988 ha, a tal fine, com’è noto, previsto la possibilità che il giudice possa decidere il proscioglimento del minore accusato di un reato per irrilevanza del fatto (art. 27 D.P.R. 448/1988) o ordinare la sospensione del processo con messa alla prova (art. 28 D.P.R. 448/1988).  

Al minore può altresì, in alcune circostanze, essere concesso il perdono giudiziale (art. 169 c.p.; art. 32 D.P.R. 448/1988). 

Se da un lato, però, il processo penale minorile presenta un elevato ed indubbio rigore valoriale quanto al perseguimento dell’obiettivo, dall’altro, tuttavia, si connota per un allarmante ed esecrabile vuoto normativo quanto alla tutela della posizione della vittima del reato (che può essere a sua volta persona minore d’età) che pure riceve attenzione dall’ordinamento sia nazionale che internazionale, anzi, negli anni si è conquistato uno spazio sempre maggiore. 

Il tema della «posizione della vittima nell’ambito del diritto e della procedura penale» è stato affrontato per la prima volta in termini generali con Raccomandazione R(85)11, adottata dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa il 28 giugno 1985.
Nei consideranda, infatti, il Consiglio d’Europa, constatata la tendenza del sistema tradizionale della giustizia penale ad accrescere, più che a ridurre, la sofferenza della vittima, afferma che «una funzione fondamentale della giustizia penale deve essere quella di soddisfare le esigenze e salvaguardare gli interessi della vittima», di cui è necessario «tenere maggiormente in conto [...] alla luce del danno fisico, psicologico, materiale e sociale subito». 

Il sistema giudiziario minorile contemporaneo è invece interessato alla sola figura dell’imputato.
Di questa “imputato-centricità” e della correlata e consequenziale marginalità della figura della vittima del reato che permea l’intero procedimento minorile sono evidente estrinsecazione gli istituti previsti dagli artt. 10 e 28 del DPR n. 488 del 1988.
Ebbene, l’art. 10 predetto al comma 1 così recita “Nel procedimento penale davanti al tribunale per i minorenni
non è ammesso l’esercizio dell’azione civile per le restituzioni ed il risarcimento del danno cagionato dal reato”, prevista nel processo ordinario.
La crescente sensibilità per le ragioni delle vittime, a livello normativo oltre che di coscienza collettiva, rende sempre più acuta la criticità del tema.
Deve riconoscersi che i profili di dannosità dei reati minorili tipici non sono inferiori a quelli delle analoghe condotte poste in essere dagli adulti.
In realtà, il giudizio penale rappresenta per l’adolescente un’occasione di confronto con la comunità e le sue norme, per percepire la dimensione sociale delle proprie azioni.
Da questo punto di vista, la riparazione dei danni cagionati, favorendo nel minore la consapevolezza della lesione arrecata all’altrui diritto, può avere una sua utilità. I fautori della funzione pedagogica del processo minorile, all’indomani dell’entrata in vigore della riforma del 1988, notarono con rammarico come l’esercizio dell’azione riparatoria nel processo penale avrebbe potuto favorire, nell’imputato adolescente, l’assunzione della consapevolezza del danno causato
1.
La marginalizzazione della vittima nel processo penale minorile si accresce ulteriormente se si considera l’istituto di cui
all’art. 28 del DPR n. 488 del 1988 disciplinante la sospensione del processo e messa alla prova.
La messa alla prova si configura come lo strumento principe destinato a promuovere la riabilitazione dell’adolescente autore di reato, con conseguenze anche sull’esito del processo perché il percorso, se portato a termine, si conclude con la possibilità concreta che il reato venga dichiarato estinto. 

La pianificazione di una messa alla prova ha natura intrinsecamente educativa e la personalizzazione dei suoi contenuti è fondamentale, dovendosi essa costruire sul significato speciale ed esclusivo assunto da quel reato per quell’unico, particolare minore e sulla ricerca degli eventi interni ed esterni che hanno reso in quel momento “conveniente” per lui, su di un piano profondo e inconsapevole, la commissione di un reato. 

