-  Trisolino Luigi  -  17/08/2015

CRITICA ALLA DIALETTICA TRA IDENTITÀ NAZIONALE ED EUROPEISMO – Luigi TRISOLINO

-Dal progetto di un"Europa libera e unita ad un"Europa liberista ma attenta ai diritti umani civili

-Distorsioni nell"operazione giuridica di armonizzazione tra la normativa europea e quella interna

-Inadeguatezza del federalismo neo-liberistico e auspicabilità di una meta-federalità sociale di diritto

 

Nello scenario di un"Europa spesso gemente tra le tragedie di un "cursus bellorum", tra i diversi fuochi di un campo devastato dalla volontà di dominio internazionale da parte degli schieramenti ideologicamente contrapposti, un gruppo di intellettuali "idealisti" aveva connesso la propria dialettica teoretica al progetto di un"Europa unita, di una Europa non solo geografica, non solo di sommatorie d"egoismi statuali alla ricerca di bottini di guerra o di un più lauto posto al sole. Nomi quali quelli di Altiero Spinelli, di Ernesto Rossi, redattori del c.d. Manifesto di Ventotene per un"Europa libera e unita, riecheggiano quali altisonanti testimoni di una storia novecentesca che vedeva ancora i singoli Stati nazionali come tremule entità alla ricerca di una ripresa postbellica, nel "48.

Il 1948 fu un anno di spicco nel panorama sociale, politico e, per quel che qui più concerne, giuridico del nostro Belpaese, l"Italia. L"entrata in vigore della Costituzione caratterizzò la diplomatica, pacifica, preziosa risposta al transeunte, al carattere ottriato delle precedenti Carte fondamentali, ma, non di meno, una risposta alle esigenze concrete di un tessuto sociale ed economico bisognoso di punti saldi fermi, di stelle polari della normatività, di rinascita all"insegna di una palingenesi giuridica quale deflagrazione inevitabile dell""ethos".

Proprio in questa riscoperta dello stare insieme quali Italiani, occupati ma anche, giustamente, preoccupati per l"incolumità del mantenimento di una pace ancora dolente d"inenarrabili ferite, gli anzidetti "idealisti" teorizzavano una Europa di pace all"insegna del superamento della mera statualità nazionalisticamente intesa. Carezzando, sì, l"idea d"un riconoscimento dello Stato-nazione quale istituzione storica lisa e vetusta, nonché generatrice di guerre.

Lo Repubblica italiana, democratica, lavoristica nel proprio DNA valoriale, ripone la sua sovranità nelle mani del popolo (art. 1 Cost.), nel senso che è il popolo a fondare la legittimazione all"esercizio del potere statale. Siffatto potere sovrano dev"essere esercitato nelle forme ed entro i limiti tracciati dalla Carta costituzionale medesima. Parrebbe che a fronte della insopprimibile esigenza di garantire una effettiva cura dei diritti inviolabili dell"uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e ancora, per adempiere ai doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2 Cost.), in ogni loro sfumatura, la nostra identità nazionale-statuale si è adeguata all"idea meta-federale "soft" di un ordinamento giuridico sovranazionale a vocazione comunitaria. Tutto ciò per garantire la pace, valore assolutamente fondamentale, e strettamente congiungibile agli appena citati principi dei primi due articoli della Costituzione italiana. Chiedendoci quale sia il luogo normativo di una siffatta manovra di adeguamento, la nostra attenzione analitica non può che insediarsi sull"art. 11 Cost., il quale sancisce che l"Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; inoltre sono consentite, in condizioni di parità con gli altri Stati, le limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni; infine, si afferma esplicitamente che il nostro sistema statale promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte allo scopo appena illustrato. In verità, come già ampiamente assodato dalla storiografia contemporanea e dalla dottrina, l"art. 11 Cost. si riferiva all"ONU, e la riconducibilità dell"adesione al sistema giuridico comunitario risulta essere certamente una giustificazione, la quale, a sua volta, altro non è che un portato dell"alterazione del rigore interpretativo, camaleonticamente piegato ora alle metodologie ermeneutiche più restrittivo-letterali, ora alle metodiche estensive, aperte, non letterali. Ciò per avvalorare di un blando tecnicismo le manovre di natura, invece, eminentemente di scelta politica, quale l"adesione a un progetto comunitario con una coloritura ideologica liberale e liberistica, da libero mercato.

