Diritto, procedura, esecuzione penale  -  Redazione P&D  -  19/01/2022

Riflessioni sul tema della legittimazione a proporre l’impugnazione ex art. 625 bis c.p.p. in ipotesi di rigetto della istanza di riparazione - Francesca Sassano

Un tema non tanto approfondito, ma rilevante in materia di giustizia riparativa per errore giudiziario, è quello della legittimazione a proporre l’impugnazione ex art.625 bis cpp.

L’art. 625 bis c.p.p. stabilisce che la richiesta per la correzione dell’errore materiale o di fatto contenuto nei provvedimenti pronunciati dalla Corte di cassazione è proposta dal Procuratore generale o dal condannato. 

Come è noto, la nozione di “condannato” è stata interpretata dalle Sezioni unite, nel senso che essa comunque ricomprende anche il soggetto titolare della facoltà di richiedere la revisione di una condanna (Sez. U, n. 13199 del 21-07-2016, in causa Nunziata).

Dal punto di vista procedimentale (e soltanto da tale angolo visuale), attesa la loro natura, il procedimento di riparazione per l’ingiusta detenzione e quello per la riparazione dell’errore giudiziario partecipano della medesima disciplina. 

Fatta questa premessa, risulta evidente come alcuni principi affermati dalla consolidata giurisprudenza di legittimità a proposito del procedimento per il riconoscimento del diritto alla equa riparazione per la ingiusta detenzione possano essere applicati anche al procedimento relativo alla riparazione dell’errore giudiziario.

Il quale è perciò sostanzialmente equiparabile ad un ordinario procedimento di natura civilistica, la cui disciplina è stata inserita nel codice di procedura penale essenzialmente per ragioni di opportunità (ex plurimis, Cass pen., Sez.  4, Sentenza n. 1369 del 30/11/1993 in causa Guardabascio).

Su questa scia, è possibile affermare che il procedimento conseguente alla domanda di riparazione per l’errore giudiziario ha natura di procedimento civile inserito in una procedura innanzi al giudice penale (Cass. Pen., Sez.  4, Sentenza n. 1263 del 09/05/1996, in causa Citarella; Cass. Pen, Sez.  4, Sentenza n. 23630 del 02/04/2004, in causa Cerminara).

Sul punto le Sezioni unite, affrontando la questione della soccombenza in relazione all’imputazione delle spese del giudizio, hanno affermato che <<il criterio che deve guidare l'interprete in assenza di una specifica statuizione in subiecta materia deve essere quello della soccombenza, tratto dal citato articolo 91 del codice di rito civile, il quale stabilisce questa regola fondamentale, da osservare nell'ambito di ogni procedimento giurisdizionale, ogniqualvolta si sia in presenza di un effettivo contrasto d'interessi tra le parti in causa (…) La peculiarità del procedimento di cui all'art. 315 cod. proc. pen. (e ciò vale anche per la riparazione dell’errore giudiziario n.d.r.) è stata individuata nell’ispirazione solidaristica e nella connotazione pubblicistica dell'istituto, che assolve a finalità di riequilibrio ed in parte di compenso per la perdita della libertà (per l’ingiusta condanna nell’errore giudiziario, n.d.r.) a prescindere da un fatto illecito.  Reputa il collegio che la tesi esposta sia condivisibile anche se occorre qualche puntualizzazione. La particolarità del procedimento ed il suo inserimento nel codice di procedura penale non escludono che esso presenti pur sempre anche estremi di carattere civile. Ne deriva che l'assenza di statuizioni in ordine al regolamento delle spese nel duplice profilo menzionato trova la sua disciplina più che nell'art. 541 cod. proc. pen., che attiene al diverso tema delle spese relative all'azione civile, nell'art. 91 cod. proc. civ.>> (Cass. Pen., Sez. U. Sentenza n. 34559 del 26/06/2002, in causa De Benedictis).

L’applicazione, a questi procedimenti, delle norme processuali civili, al netto di quelle che disciplinano l’onere probatorio e che la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto pacificamente applicabili, è stata riconosciuta anche con riferimento all’evento morte che abbia colpito la parte interessata, dopo l’esercizio dell’azione di riparazione in sede penale.