Alle fondamenta di ogni progetto di messa alla prova c’è quindi un atto fondativo complesso quanto imprescindibile di natura diagnostica, che ha il compito di orientare il progetto, definendo quali altre esperienze possano avere una valenza educativa e la capacità di ridurre le probabilità di recidiva. 

È il concetto di “abito su misura”: l’intervento giudiziario assume valenza terapeutica attraverso la possibilità di una nuova narrazione che ricostruisce il significato dell’evento reato per il minore che lo ha commesso.
Ma anche in questa prospettiva, il processo penale minorile appare totalmente dimentico delle esigenze di tutela della vittima dal momento che l’istituto della messa alla prova può essere disposto anche quando il reato commesso sia tra i più gravi in assoluto. Quello che rileva è che la prognosi sulla rieducazione sociale del minore sia positiva. 

Le considerazioni finora svolte fanno seriamente dubitare che le istanze di protezione del minore giustifichino pienamente una disciplina che, per il suo carattere rigido, non consente alcuna considerazione delle aspettative di tutela delle vittime.
Oltre ad essere privato della possibilità di richiedere al giudice penale il ristoro del danno patito, l’offeso è tenuto ai margini di un processo che appartiene al minore, autore del reato. 

Nella prassi, la marginalizzazione della persona offesa è anche fisica: quando si presenta, è lasciata fuori dall’aula, fatta entrare soltanto se occorre sentirla, per il tempo dell’audizione, e poi al momento della decisione finale; e a questo punto, ode il più delle volte pronunziare formule liberatorie che la sconcertano, senza che nessuno si preoccupi di spiegargliene il significato e la finalità, per evitare un vero e proprio “trauma da esclusione”. 

Questo regime risulta, però, oggi in controtendenza, visto che è sempre più avvertita, in generale, l’esigenza di evitare al soggetto passivo del reato la vittimizzazione secondaria, causata dal contatto frustrante ed insoddisfacente col sistema giudiziario.
Si deve, infatti, dare atto di un mutamento in corso. 

Un modello processuale davvero “garantista” dovrebbe essere in grado di implementare i diritti della vittima senza con questo pregiudicare la posizione del soggetto ritenuto autore del reato, essendo possibile coniugare pienamente il rispetto dei diritti di entrambi, in un’ottica consapevole del fatto che un processo può essere davvero considerato “giusto” solo se si configura come tale agli occhi di tutti i suoi protagonisti e comprimari. 

La “svolta” riguardante il mutato assetto normativo, tradottosi in una decisa rivitalizzazione del ruolo della persona offesa del reato, non è scaturita da un’autonoma presa di coscienza da parte del nostro legislatore, ma rappresenta la diretta conseguenza delle vincolanti indicazioni provenienti dalle Direttive europee. 

Il D.lgs n. 212 del 2015, con cui il legislatore italiano ha inciso significativamente su tale materia, è stato emanato allo scopo di dare attuazione (sia pur con un certo ritardo) alla Direttiva 2012/29/UE volta a delineare dei nuovi parametri normativi in tema di diritti, assistenza e protezione alle vittime di reato, sostituendo in tal modo la Decisione quadro 2001/220/GAI, che non aveva invece mai trovato concreta attuazione.
Gli organi UE, in altri casi accusati di “burocratica indifferenza” nei confronti dei drammi che purtroppo caratterizzano quegli ultimi anni, hanno dunque svolto una fondamentale funzione di stimolo in relazione alla tematica riguardante la posizione della vittima in ambito processuale, alla luce della puntuale considerazione, espressa al punto 9 del considerando inserito nella citata Direttiva 2012/29/UE, che il reato, oltre ad offendere la società nel suo complesso, si traduce in "una violazione dei diritti individuali delle vittime". 

Il D.Lgs. n. 212 del 2015, in aderenza al dettato della Direttiva 2012/29/UE, ha previsto specifiche misure a tutela delle “vittime particolarmente vulnerabili”.
La tutela processuale delle vittime dei reati è potenziata anche dalla legge n. 103 del 2017 con le modifiche apportate al codice di procedura penale. 

