Varie  -  Costanzo Sara  -  29/09/2008

TRA FAMIGLIA DI ORIGINE E FAMIGLIA ADOTTANTE: LA DOPPIA APPARTENENZA DELL' ADOZIONE MITE - Sara COSTANZO

La prassi dell"adozione mite è stata prospettata e sperimentata dal Tribunale per i Minorenni di Bari, presieduto dal dott. Francesco Paolo Occhiogrosso. Tale procedimento (il cui iter è stato di recente puntualizzato dagli stessi giudici pugliesi) trova applicazione a favore di minori il cui affido familiare si sia protratto oltre i termini previsti e relativamente ai quali, pur non potendosi configurare una condizione di abbandono in senso stretto, sarebbe comunque pregiudizievole il rientro nella famiglia di origine. Questa condizione fa riferimento a situazioni in cui l"ambiente familiare, pur non essendo in grado di accogliere e soddisfare gran parte dei bisogni essenziali del minore, è tuttavia capace in tal senso di un qualche apporto positivo. Tale tipo di inadeguatezza si presume inoltre insensibile ad eventuali miglioramenti e dunque destinata a restare sostanzialmente identica nel tempo.
Lungi dall"essere pacificamente accettata, l"adozione mite non è stata (soprattutto dalle associazione operanti nel settore) esente da critiche e riserve. Va dunque precisato che tale articolo (nonostante il tema trattato sia senza dubbio tra quelli in tal senso "caldi") non intende prendere posizioni "pro" o "contro" questo tipo di prassi ma – a partire dalla realtà della sua applicazione- esaminare alcuni temi psicologicamente rilevanti.

Il provvedimento di adozione mite. A differenza di quanto accade nel caso di adozione legittimante, l"adozione mite, pur dando luogo ad uno stabile e duraturo rapporto con l'adottante, prevede (tra l"altro) che sia mantenuta – nei tempi e nei modi stabiliti dal Tribunale- una continuità di rapporto anche con la famiglia di origine. Questa particolare condizione di "doppia appartenenza" appare- da un punto di vista psicologico (ma non solo)- oltremodo interessante ed apre il campo ad una serie di considerazioni aventi ad oggetto le relazioni che legano tra loro i soggetti coinvolti. Nella recente prassi del Tribunale di Bari "qualora l"affidamento familiare superi la scadenza prevista ed anzi si protragga per vari anni oltre tale termine, gli affidatari del minore vengono invitati a presentare –sempre nel caso in cui il rientro nella famiglia di origine non risulti praticabile- una domanda di adozione mite come dimostrazione della loro disponibilità a modificare la qualità del rapporto già da tempo esistente con il minore". Con il provvedimento di adozione (mite) entrambe le relazioni familiari in cui il minore è coinvolto vedono dunque cambiare "il titolo" giuridico che definisce ed organizza le loro interazioni: la famiglia affidataria diventa adottante "in un modo speciale" e quella di origine resta tale ma in una modalità anch"essa necessariamente diversa.
Nello scorrere degli eventi, il minore passa dunque da un gruppo familiare ad un altro e da un "tipo" di appartenenza (affido) ad uno differente (adozione).
Anna Oliviero Ferraris (1999) ha sottolineato la necessità dei bambini di avere punti di riferimento (sia fisici che psicologici) il più possibile chiari e facilmente individuabili. Questa condizione ha un ruolo importante nella costruzione della senso di autostima, di sicurezza e identità e –almeno durante una prima fase della vita- è molto legata alla qualità delle relazioni familiari. Sotto questo profilo, il provvedimento relativo all"adozione mite ben potrebbe rappresentare (in linea con quanto affermato dallo stesso Tribunale per i Minorenni di Bari secondo il quale "viene posto termine a quella condizione di relazione familiare precaria, consistente nell"affidamento "sine die", che crea quella situazione nota con l"espressione "bambini nel limbo") un momento di chiarificazione del mondo relazionale del minore. Con una precisazione. al di la del "tempo" della definizione giuridica, sotto il profilo intrapsichico e relazionale questi passaggi possono essere piuttosto lenti, in molti casi verificarsi solo in apparenza o andare incontro (specialmente in concomitanza di particolari eventi o fasi del ciclo di vita) a rigurgiti emozionali. Benché la considerazione possa apparire scontata, questo intrecciarsi del "tempo" giuridico e del "tempo" psicologico è un elemento di fondamentale importanza in tutti quei procedimenti che "toccano" persone e relazioni. La semplice definizione giuridica è dunque elemento importante ma non sufficiente ad eliminare le condizioni confusive (cosi come ad esempio il divorzio giuridico non coincide necessariamente con quello emotivo). In quest"ottica, provvedimento giuridico e nuove definizioni intra e interpsichiche appaiono piuttosto collegate in un senso in cui ognuna è causa e al tempo stesso possibile effetto dell"altra.
Relativamente all"adozione mite e nel senso appena esposto, possiamo dunque individuare alcuni aspetti di non facile definizione: la tipologia di legame (l"adozione mite prevede la compresenza di legami che da un certo punto di vista richiedono – o almeno tendono a richiedere- l"esclusività), la definizione di ruoli, aspettative e funzioni (la natura stessa della prassi -unita alla relativa novità della sua applicazione- rendono difficile ritrovare schemi " a priori" in grado di orientare in tal senso i protagonisti coinvolti), il contemporaneo svolgersi di due diverse storie familiari, le relazioni che sottendono i provvedimenti e i consensi.