In proposito, è stato affermato che gli eredi di colui che abbia proposto la domanda di riparazione sono legittimati a proseguire la causa in caso di decesso dell'interessato nelle more del giudizio, dovendo trovare applicazione, per il carattere patrimoniale del “petitum”, la disciplina processualcivilistica, che ricollega l’estinzione del processo non alla morte della parte, ma alla mancata prosecuzione o riassunzione in termini dello stesso da parte dei successori aventi diritto (Cass. Pen., Sez.  3, Sentenza n. 46386 del 17/09/2019, in causa Stagno).

Nell’affermare il predetto principio, la Corte di cassazione ha dato continuità all’indirizzo secondo il quale, <<nel settore penale, l'estinzione del processo si verifica solo a seguito della morte dell'imputato (art. 150 c.p. e 69 c.p.p.) sicché collegare tale effetto anche alla morte dell'ingiustamente detenuto (o dell’ingiustamente condannato, n.d.r.) significa introdurre una causa di estinzione non prevista dalla legge. Ciò sarebbe ammissibile se in tal senso disponesse il diritto processuale civile, ma così non è: l'evento morte non provoca l'estinzione ma l'interruzione del processo (art. 300 c.p.c.) in attesa che esso venga proseguito dai successori aventi diritto (che del resto hanno diritto a costituirsi parte civile nel processo penale: art. 74 c.p.p.); è la mancata prosecuzione o riassunzione in termini che provoca l'estinzione del processo (art. 305 c.p.c.). È questa la disciplina applicabile al caso di specie, in cui, morto l'istante nelle more del giudizio di equa riparazione, questo è stato proseguito dai suoi eredi. Invero, l'interesse pubblico sotteso a tale procedimento - l'equo indennizzo per l'ingiusta privazione della libertà personale (o per l’errore giudiziario, n.d.r.)  trovando la sua fonte primaria nella stessa Costituzione - non toglie, tuttavia, come più volte rilevato da questa Corte (di recente, Cass. 9.5.1996, Citarella, CED 206375; 3.2.1998, Gulli), che, avendo il petitum carattere economico, la disciplina, ancorché inserita per ragioni di opportunità e di economia nel codice di procedura penale, debba seguire, ove non diversamente disposto o esigito dalla natura comunque speciale del procedimento, le norme processuali civilistiche>> (Cass. Pen., Sez.  4, Sentenza n. 268 del 22/01/1998, in causa De Rachewiltz).

Da tutto ciò si deduce come la giurisprudenza di legittimità - attesa la natura di tali giudizi (giudizi civili devoluti per ragioni di opportunità alla giurisdizione penale in considerazione dei risvolti pubblicisti che pure essi hanno) - abbia sovente applicato le disposizioni del processo civile al procedimento di riparazione, sebbene con lo sbarramento che non sia diversamente disposto o richiesto dalla natura comunque speciale del procedimento.

La medesima operazione deve essere compiuta, compatibilmente alla natura speciale del procedimento di riparazione (che è pur sempre un procedimento civile trapiantato in quello penale), con riferimento alle norme processuali civili che abilitano la parte ad azionare il rimedio della revocazione della sentenza civile.

Siccome allorquando è stata introdotta nel codice di procedura penale l’impugnazione straordinaria ex art. 625 bis c.p.p. il legislatore aveva di mira un rimedio esperibile nei confronti delle regiudicande penali (e da qui il riferimento al “condannato”), delle due l’una: o si ritiene che, per i procedimenti di riparazione, le norme del codice di rito civile (artt. 391 bis ss. c.p.c.) si applicano in toto,  perché il codice di procedura penale dispone sì diversamente ma solo per le regiudicande penali (e non per quelle civili trapiantate nel procedimento penale) o si ritiene che, nei casi in esame, ossia nei procedimenti di riparazione, trattandosi comunque di procedimenti civili, il legislatore, nell’art. 625 bis c.p.p., minus dixit quam voluit, nel senso cioè di non aver precluso alle parti il ricorso all’impugnazione straordinaria quanto ai procedimenti civili devoluti alla giurisdizione penale sia pure limitatamente ai casi consentiti dal codice di rito penale. In questo senso, nei procedimenti di riparazione, non tutti i casi di revocazione della sentenza civile sarebbero ammissibili ma solo quelli rientranti (ex art. 395, comma 1, n. 4) c.p.c.), per la specialità del procedimento, nel perimetro disegnato dall’art. 625 bis c.p.p.

In entrambi i casi, dunque, la parte ricorrente sarebbe legittimata a ricorrere ex art.  625 bis c.p.p. e/o artt. 391 bis e ss. c.p.c.