La consapevolezza, finalmente evidenziata dal legislatore interno (sia pur in larga parte “costretto” ad intervenire sulla base delle Direttive UE), di rimuovere la “vittima” da quella posizione marginale, in ambito giudiziario, in cui era stata finora relegata non può non essere valutata in termini positivi. 

Tuttavia, permangono gravi lacune che il legislatore non può più trascurare in relazione, come ampiamente sopra evidenziato, alla figura della vittima nel procedimento penale minorile.
Appare evidente, allora, la
necessità di un intervento normativo che sia orientato ad accrescere la tutela della vittima di un reato commesso da un minore attraverso la previsione innanzitutto del potere della stessa di costituirsi parte civile nel procedimento penale minorile per il ristoro dei danni cagionati dall’azione delittuosa. 

Inoltre, altrettanto opportuna appare la modifica dell’art. 28 del DPR n. 488 del 1988 nel senso della previsione di una preclusione all’applicazione della sospensione del processo con la messa alla prova, in relazione ai reati di acclarata gravità sociale, analogamente a ciò che viene previsto per l’istituto procedurale del patteggiamento. 

L’art. 444 c.p.p, infatti prevede che “sono esclusi dall'applicazione del comma 1 i procedimenti per i delitti di cui all'articolo 51, commi 3-bis2 e 3-quater3, i procedimenti per i delitti di cui agli articoli 600 bis, 600 ter, primo, secondo, terzo e quinto comma, 600 quater, secondo comma, 600 quater 1, relativamente alla condotta di produzione o commercio di materiale pornografico, 600 quinquies, nonché 609 bis, 609 ter, 609 quater e 609 octies del codice penale, nonché quelli contro coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali e per tendenza, o recidivi ai sensi dell'articolo 99, quarto comma, del codice penale, qualora la pena superi due anni soli o congiunti a pena pecuniaria”. 

Nello specifico, i summenzionati reati rientrano nel catalogo dei cd. reati ostativi ex art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario.
Tale norma ha una funzione di “norma-contenitore” di fattispecie espressive di un consistente livello di pericolosità sociale. 

Sono tutti delitti che si ritengono essere espressione tipica di una criminalità connotata da livelli di pericolosità particolarmente elevati.
Ebbene la gravità di tali reati è sintomo non di un banale disagio temporaneo, bensì di una strutturazione profonda di una storia personale altamente deviante che richiede un incisivo strumento di risocializzazione o quantomeno una pronuncia sul merito. 

In conclusione, proponiamo la modifica dell’art. 10 e dell’art. 28 DPR 488/88 nei seguenti termini, abrogare l’art. 10 che prevede la inammissibilità dell’azione civile e modificare l’art. 28, escludendo la messa alla prova per determinate fattispecie delittuose tutte specificamente elencate tra le quali la violenza sessuale, con l’inserimento del comma 1 bis e la modifica del comma 2 (in quanto, data la introdotta esclusione per alcuni reati non ricorrono più reati puniti con la pena dell’ergastolo). 

Le modifiche proposte consentirebbero di ridisegnare il processo penale minorile in modo da allinearlo alla normativa sovranazionale e nazionale protesa verso la tutela della vittima del reato senza tuttavia mortificarne la sostanziale finalità di recupero del minore. 


1 D.Spirito, Giust. Pen. 90, III, 147

2 Delitti, consumati o tentati, di cui agli articoli 416, sesto e settimo comma, 416, realizzato allo scopo di commettere taluno dei delitti di cui all'art. 12, commi 1, 3 e 3 ter, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 [v. Testo unico sull'immigrazione](6), 416(7), realizzato allo scopo di commettere delitti previsti dagli articoli 473 e 474(8), 600, 601, 602(9), 416 bis, 416 ter, 452 quaterdecies(10) e 630 del codice penale, per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416 bis ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonché per i delitti previsti dall'articolo 74 del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990 n. 309 [190 bis, 295, 371 bis, 406 c.p.p.], e dall'articolo 291 quater del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, [e dall'art. 260 del decreto legislativo 3 aprile 2006 n. 152,] [v. Codice dell'ambiente]. 

3 Procedimenti per i delitti consumati o tentati con finalità di terrorismo 


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