La famiglia adottante e la famiglia di origine. Affido e adozione muovono dalla scelta volontaria di prendersi cura di un figlio non proprio. Questa tipologia di evento rientra tra quelli che la psicologia ad indirizzo sistemico (Malagoli Togliatti, 2002) definisce paranormativi. Eventi cioè che "anche se frequenti, non sono del tutto prevedibili. Gli eventi paranormativi, proprio perché inattesi, mettono la famiglia di fronte a difficoltà maggiori rispetto agli eventi normativi di cui culturalmente si possiede lo schema operativo su come affrontarli". La modalità con la quale la famiglia affronta questo particolare evento, dipende inoltre dal significato che gli viene attribuito (a sua volta strettamente legato alle aspettative, alle regole della famiglia e del sistema socioculturale, a quanto viene tramandato da generazione in generazione) e dalle risorse (personali, familiari e sociali) di cui si dispone.
Come è facile immaginare, nel caso di adozione mite (evento non solo paranormativo ma "culturalmente" ancora relativamente nuovo) questi aspetti assumono – fin dalle prime fasi dell"iter adottivo- alcune connotazioni particolari.

Cosi come la nascita di un figlio naturale, la decisione di accogliere un figlio non proprio comporta la creazione da parte della coppia e della famiglia allargata tutta di uno spazio"fisico e mentale" capace di accogliere il nuovo venuto.
Molti autori hanno sottolineato (Antonio D"Andrea, 1999) come spesso, nella fase preadottiva, sia frequente il desiderio di un bambino c.d. de- storificato: un "figlio" che non abbia alle spalle vissuti (che spesso si sa essere dolorosi e difficili) con i quali doversi confrontare; un"esperienza in ultima analisi più simile alla genitorialità naturale e relativamente alla quale il legame con il bambino sembra potersi stabilire con maggiore facilità.
Nel tipo di adozione in esame questo possibile desiderio è di per se irrealizzabile fin da principio: in relazione al passato e –cosa importante- ad un futuro che "da accordo" prevede il doveroso e continuo confronto con la storia del bambino. Ma non solo. Questa storia, lungi dal vivere nella memoria o da ricercarsi nell"immaginario (come spesso accade nel caso di adozione legittimante), si alimenta di rapporti concreti e tangibili, di incontri (seppur pochi) e di relazioni in corso.