Certo, si potrebbe tenere fermo il riferimento al segno linguistico ex art. 625 bis c.p.p. (ossia al “condannato” inteso come il soggetto che abbia esaurito tutti i gradi delle impugnazioni ordinarie e rispetto al quale si è formato un giudicato di condanna su una imputazione penale) e, quindi, ritenere che tutti coloro che non abbiano tale status non sarebbero affatto legittimati a ricorrere ex art. 625 bis c.p.p. ma, in tal caso, si potrebbe porre una questione di legittimità costituzionale.

1.c. Prima che il legislatore introducesse nel codice di procedura penale l’art. 625 bis (con la legge 26 marzo, 2001, n. 128 art. 6), la Corte costituzionale, con la sentenza n. 295 del 2000, chiarì, pur dichiarando inammissibile la questione di legittimità costituzionale per ragioni non intaccanti il merito, come spettasse <<alla Corte di cassazione, nel compiuto svolgimento della propria funzione di interpretazione adeguatrice del sistema, individuare all’interno di esso, ed eventualmente proprio nell’ambito dell'istituto previsto dal citato art. 130, lo strumento più idoneo a porre rimedio all'evidenziato tipo di errore percettivo (a purgare il quale, nel giudizio civile di cassazione, soccorrono ora gli artt. 391-bis e 395 del codice di procedura civile) ed a garantire così il diritto della parte a fruire del controllo di legittimità e l’effettività del giudizio di cassazione>>. 

L’art. 625 bis c.p.p. ha disciplinato la materia attribuendo al solo condannato la legittimazione alla proposizione dell’istanza.

Stando al diritto vivente, significativamente riassunto nella sentenza delle sezioni Unite Nunziata (Sez. U, Sentenza n. 13199 del 21/07/2016), il ricorso straordinario per errore di fatto, quale mezzo straordinario di impugnazione, costituisce un’eccezione all'inoppugnabilità delle decisioni della Corte di cassazione, tanto che la giurisprudenza di legittimità ne ha circoscritto, salvo opportuni temperamenti, il ricorso a quelle decisioni che consentono il passaggio in giudicato della sentenza o del decreto penale di condanna.

Conseguentemente, sin dalle prime pronunce sull’ambito di applicazione dell'art. 625 bis c.p.p., la Corte di cassazione ha affermato che le disposizioni de quibus non sono suscettibili di applicazione analogica e non possono essere estese ai casi non espressamente previsti dalla legge (Sez. U, n. 16103 del 27/03/2002, in causa Basile; Sez. U, n. 16104 del 27/03/2002, in causa De Lorenzo). In questo modo, insistendo sulla natura della normativa e sul suo carattere tassativo, si è escluso che il ricorso straordinario per errore di fatto fosse proponibile contro le decisioni adottate nei procedimenti incidentali de libertate, in cui non si pronuncia alcuna condanna. Si è, quindi, affermato che il ricorso straordinario può avere ad oggetto soltanto le sentenze di condanna e che l’estensione a provvedimenti emessi all’esito di procedimenti incidentali è preclusa dal divieto di interpretazione analogica, precisando, in particolare, che le decisioni con cui la Cassazione definisce le procedure incidentali costituiscono giudicato allo stato degli atti e, come tali, non sono munite del carattere dell’irrevocabilità (Cass. Pen., Sez. U, n. 16103 del 27/03/2002, in causa Basile; Cass. Pen., Sez. 2, n. 11741 del 19/02/2008, in causa Testa; Cass. Pen., Sez. 4, n. 22497 del 03/05/2007, in causa Cinelli; Cass. Pen., Sez. 1, n. 35614 del 25/09/2002, in causa Calone).

In tal modo, l’ambito applicativo del ricorso ex art. 625 bis c.p.p. è stato delimitato, nel senso che solo i provvedimenti che rendono definitiva una sentenza di condanna sono suscettibili di essere impugnati, dovendo intendersi per sentenze di condanna, tenuto conto che si tratta di pronunce del giudice di legittimità, quelle di rigetto o che dichiarano l'inammissibilità di ricorsi proposti contro sentenze di condanna.

Presupposto imprescindibile per la legittimazione ad esperire l'impugnazione straordinaria sarebbe, quindi, lo status di condannato, inteso come il soggetto che abbia esaurito tutti i gradi del sistema delle impugnazioni ordinarie e rispetto al quale si sia formato il giudicato.