Un chiarimento si mostra urgente, anche per non sottacere o, peggio ancora, deturpare la grandezza teoretica e la testimonianza di vita delle persone all"inizio citate, Spinelli e Rossi. Un"Europa di pace e libertà era il sogno, e tale sogno in quest"ultimo periodo storico pare essersi riappropriato della propria (seppur spesso purtroppo tiepida) possibilità realizzativa, attraverso norme di profondo respiro sociale nonché personologico, in aderenza al carattere non-solo-economico del nostro ordinamento giuridico-costituzionale italiano, e in alcuni settori anche con una spiccata forza capace di rendersi al passo coi nuovi tempi (si pensi ai diritti civili ad esempio). L"inizio della "policy" dell"Europa era, risaputamente, improntata a un linguaggio prettamente economico, capitalistico, liberistico, quasi da "laissez-faire", all"insegna dei principi, sicuramente proficui e corretti, della libera e sana circolazione di persone, merci, capitali.

I primi passi dell'integrazione europea si muovevano nell"entroterra di un metodo tradizionale di cooperazione intergovernativa tra gli Stati membri, che collaborano tra loro come soggetti sovrani. Le caratteristiche principali di questo metodo erano la presenza negli organismi di collaborazione di rappresentanti degli stati, che agivano in nome e per conto di una data nazione, in base a direttive da questa impartite, e la quasi totale assenza di vincolatività negli atti adottati in seno alla primula organizzazione.

Il metodo della cooperazione intergovernativa aveva contribuito con propri risultati in campo militare, economico e politico, ma, al contempo, aveva mostrato aspetti di debolezza evidenti. Prende così le mosse un processo, iniziato da alcuni Stati membri, volto a superare i limiti del precedente metodo, nonché ad aspirare e aprirsi a un successivo stadio di cooperazione innovativa, una cooperazione comunitaria, basata sul potere di adottare atti vincolanti, e sulla creazione di un sistema di controllo giurisdizionale di legittimità, col connesso obbligo di sottoporre gli atti delle istituzioni ad esso.

Da questo quadro originario, primordiale dell"organismo comunitario, si è man mano generato un vero e proprio ordinamento sovranazionale, complementare e poi amalgamato ai singoli ordinamenti statali, con le differenze dovute alle diverse sensibilità e ai differenti carismi nazionali; tanto che oggi pare corretto parlare di un ordinamento italo-comunitario.

Il diritto comunitario originario trova i propri natali nei Trattati istitutivi. Tutto il sistema di fonti comunitarie rappresenta il diritto comunitario derivato. A fronte di un"esigenza di aderenza del dato normativo allo spirito del tempo e alla volontà generale del popolo, delle persone, fino a non molto tempo fa si discuteva di "deficit" democratico in seno alla nostra Unione europea, dato che questa si è sempre caratterizzata per una forte spinta burocratico-verticistica, nonché tecnocratica. La storia dell"emancipazione delle istituzioni comunitarie dall"egida del verticismo burocratico, sembra essersi assopita con una evoluzione e un incremento del ruolo politico a fronte dell"originario piano concreto, di stampo eminentemente economico-finanziario. Questa storia passa per alcune fondamentali tappe. Una di queste è rappresentata dal Trattato di Maastricht, o Trattato sull'Unione Europea, il quale fu firmato il 7 febbraio 1992 a Maastricht dai dodici paesi membri dell'allora Comunità. Esso fissava le regole politiche e i parametri economici necessari per l'ingresso dei vari Stati aderenti nella suddetta Unione. Entrò in vigore il 1º novembre 1993. In campo giudiziario e di affari interni venivano realizzate importanti innovazioni, quali la creazione di una nuova procedura riguardo all"accesso di cittadini di Stati terzi nell'Unione e maggiore cooperazione doganale verso l"esterno, la creazione dell"Europol (Ufficio europeo di polizia), il rafforzamento della lotta contro il terrorismo, il traffico di droga e la grande criminalità; e ancora, l"Unione economica e monetaria dell'Unione europea (UEM), l"introduzione della Cittadinanza dell'Unione europea, una cittadinanza complementare a quella nazionale, poiché è cittadino dell'Unione chiunque possieda la cittadinanza di uno Stato membro. Veniva rafforzato il diritto di stabilimento, circolazione e soggiorno nel territorio dell'Unione, e ancora, veniva riconosciuto il diritto di elettorato attivo e passivo alle elezioni municipali del comune di residenza e a quelle del Parlamento europeo dello Stato di residenza, e altri.

Con la volontà di andare "oltre Maastricht", il sistema comunitario divenne ospite e artefice al contempo di nuove misure adottate mediante lo strumento dei trattati. Nessuno di questi riuscì ad estirpare la ragione che muoveva le varie forze politiche e sociali nazionali nel muovere critiche verso il "deficit" organizzativo e democratico. Furono adottate misure minime per permettere lo svolgimento delle attività istituzionali comunitarie pur non essendo più soltanto in sei Paesi membri, ma molti di più.