Nel caso dell"adozione mite, dunque, il prendersi cura di un bambino nato da alti non è che un aspetto della scelta e della riprogettazione: in tale decisione rientra infatti (anche) la consapevolezza (e le relative responsabilità) della necessaria presenza della famiglia naturale del bambino e le conseguenze (pratiche ma soprattutto emotive) che a questo aspetto sono legate.
Ma non solo. Pur non potendo esemplificare a priori il concreto atteggiarsi dello stato di "semiabbandono" dal quale origina il provvedimento di adozione, ben possiamo immaginare che questo sia legato anche ad una sorta di inadeguatezza a gestire il vissuto emotivo del minore. Tale condizione si traduce nella assenza di uno spazio e di un tempo in cui il bambino vede contenuto e restituito il senso di ciò che accade. La famiglia adottiva si trova pertanto ad impersonare per forza di cose il ruolo del sistema forte: quello in ultima analisi con maggiori possibilità (e dunque responsabilità) di offrire al bambino una sorta di luogo sicuro all"interno del quale accogliere, elaborare ed integrare i vissuti legati allo scorrere degli eventi. Eventi che- come già detto- nel caso di adozione mite ricomprendono anche le conseguenze emotive e relazionali che sono legate alla relazione in corso con la famiglia di origine.
La maggior parte degli studi sull"adozione si sono concentrati sul bambino e sulla famiglia adottante: poche attenzioni sono state invece dedicate alla condizione della famiglia di origine sia nella fase preadottiva (quindi come condizioni che portano allo stato di abbandono) sia nel "dopo" adozione.
Diversi autori hanno evidenziato in tal senso il peso emotivo legato alla "perdita" di un figlio e i sensi di colpa e di inadeguatezza che permeano il vissuto. A questi si può aggiungere la difficoltà di elaborare una assenza che nasce da una condizione (l"adozione) per sua natura è definitiva e spesso la mancanza di alcun tipo di supporto (dai membri della famiglia allargata e da parte delle istituzioni).

Relativamente alla famiglia di origine possiamo dire che il provvedimento di adozione mite comporta il verificarsi di (almeno) due aspetti rilevanti: la definitiva consacrazione del rapporto come caratterizzato da uno stato di semiabbandono permanente (con tutti gli aspetti emotivi legati a siffatta definizione) e il contemporaneo strutturarsi (anzi proprio a partire da questo) di una tipologia di interazione diversa e modulata (almeno nei suoi aspetti formali) da terzi (Servizi, Tribunale ecc.).
In questo tipo di adozione inoltre i suddetti vissuti emozionali si incontrano con la particolare condizione della necessaria convivenza di storie e rapporti cui abbiamo accennato in precedenza. Come a dire che la perdita (almeno da un certo punto di vista ormai definitiva) deve essere elaborata nella continuità di una relazione (quella con il figlio) e di una presenza (la famiglia adottante) che è al tempo stesso simbolo della inadeguatezza di chi "avrebbe dovuto e non è stato in grado" e fonte di benessere per il bambino.
Ma non solo. L"idea stesa di permanenza della condizione di semiabbandono (idea che ricordiamo implica la irreversibilità se non della condizione almeno delle conseguenze che a partire da essa si sono prodotte) non può non avere effetti sulla motivazione ad un possibile cambiamento e (cosa auspicabile) ad una sempre maggiore funzionalità dei contatti in questo caso ancora possibili con il bambino.


Alla ricerca di nuove identità. Nel caso di adozione mite particolarmente importante è la ricerca di nuova e diversa identità familiare. Tale ricerca muove "da" e "attraverso" una storia in cui convergono eredità familiari diverse e un mondo (Servizi, Tribunale) che ha contribuito e che contribuisce alla narrazione. Essa non riguarda dunque solo il minore adottato ma tutti i soggetti coinvolti: la famiglia adottante, che si trova ad essere la "nuova" famiglia (con tutti i problemi dunque che ordinariamente accompagnano l"adozione) e al tempo stesso (nei termini prima specificati) "l"altra" famiglia; la famiglia di origine, privata di quasi tutti gli aspetti normalmente legati alla genitorialità e ora "altra" rispetto al nucleo adottante; il minore, soggetto "debole" la cui identità personale è ancora in formazione ed inevitabilmente ancora fortemente legata ai "noi" familiari cui appartiene. Come è facile immaginare, in tale ricerca di una nuova identità familiare tutti questi "sistemi" sono strettamente legati gli uni agli altri: un ruolo di primo piano è dunque riservato alla qualità delle relazioni esistente tra gli stessi. Quanto detto trova una sorta di corrispondenza nel principio di mitezza giuridica che è alla base dell"istituto dell"adozione mite."Il richiamo alla mitezza di tale modello di adozione comporta che la normativa riguardante la sua applicazione debba essere attuata, basandosi sulla comunicazione da parte dei servizi e dei giudici con le persone, adulti e minori, avendo come caratteristica fondamentale l"ascolto e puntando ad ottenere il consenso e la collaborazione delle persone coinvolte, minore compreso, alle decisioni che si assumono" (Tribunale per i Minorenni di Bari). Al di la dei consensi ottenuti (che possono riguardare specifici provvedimenti o essere comunque legati ad uno spazio temporale determinato) ciò che va dunque "curata" – quale fonte di una generale collaborazione e di una possibilità di consensi in itinere- è la qualità delle relazioni tra i protagonisti della vicenda.
Va precisato che quando parliamo di relazione ci riferiamo non tanto alla concretezza di incontri (che possono anche mancare o essere sporadici nel tempo) quanto ad una sorta di condizione interiore che definisce il se e il come dell"altro. Tale modalità – che può andare dagli estremi del "far finta che l"altro non esiste" alla situazione in cui tutto il bene o il male dipende o è addebitato alla presenza dell"altro- ha una gamma pressoché infinita di connotazioni ed è una realtà psicologica dinamica e in continua evoluzione.
Restringendo il campo alle famiglie coinvolte, il principio esposto dal dott. Occhiogrosso, apre dunque il campo a diverse considerazioni: un processo di integrazione come valorizzazione delle diverse realtà relazioni presenti nella vita del bambino; l"importanza della qualità delle relazioni coinvolte; il ruolo attivo del minore.