Pertanto, in applicazione di questi principi, la giurisprudenza di legittimità ha negato la ricorribilità straordinaria per errore di fatto, oltre che ai provvedimenti emessi in fase cautelare, alle decisioni in materia di misure di prevenzione (Cass. Pen., Sez. 6, n. 2430 del 08/10/2009, dep. 2010, Cacucci) e di confisca (Cass. Pen., Sez. 5, n. 43416 del 17/07/2009, Seidita), nonché a quelli che dichiarano inammissibile una istanza di rimessione del processo (Cass. Pen., Sez. 6, n. 9015 del 18/02/2010, Derlinati); alle decisioni di consegna per un mandato di arresto europeo e in genere ai provvedimenti in materia di estradizione (Cass. Pen., Sez. F, n. 34819 del 02/09/2008, Mandaglio); a quelle che condannano la parte civile alle spese e al pagamento di una somma di denaro in favore della cassa delle ammende, essendo lo strumento di impugnazione ex art. 625 bis c.p.p. riservato dalla legge al procuratore generale e condannato, nozione quest’ultima in cui non rientra la parte civile (Cass. Pen., Sez. 5, sentenza n. 38780 del 17/05/2017).

Nei predetti casi, l’inapplicabilità del rimedio straordinario fonda sul fatto che si tratta di pronunce le quali non hanno come destinatario un condannato.

Tuttavia, la giurisprudenza di legittimità ha negato il ricorso straordinario anche in relazione a pronunce emesse dopo che la sentenza di cognizione è divenuta irrevocabile: così, in materia di indennizzo per ingiusta detenzione (Cass. Pen., Sez. 3, n. 6835 del 28/01/2004, Mongiardo; Sez. 3, n. 1265 del 11/12/2008, Gullì), di riabilitazione (Cass. Pen., Sez. 4, n. 42725 del 03/10/2007, Mediati) e, soprattutto, in materia di esecuzione (Cass. Pen., Sez. 5, n. 48103 del 22/10/2010, Sarno; Cass. Pen., Sez. 5, n. 2727 del 12/11/2009, Baiguini), dove l’argomento letterale non poteva essere utilizzato, in presenza di soggetti che rivestono lo status di condannati legittimati a proporre il ricorso, tant’è che l’esclusione dall’ambito di applicazione del ricorso straordinario è stata giustificata in parte qua considerando che in tali ipotesi la decisione della Corte di cassazione non perfeziona alcuna fattispecie di giudicato. 

Le Sezioni Unite (Sez. U, n. 28719 del 21/06/2012, Marani), superando un contrasto giurisprudenziale, hanno ridimensionato tale indirizzo interpretativo, riconoscendo la legittimazione a proporre il ricorso straordinario anche per il condannato al risarcimento dei danni in favore della parte civile, che prospetti un errore di fatto nella decisione della Corte di cassazione relativa a tale capo.

Nella sentenza Marani si è evidenziato che la soluzione tendente a limitare il ricorso straordinario alla sola condanna per il capo penale, sarebbe «palesemente eccentrica rispetto al diritto del condannato, anche soltanto per il capo civile, a fruire di un giudizio di legittimità non compromesso dall’errore di fatto», precisando che la locuzione “condannato”, che indica l’ambito applicativo del rimedio straordinario, «non può arbitrariamente scandirsi in ragione del tipo di condanna in capo al soggetto che sia stato sottoposto, come imputato, al processo penale, giacché l’essere stato costui evocato in giudizio tanto sulla base dell’azione penale quanto in forza dell’azione civile esercitata nel processo penale, non può che comportare una ontologica identità di diritti processuali, a meno che la legge espressamente non distingua i due profili», cosa di cui non v'è traccia nel testo della disposizione.

Le Sezioni unite Nunziata, sulla base del complessivo stato della giurisprudenza di legittimità in materia, hanno poi esteso la nozione di “condannato” anche al soggetto titolare della facoltà di richiedere la revisione della condanna, in quanto il rigetto o la dichiarazione di inammissibilità del ricorso contribuisce alla “stabilizzazione” del giudicato, affermando il principio di diritto secondo il quale il ricorso straordinario di cui all’articolo 625 bis del codice di procedura penale può essere proposto dal condannato anche per la correzione dell’errore di fatto contenuto nella sentenza con cui la Corte di cassazione dichiara inammissibile o rigetta il ricorso contro decisione della Corte d’appello che, a sua volta, abbia dichiarato inammissibile ovvero rigettato la richiesta di revisione dello stesso condannato.