La storia dell"integrazione europea ha conosciuto anche un progetto di Costituzione europea. Questa, "Trattato che adotta una costituzione per l"Europa", è stato appunto un progetto di revisione dei trattati istitutivi dell"Unione, redatto dalla Convenzione europea nel 2003. In seguito al rifiuto alla ratifica imposto, con modalità referendarie,  in Francia e in Olanda, nel 2009 è stato abbandonato. Tuttavia, diverse innovazioni della Costituzione sono state incluse nel successivo Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1º dicembre 2009. Lo scopo della Costituzione europea, oltre a quello di sostituire i diversi trattati esistenti che al momento costituivano la base giuridica dell"Unione Europea, era principalmente quello di dare all"U.E. un assetto politico chiaro riguardo alle sue istituzioni, alle sue competenze, alle modalità decisionali, alla politica estera. Siffatte novità avrebbero aumentato, a detta degli estensori, la democraticità, la trasparenza e i poteri dell'Unione europea. La Costituzione europea, inoltre, avrebbe definito esplicitamente la distribuzione delle competenze tra gli Stati membri e l'Unione europea in categorie esclusive, concorrenti e di supporto.

Occorre valutare ulteriori aspetti di politica del diritto, prima di delineare un parere, o comunque uno spunto critico. Attualmente tra i ventotto Stati membri della Comunità europea è in corso il processo di progressiva affermazione di soluzioni, nonché di modelli giuridici uniformi. Ma ogni termine ha il suo peculiare peso, e parlare di uniformità, non risulta equivalente al discorrere di unificazione, e, come è ovvio che sia, nemmeno al discorrere di armonizzazione.

L"Europa non ha (ancora) la comune pretesa di essere caratterizzata da un serrato federalismo giuridico, sul modello strutturale istituzionale degli Stati Uniti d"America. Se ben ci si accosta all"esperienza americana, tuttavia, si nota subito che non si ha una omogenea, totale uniformazione, dato che ciascuno Stato federato mantiene una propria caratterizzazione a livello legislativo, dottrinale e giurisprudenziale (ma tale ultimo livello risulta essere parte integrante del livello legislativo in un sistema di "Common Law" anglosassone, seppur quello americano con accorgimenti discostantisi dal puro "case law" britannico). Si pensi, ancora, che una siffatta pretesa federalista pura dovrebbe comunque scontrarsi con una disomogeneità legislativa e strutturale fortemente evidente, e, non di meno, con la presenza in Europa di due sistemi giuridici differenti, di "Civil Law" (latini, a base romanistica) per la maggior parte, ma anche di "Common Law". E si pensi pure alle differenze esistenti tra i paesi a tradizionale vocazione liberalcapitalistica, e quelli usciti da non molto dal c.d. socialismo reale: nel 2004 sono entrati nel sistema comunitario europeo paesi quali Repubblica Ceca, Cipro, Lettonia, Estonia, Lituania, Polonia, Slovacchia, Slovenia, Ungheria, ma anche Malta, quest"ultimo bacino d"insediamento di diverse società di "consulting" finanziario, anche connesse con la Svezia per fornire servizi di stabilimento – giocato intorno alle garanzie apprestate dallo stesso diritto comunitario – alle imprese vogliose di far bottega con una pressione fiscale meno stringente.

In questo clima di notevole ampliamento del numero degli Stati aderenti al sogno europeistico in qualità di membri, rilevante è stato il dibattito e lo stesso esplicarsi di forze per l"avvio di un processo volto a riformare le istituzioni. Tale ultimo processo aveva trovato un baluardo, ma anche una catapulta di lancio, nella c.d. Costituzione europea, a cui si è accennato poc"anzi. Tale Carta fondamentale, costituzionale, fu elaborata con l"obiettivo di attribuire all"Europa politicamente organizzata come ordinamento giuridico, una più spiccata forza decisionale, ma anche una più incisiva forza d"azione. Tuttavia, l"abrogazione dei Trattati esistenti e la loro sostituzione con un unico testo denominato appunto "Costituzione" è stato abbandonato e, in surroga, è stato invece approvato un nuovo documento, sottoscritto il 1° gennaio 2009, il Trattato di Lisbona, il quale  ha provveduto al riparto di competenze tra Unione e Stati membri, e ha rafforzato il principio democratico e la tutela dei diritti fondamentali.

