-  privato.personaedanno  -  24/03/2015

PROTEZIONE INTERNAZIONALE: IL PROTOCOLLO DI ISTANBUL FINALMENTE SUL BANCO DEL GIUDICE ITALIANO Trib. Torino, 2.10.14, dott.ssa Ratti - M. VEGLIO

Torture e trattamenti inumani o degradanti

Consulenza medica per accertare la credibilità del richiedente asilo

Il Tribunale di Torino ricorre alle linee guida del cd. Protocollo di Istanbul

 

Nonostante i 15 anni di vita del cd. Protocollo di Istanbul, strumento internazionale di centrale importanza nell'accertamento delle torture e dei trattamenti inumani o degradanti, la giurisprudenza nazionale in materia di protezione internazionale sembra ignorarne quasi completamente l'utilizzo.

Una felice eccezione arriva dal Tribunale di Torino, che – con l'allegata ordinanza del 2 ottobre 2014 – ricorre allo strumento della consulenza medica ispirata ai criteri del Protocollo menzionato al fine di completare il giudizio di attendibilità del richiedente asilo.

La fattispecie oggetto della decisione riguarda un cittadino gambiano che in patria lavorava come autotrasportatore per una compagnia petrolifera statale.

In seguito alla sparizione di 10 barili di petrolio, il richiedente veniva arrestato e detenuto per circa 2 mesi nel famigerato carcere "Mile 2" nella capitale Banjul, noto per le terribili condizioni di vessazione, sovraffollamento e abusi in cui sono costretti i trattenuti.

Il richiedente veniva sottoposto a torture fisiche e psicologiche – ripetute e violente bastonate sulle gambe, spruzzo di gas urticante sugli occhi, minacce di morte – e dopo il rilascio dovuto alla carenza di prove si vedeva costretto a fuggire per sottrarsi alle nuove intimidazioni ad opera di dipendenti della società stessa.

In prima battuta la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Torino respingeva l'istanza, avanzando dubbi sulla credibilità del racconto, ed in particolare sull'eventualità che il richiedente potesse essere stato incarcerato presso la prigione "Mile 2" e successivamente stato rilasciato senza alcuna sanzione.

Tale valutazione, ritenuta "in parte superficiale e in parte contraddittoria" dal Tribunale di Torino, è stata rovesciata con un'ordinanza chiara ed articolata, anche grazie al ricorso ad una consulenza medica condotta secondo i criteri del cd. Protocollo di Istanbul ("Manuale per un'efficace indagine e documentazione di tortura o altro trattamento o pena crudele, disumano o degradante" del 9 agosto 1999) .

Sebbene non formalmente vincolante, tale documento rappresenta uno strumento di grande utilità per l'accertamento di eventi di tortura e maltrattamenti imposto dal diritto internazionale.

Rispondendo alla "necessità che gli Stati individuino ed implementino misure efficaci per proteggere le persone dalla tortura e dai maltrattamenti", il Protocollo individua infatti linee guida di natura tecnica per lo svolgimento delle indagini e la raccolta degli elementi probatori in tali casi.

A seguito della sottoposizione all'Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, il Protocollo di Istanbul trovava universale riconoscimento quale risorsa essenziale nella lotta contro i trattamenti inumani e degradanti, venendo anche adottato ufficialmente da alcune istituzioni regionali (tra le quali l'Unione Europea, che ne fa espressa menzione all'interno delle "Guidelines to EU Policy towards Third Countries on Torture and Other Cruel, Inhuman or Degrading Treatment or Punishment" elaborate dal Consiglio Affari Esteri nel 2001).

Nel caso in esame l'esito della consulenza comprova la piena compatibilità dei postumi fisici e psichici – le cicatrici presenti sulla parte anteriore delle gambe, la persistente congiuntivite e i disturbi della vista – con la vicenda esposta dal richiedente, concludendo per una "diagnosi di un Disturbo Post-Traumatico da stress cronico (DSM IV, 309,81) evidente conseguenza delle violenze subite nel corso delle torture".

Sulla base di tali argomentazioni, unitamente al grado di dettaglio e precisione della narrazione, il Tribunale ha ritenuto soddisfatta la prova relativa alla credibilità del richiedente, al quale viene riconosciuta la protezione sussidiaria in virtù della probabilità che, "in caso di rimpatrio, il ricorrente possa essere esposto al rischio di subire nuove rappresaglie e torture suscettibili di comromettere la sua integrità fisica e forse anche la sua vita".

L'iter argomentativo attraverso il quale il Giudicante raggiunge la conclusione esposta si snoda anche attraverso l'analisi della documentazione relativa al Paese di provenienza (Country of Origin Information), che evidenzia la diffusione degli arresti arbitrari ed illegali protratti ben oltre il limite di 72 ore formalmente previsto dalla normativa gambiana, e la persistenza del pericolo denunciato nonostante il lasso temporale intercorso tra i fatti e la pronuncia giudiziale.




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