Essendo stata la questione già in precedenza affrontata, va allora ricordato, seguendo la ratio decidendi della sentenza Marani, come l’immediato antecedente che influenzò la scelta del legislatore di introdurre l'art. 625 bis c.p.p., fu rappresentato dalla sentenza n. 395 del 2000 della Corte costituzionale, nella quale il Giudice delle leggi, pur dichiarando inammissibile una questione di legittimità costituzionale degli artt. 629 e 630 c.p.p., sollevata in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. nella parte in cui tali norme «non prevedono e non disciplinano la revisione delle decisioni della Corte di cassazione per errore di fatto (materiale e meramente percettivo) nella lettura degli atti interni al giudizio», tracciò alcuni punti fermi che, al momento della  stesura finale del provvedimento normativo,  non furono tradotti dal legislatore e, sino ad  oggi, non sono stati  oggetto, da parte del diritto vivente, di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 625 bis c.p.p., come disposizione diretta ad assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale nei confronti di ogni decisione della Corte di cassazione (non necessariamente emessa nei confronti di una persona condannata, nel significato che il diritto vivente ha inteso assegnare al termine) che abbia i requisiti dell’irrevocabilità, non potendo essere rimossa in alcun modo se non eccependo l’errore di fatto (materiale e meramente percettivo).  

In tale pronuncia, le Sezioni unite Marani hanno opportunamente sottolineato come la Corte costituzionale, dopo aver rievocato le varie decisioni intervenute in materia di errore di fatto commesso dalla Corte di cassazione nel campo del processo civile (in particolare, le sentenze n. 17 del 1986, n. 36 del 1991 e n. 129 del 1995), abbia messo in evidenza che l’impossibilità di far valere un simile errore (materiale o percettivo) si porrebbe in palese contrasto non soltanto con l’art. 3 ma anche con l’art. 24 della Costituzione, per di più sotto uno specifico e significativo aspetto, quale è quello di assicurare la effettività del giudizio di cassazione, affermando che «questa garanzia si qualifica ulteriormente in funzione dell’art. 111 della Costituzione, il quale non a caso prevede che contro tutte le sentenze ed i provvedimenti sulla libertà personale “è sempre ammesso il ricorso in cassazione per violazione di legge”. Ciò sta dunque a significare non soltanto che il giudizio di cassazione è previsto come rimedio costituzionalmente imposto avverso tale tipo di pronunzie; ma, soprattutto, che il presidio costituzionale - il quale è testualmente rivolto ad assicurare il controllo sulla legalità dei giudizio (a ciò riferendosi, infatti, l’espresso richiamo al paradigmatico vizio di violazione di legge) - contrassegna il diritto a fruire del controllo di legittimità riservato alla Corte Suprema, cioè il diritto al processo in cassazione. Da ciò un evidente corollario. L’errore di tipo “percettivo” in cui sia incorso il giudice di legittimità e dal quale sia derivata l’indebita compromissione di quel diritto, deve avere un necessario rimedio».

Gli stessi principi, come si legge nella sentenza Marani, «sono stati poi ulteriormente ribaditi dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 207 del 2009, con la quale è stata dichiarata la illegittimità costituzionale dell'art. 391-bis, primo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui non prevedeva la esperibilità del rimedio della revocazione per errore di fatto, ai sensi dell'art. 395, primo comma, n. 4, del medesimo codice, per le ordinanze pronunciate dalla Corte di cassazione con il rito camerale a norma dell'art. 375, primo comma, n.1, cod. proc. civ. Decisione, quella appena citata, nella quale la Corte, rievocando ancora una volta l'intero percorso della giurisprudenza costituzionale, ha sottolineato come, proprio al lume di quei principi, il legislatore fosse stato indotto ad operare un “riallineamento” degli istituti processuali in tema di errore di fatto della Corte di cassazione, proprio attraverso l'innesto, nel codice di procedura penale, dell'art. 625-bis. Ciò a denotare, dunque, non soltanto il primario risalto dei valori che quei principi chiamavano in causa, ma anche a dimostrazione della sostanziale identità delle garanzie processuali che ne devono presidiare la effettività, a prescindere dalla sede - penale o civile - in cui l'eventuale errore di tipo percettivo della Corte di cassazione si sia trovato ad incidere.

