-  Redazione P&D  -  16/02/2009

COLPA MEDICA: RISARCIBILE ANCHE LA PERDITA DI CHANCES - Nicola TODESCHINI

Nel caso discusso dalla sentenza 23846 del 19/05/08 pronunciata dalla III sez. della Cassazione Civile, una signora lamenta il difetto di tempestiva diagnosi di una grave neoplasia al pancreas all’esito di un controllo avvenuto presso un ospedale romano; all’esito di superficiali analisi la paziente, che lamentava forti dolori addominali e lombari viene dimessa con la diagnosi di “bolle d’aria di natura nervosa” mentre, di lì a poco più di un mese, persistendo tale sintomatologia, ed all’esito di esami più approfonditi, risulta il gravissimo quadro di neoplasia.

La paziente quindi si determina a convenire in giudizio l’ospedale romano e l’Ulss dalla quale dipende detto presidio, lamentando l’errore di diagnosi e chiedendo il risarcimento di ogni danno patito ma il Tribunale di Roma, con argomenti non convincenti e fondati su una consulenza d’ufficio altrettanto poco approfondita, rigetta la domanda ritenendo che, pur accertato l’errore di diagnosi, il ritardo che ne sarebbe conseguito non avrebbe evitato la morte certa in considerazione dello stadio avanzato della malattia. Detta pronunzia veniva confermata anche in Corte d’Appello, alla quale la paziente si rivolgeva per riformare la sentenza di I grado; la Corte riteneva ininfluente l’errata diagnosi sia sulla qualità che sulle aspettative di vita della paziente.

La Corte di Cassazione ribalta tale discutibile pronuncia d’appello e, chiarendo che vanno valutate anche le mere perdite di chances non solo di sopravvivenza ma anche di qualità migliore della vita in attesa dell’exitus, sottolinea invece una responsabilità dei medici capitolini alla quale merita d’essere collegato anche il risarcimento del danno.
Anche nell’esperienza di chi scrive non è stato infrequente lamentare importanti riserve su alcune consulenze medico legali, anche di parte, allorchè in discussione vi sia la valutazione della perdita di chances per un’errata diagnosi alla quale segua, solo successivamente, l’esatto inquadramento della malattia e quindi la cura poiché molte di tali consulenze partono da un presupposto tecnico scientifico che mal si adatta alla visione complessiva della responsabilità medica, per un verso e, per l’altro, sono spesso ritenute sufficienti all’organo giudicante per ammettere od escludere dall’accoglimento la domanda avanzata dal paziente.

Quanto al primo profilo, va detto che l’eventuale errore di diagnosi si inserisce in un rapporto contrattuale tra medico e struttura che è ben lungi dall’esaurirsi con la sola prestazione tecnica, in tal caso identificata in una diagnosi, ma si estende al dovere di informare, che deve permeare l’intera prestazione, e deve essere soprattutto finalizzato a consentire al paziente di determinarsi in modo autonomo alla cura.
In presenza quindi di un errore di diagnosi, sul quale alcuno ha avanzato contestazioni, pare incredibile che non sia ricollegato l’accoglimento della domanda di accertamento della responsabilità e l’individuazione di un danno poiché, all’evidenza, anche un sol giorno di ritardo nella diagnosi di una malattia grave è evidente come faccia perdere significative chances al paziente non solo di ricevere adeguata informazione ma anche di determinarsi all’eventuale diagnosi infausta organizzando sia la propria vita che il proprio percorso di cura in modo adeguato; la responsabilità non può infatti ridursi esclusivamente ad una valutazione in termini percentuali dell’incidenza della terapia sulla cura finale ma deve guardare al rapporto in modo complessivo e considerare la persona non solo come fulcro di aspettative di integrità fisica ma come una persona che vive, sogna ed intende realizzarsi nella vita anche al di là del numero di giorni di sopravvivenza ai quali è destinata. Solo “accorgendosi” della sfera delle capacità realizzative della persona, senza mirarne solo le sezioni relative all’integrità psico fisica, l’angolo visuale si allarga e finisce finalmente per considerare non un numero ma un soggetto complesso il paziente che accede alla richiesta di cura.