Il bambino tra due storie. Ma cosa comporta da un punto di vista psicologico la convivenza tra due diverse storie familiari? Benché il discorso sia molto complesso, un aspetto della questione riguarda senz"altro quello che viene definito "lascito intergenerazionale".
Secondo questa visione la famiglia è un "sistema emozionale che coinvolge almeno tre generazioni" (Carter e Mc Goldrick, 1989) e che ha una sua peculiare storia che è diversa dalla somma delle storie dei singoli membri che la compongono.
Ogni famiglia ha dunque un proprio bagaglio "che si tramanda attraverso le generazioni. […] Il passaggio intergenerazionale è un processo che comprende la trasmissione dell"intera gamma delle tradizioni, valori e comportamenti legati alla famiglia" (Malagoli Togliatti, 2002).
Sia la famiglia originaria che quella affidataria hanno dunque un lascito per il minore. Lascito che -seppur con valenze e significati diversi-entra a pieno titolo nella costruzione della identità dello stesso, nel senso di se e della sua autostima. Nello svolgersi degli eventi inoltre, la modalità dell"appartenenza entra nel processo che porta al diventare adulti. Come a dire che solo se si è appartenuti veramente ci si potrà differenziare dalla propria storia in un modo che consenta di portarla dentro e al tempo stesso di essere "diversi".
Ma non solo. Nell"ottica della famiglia come sistema che "coinvolge almeno tre generazioni" il fenomeno della adozione mite coinvolge tutti i componenti del sistema: della famiglia di origine in quanto il "fallimento" della possibilità di prendersi cura del minore – cosi come ciò che di positivo ancora possono dare- è situazione che riguarda non solo la famiglia nucleare ma quella allargata tutta; la famiglia adottante in quanto il bambino entra in una famiglia complessivamente considerata. Ogni generazione del sistema famiglia ha dunque un ruolo (che va necessariamente considerato, tutelato) nella vicenda e può o meno favorire dinamiche relazionali funzionali per il minore. Particolarmente interessante in questo contesto potrebbe dunque essere il ruolo dei nonni (acquisiti e biologici). L"importanza di questo rapporto, da tempo riconosciuta dalla giurisprudenza, è stata di recente ribadita (in un senso che sembra riconoscerla al di la dello specifico contesto di crisi coniugale) dallo stesso codice civile. In questo bisogno di contato e ricerca della propria e identità, la generazione anziana più di tutte può infatti costituire per il minore il serbatoio di una appartenenza passata e la fonte di conoscenza di una appartenenza che va delineandosi.
Quanto detto (che trova una delle sue forme giuridicamente visibili nella questione del cognome da attribuire al minore adottato) si specifica ovviamente nella concretezza e unicità di ogni situazione: il "peso" delle diverse storie e identità familiari sarà dunque diverso a seconda di una molteplicità di fattori e assolutamente da valutare per ogni caso.