In tale prospettiva, dunque, la disciplina approntata dal legislatore attraverso il ricorso straordinario di cui all'art. 625-bis cod. proc. pen., lungi dall’apparire come una soluzione semplicemente compatibile con il dettato costituzionale, finisce per rappresentare una scelta, per molti aspetti, costituzionalmente imposta, nel quadro di un fascio di diritti che coinvolge, ad un tempo, il principio di uguaglianza, quello di effettività della difesa in ogni stato e grado del processo, il diritto alla riparazione degli errori giudiziari, nonché quello al controllo effettivo in sede di legittimità di tutte le sentenze».

Ne consegue, seguendo il pensiero delle alte Corti italiane, che l’errore percettivo della Corte di cassazione, dal quale sia derivata l’indebita declaratoria di rigetto o di inammissibilità del ricorso (con la conseguenza di determinare l’irrevocabilità della pronuncia oggetto di impugnativa) rappresenta eventualità tutt’altro che priva di conseguenze per il rispetto dei principi costituzionali coinvolti (nella specie artt. 3 e 24, commi primo e quarto, Cost.). 

Siffatta evenienza si verifica proprio con riferimento al procedimento per la riparazione dell’errore giudiziario, in quanto la pronuncia del Giudice di legittimità stabilizza il provvedimento emesso dal giudice di merito, rendendolo irrevocabile, perché l’azione riparatoria non può essere più riproposta in quanto soggetta a un termine di decadenza (art. 645, comma 1, c.p.p.), spirato il quale, per effetto dei tempi necessari per la definizione del procedimento riparatorio, il diritto alla riparazione dell’errore giudiziario non può essere più azionato. 

Deve pertanto ritenersi costituzionalmente illegittimo, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., l’art. 625 bis, primo comma, c.p.p., nella parte in cui non prevede la esperibilità del ricorso straordinario per errore materiale o di fatto, per i provvedimenti pronunciati dalla Corte di cassazione che determinino l’irrevocabilità del provvedimento con il quale è stata respinta la domanda di riparazione dell’errore giudiziario, risultando violato il diritto di difesa, qualora l’errore di fatto non fosse suscettibile di emenda, per essere stato commesso dal giudice cui spetta il potere-dovere di nomofilachia, e ciò vale tanto nel caso in cui la Corte di cassazione sia incorsa in errore nel controllo di atti del processo, quanto nell’ipotesi in cui ciò sia avvenuto nella lettura di atti interni al suo giudizio. Se non fosse possibile porre rimedio all’errore “percettivo”, dal quale deriva l'indebita declaratoria di rigetto del ricorso, si verificherebbe un automatico e palese contrasto con l’art. 3 e con l'art. 24, commi primo e quarto, Cost., sia sotto lo specifico aspetto di assicurare la effettività del giudizio di cassazione e sia sotto il profilo della lesione del diritto, a copertura costituzionale, alla riparazione dell’errore giudiziario, dovendo il legislatore ordinario, tra le condizioni e i modi di esercizio di tale diritto, prevedere necessariamente anche la possibilità per il titolare di rimuovere il pregiudizio derivante da una decisione definitiva che neghi la pretesa azionata sulla base di un errore revocatorio nella lettura degli atti del processo a quo e/o di quelli interni al giudizio, in quanto, in questi casi,  lo strumento costituzionale imposto si risolverebbe, qualora siffatti errori non fossero rimuovibili con l’effetto di stabilizzare la “regiudicanda riparatoria”, in una tutela apparente.

Inoltre, il principio di uguaglianza sarebbe ulteriormente vulnerato nel suo significato più sostanziale, perché, insindacabile essendo la facoltà spettante al legislatore di devolvere, tutte le volte in cui vi siano anche interessi pubblicistici da assicurare,  alla giurisdizione penale interessi civili spettanti al cittadino, è tuttavia inibito al legislatore di sottrarre alla persona le tutele delle quali potrebbe avvalersi nella sede propria, in quanto, mentre per l’azione civile esercitata nella sede naturale, all’accertamento dell’errore di fatto soccorre l’art. 395, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., l’art. 625 bis cod. proc. pen. - qualora fosse inteso come riferibile soltanto all’errore di fatto incidente su una statuizione di condanna su capi penali o civili del provvedimento impugnato con esclusione del procedimento di riparazione dell’errore giudiziario, quale procedimento civile devoluto alla giurisdizione penale per ragioni di mera opportunità - irragionevolmente precluderebbe a chi si affermi titolare del diritto alla riparazione qualsiasi possibilità di far valere l’errore di fatto, in ipotesi decisivo, che si annidi in una pronuncia della Corte di cassazione.




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