Per l’altro verso è incomprensibile come si possa ragionevolmente negare l’esistenza di una responsabilità solo sulla scorta del mancato nesso tra la morte e l’omessa diagnosi poiché, all’evidenza, il rapporto dev’essere valutato non tra l’omessa diagnosi e la morte in generale ma tra l’omessa diagnosi e “quella morte”, che nel caso di specie si verifica, e che è una morte necessariamente diversa da quella che la paziente avrebbe incontrato se le fosse stato diagnosticato il male tempestivamente, perché diverso sarebbe stato il suo approccio alla terapia e la fiducia riposta nei confronti dei curanti, diverse sarebbero state le chances della paziente di valutare le proprie residue facoltà realizzatrici determinandosi a scelte che la tardiva diagnosi ha necessariamente ostacolato perché, quand’anche fosse dimostrato che la paziente sarebbe comunque morta il 31 marzo di quell’anno, il modo di giungere a morte, la consapevolezza del gravissimo rischio, la qualità della vita che può esserci pur in quei terribili giorni fanno necessariamente la differenza tra le due opposte situazioni che vengono discriminate dall’errore professionale.

E’ quindi ammissibile che si possa discutere dell’entità del danno che la paziente ha subito e commisurarlo anche alle chances di sopravvivenza ulteriore che la paziente avrebbe avuto ma non si può giammai pensare di escludere un risarcimento sol perché appaia inverosimile che il paziente avrebbe vissuto qualche giorno in più. Pertanto anche le domande giudiziali che sono volte all’accertamento del danno patrimoniale e non patrimoniale, anche solo da perdita di chances di sopravvivenza o di migliori e diverse cure, debbono essere orientate con particolare attenzione nei confronti della sfera delle facoltà realizzatrici della persona poiché anche il recente arresto delle Sezioni Unite sul temuto danno esistenziale, al quale chiudono una porta sapendola solo alternativa occasione per un suo nuovo accesso, hanno di fatto ricordato che il risarcimento del danno deve essere sempre personalizzato e che i suoi rilievi non patrimoniali, tanto più allorchè vi sia la copertura costituzionale dei relativi interessi che vi sono collegati, vanno sempre evidenziati.
Ebbene, anche in altre occasioni chi scrive ha sottolineato quanto anche questa pronuncia, e soprattutto quelle satelliti che l’hanno immediatamente preceduta e seguita, e che ne hanno in qualche modo pianificato la digestione, sono certamente nel senso di vedere grandi chances di affermazione del danno da violazione del diritto del paziente ad autodeterminarsi alle cure poiché, affermato che al centro del sinallagma non può che esservi il diritto del paziente di autodeterminarsi sempre alla cura, la sua violazione, quand’anche non incida su aspetti psicofisici relegati al cosiddetto danno biologico e valutabili sotto il profilo medico legale, si estende agli aspetti non patrimoniali del danno ed in particolare a quelli che il noto arresto di fine 2008 ha definito “profili esistenziali”. Posto, invero, che il paziente ha diritto, salvi casi eccezionali di trattamento sanitario obbligatorio, ad essere protagonista della cura e che non può che esserlo ove sia perfettamente informato e possa quindi autodeterminarsi alla cura stessa, non v’è dubbio che è possibile stigmatizzare un inadempimento, che non a caso può essere definito addirittura grave, allorchè tale diritto, costituzionalmente garantito, alla tutela della libertà e della salute sia violato, per chiedere anche il risarcimento del relativo danno.

Anche criteri meramente presuntivi, che possono pur essere tenuti in considerazione dall’organo giudicante, non possono che essere orientati nel senso di ritenere che la consapevolezza e la partecipazione alla cura, ovvero la loro negazione, cambiano necessariamente la qualità della vita di un paziente poiché violano, senza possibilità di emenda, la libertà della persona e la sua possibilità di decidere come gestire la propria salute anche, come in altre sedi affermato, posticipando ed evitando la cura quando, come spesso accade, essa sia solo utile ad emendare fastidi sopportabili e possa riservare, tra le complicazioni, un’ulteriore gravissima caduta della qualità della vita.

Ecco che quindi la nuova frontiera della responsabilità medica consiste, sempre di più, nell’individuazione e corretta liquidazione del danno non patrimoniale da negata informazione al paziente ed il cosiddetto consenso informato è destinato ad essere sempre più sostituito da un concetto che, non viziato dall’errore primigenio che ne ha travolto di fatto il significato, può a ragione ergersi al centro della dinamica del rapporto medico paziente ed essere individuato nel diritto di quest’ultimo ad autodeterminarsi liberamente e consapevolmente alla cura. (nicola todeschini)






 

 

 

 




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