Il bambino tra famiglia di origine e famiglia adottante. Nella suo svolgersi ideale, questo processo di collaborazione e consenso dovrebbe portare ad una integrazione in cui le diversità sono in un certo senso valorizzate e in cui vuoti e mancanze trovano la strada per un senso altro.
Di tale ingranaggio relazionale inoltre (in un" ottica non nuova alla psicologia soprattutto ad indirizzo sistemico relazionale) il minore è parte attiva. Secondo Maria Rosaria Menafro (2006) il bambino è portatore di una specifica competenza relazionale i"ha potenzialità sufficienti da renderlo attivo e partecipe della vita familiare […] è depositario di verità e segreti, di storie e miti lontani, di affetti ed emozioni sia proprie sia provenienti da altri componenti delle "famiglie" […] ha una sua padronanza relazionale e una spontanea tendenza ad interagire con il mondo, rispettando o modificando le regole preesistenti o introducendone di nuove".
Il minore coinvolto nel procedimento di adozione mite è dunque portatore di una "competenza specifica" che va considerata, valorizzata e accompagnata da una informazione adeguata. Ma non solo. Gli adulti di riferimento hanno il doveroso compito (con responsabilità diverse) di tutelare questa sorta di consapevolezza: sia dal rischio di una eccessiva responsabilizzazione riguardo alle decisioni da prendere (specie in casi spesso caratterizzati da una "adultizzazione" precoce) che da ostilità e indifferenze più o meno manifeste tra i soggetti coinvolti. Parafrasando Whitaker possiamo affermare che il minore si relaziona alle relazioni (ricordiamo da un punto di vista che poco ha a che fare con la concretezza dei rapporti) esistente tra i soggetti coinvolti (famiglia adottante, famiglia biologica, servizi, giudici) Quanto più questa relazione è funzionale tanto più gli altri saranno accessibili al bambino in un modo che sia per lui sostanzialmente evolutivo.
In quest"ottica, è facile immaginare che condizioni emotivamente estreme sono sicuramente poco funzionali ai bisogni di integrazione di cui il minore è portatore. Cosi ad esempio il bambino può arrivare a provare sensi di colpa (nel manifestare o anche solo nel provare sentimenti per una famiglia piuttosto che per l"altra), paura di deludere gli adulti coinvolti e debiti di lealtà (verso chi si prende cura o verso chi lo ha generato) che lo imprigionano in scelte obbligate. Il minore potrebbe cosi rifiutarsi di vedere la propria famiglia di origine per non recare un dispiacere ai nuovi genitori o viceversa (specie durante l"adolescenza) voler intensificare i rapporti con la famiglia biologica che ha sentito di aver egli stesso abbandonato
Allo stesso modo si può immaginare che quanto più la famiglia adottante sentirà solido il legame con il "figlio", tanto meno vedrà con timore la possibile influenza della famiglia di origine e sempre più riesca invece a valorizzarne l"apporto positivo. E viceversa. Quanto più la famiglia di origine vedrà comunque preservato quella che è l"identità del legame che la unisce al "figlio", tanto più accetterà (e sarà in grado di accettare) il reale contributo della famiglia adottante. Va a questo punto ricordato che, come dicevamo, la famiglia adottante vede attribuirsi il ruolo di famiglia "adeguata". In un senso piuttosto ideale essa dovrebbe dunque essere capace di offrire al bambino modelli familiari diversi (e da qui la possibilità di una diversa immagine di se) che rispettano e in un certo senso preservano anche quelle dell"altra famiglia. Immagini queste ultime- ricordiamo- che si alimentano e si trasformano nella continuità –seppur saltuaria e forse da alcuni punti di vista proprio perché saltuaria- dei rapporti.
Va da ultimo precisato (ma il tema richiederebbe un approfondimento a parte) che il buon funzionamento della rete "esterna" (servizi, sistema giudiziario) diventa nel caso dell"adozione mite una assoluta necessità. I servizi, dunque, dovrebbero essere non solo garanti ma anche (e soprattutto) promotori di quella cultura della informazione e collaborazione che è alla base del buon esito della prassi. In quest"ottica, la ricerca di una diversa identità non può non riguardare anche loro: sia come tipologia di intervento (teso " a ricercare in modo costante e insistito il consenso di tutte le parti per realizzare le soluzioni più adeguate", Tribunale di Bari) sia come modalità di azione. In questo senso appare quanto mai importante non solo la valorizzazione delle differenze (spesso notevoli, di vedute e di formazione) ma anche la possibilità di sciogliere i vuoti e le mancanze (legate al doversi comunque muovere entro i limiti di ciò che giuridicamente permesso o che è organicamente possibile) in un senso e in un progetto "altro" specifico di ogni singolo caso. 

Da Famiglia e Minori n.9 - ottobre 2008

 




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