Delineare il rapporto tra il diritto comunitario e le identità normative, socio-politiche e culturali nazionali è impresa ardua e, anzitutto, bisogna avere l"onestà intellettuale di ammettere che il siffatto rapporto è sempre vetusto ogni qualvolta si tenti una rappresentazione esaustiva, dato che di un fenomeno sempre "in fieri" si tratta, di un coacervo di dialettiche ora vocate al ravvicinamento delle legislazioni, ora ad una armonizzazione, ora ad una uniformazione a mezzo regolamento comunitario, fonte del diritto europeo che ex art. 288 T.U.E. è vincolante e direttamente applicabile negli Stati membri. Non solo il regolamento, ma anche la direttiva che l"organo chiamato all"ermeneutica normativa ha voluto definire come "self-executing" (in quanto sufficientemente precisa e incondizionata) risulta essere direttamente applicabile, con buona pace delle differenziazioni e delle problematiche di auto-nomìa delle identità nazionali, sempre più esautorate dalla "poiesis", e sempre più veloci spugne normative, con evidenti problemi consequenziali di armonizzazione interna delle normative dettate dall"Europa con il sistema interno congegnato in una propria specifica "ratio", cultura e tradizione.

Altra vexata quaestio è quella inerente agli ingressi-"imposizioni" di norme, ad esempio nel nostro ordinamento italiano, senza la necessaria presenza dei nostri rappresentanti in seno ai consessi nomo-poietici comunitari, ove ruoli importanti giuocano Stati aventi un P.I.L. elevato e un potere negoziale internazionale di spicco, assurti, per non dire spacciati quali esempi per una crescita europeistico-continentale. E ancora, la mitizzazione sostanziale del capitalismo forte degli Stati "tenaci" e "austeri", conduttori sani di portati legislativi nella competizione trai i modelli, ove la dottrina transfrontaliera ben si innesca per trovar la chiave di volta intorno alla quale costruire un sistema (ad esempio) contrattuale e finanziario comune, più figlio dello spirito d"una tendenziale omologazione, che d"una composta e ragionevole ricerca di quel genuino e funzionale minimo comun denominatore forte e certo per l"affratellamento commerciale e finanziario.

Tipici casi di uniformazione normativa si riscontrano, fisiologicamente, ogniqualvolta viene emanato un regolamento comunitario; patologicamente ogniqualvolta si utilizzano strumenti (le direttive comunitarie) che fisiologicamente, nella "mens legis", sarebbero volti a fornire delle linee guida certe, in arricchimento di quel "Common Frame of Reference", ma che di fatto sono adoperati quali penetranti manifestazioni normative imposte, etero-nomofanìe verrebbe da dire.

Un altro aspetto critico da sottoporre all"attenzione del giurista contemporaneo, è la modalità stessa d"intervento del legislatore comunitario, sempre più sconquassato come un pallone tra una pedina del giuoco e un"altra, costretto a contemperare esigenze differenti, di Paesi membri diversi, per conciliare tali ultime con l"ottica di promozione di un mercato unico di dimensioni non ridotte. Tutto ciò diviene una metodica foriera di quella asistematicità che i giuristi della tradizionale civilistica italiana lamentano nel sistema, "alias", nella accozzaglia di soluzioni normative di matrice europeistica, assoldate in un"ottica molto più liberistica che finisce per valutare la persona come un civile consumatore, piuttosto che come centro d"interessi sociali e di premure garantistiche da "Welfare State" (premure che la nostra Carta costituzionale italiana mette in preziosa evidenza accanto e prima del libero mercato).

La filosofia contrattuale europeista, nel suo garantismo della parte debole – vischiosamente individuata nella genericità del consumatore – si è concretizzata, negli ultimi tempi, in nuove regole sulle clausole abusive (vessatorie), sui contratti stipulati fuori dai locali commerciali, sulla vendita di beni immobili in multiproprietà, sul credito al consumo, sullo "ius poenitendi" quale garanzia post-vendita nell""eventum in continuum contracti", sul pacchetto turistico per il contratto di viaggio. Tutto ciò in un"ottica restitutoria-riparatoria-rimedialrisarcitoria che ha dilatato e forse proprio "specializzato" la nostra matrice romanistico-civilistica aquiliana. Parte della dottrina, poi, per spiegare con le nostre "formae mentis" quanto accade nei (ma si dica anche, quanto imposto dai) piani alti a cui più o meno coscientemente la nostra democrazia rappresentativa ha scelto di aderire, ha ripreso gli antiqui echi del dualismo contrattualistico, ossia la nostra tradizione giuridica italiana antecedente al codice del "42, con la distinzione tra contratti civili e commerciali: odiernamente si avrebbe, infatti, una contrattualistica tipica del consumatore e una ordinaria (la quale ultima potrebbe definirsi, a parer di chi scrive, "alia cetera contracta").

I problemi delle connessioni ed interconnessioni tra l"ordine comunitario e le identità dei singoli sistemi nazionali, poi, passano pure nelle complesse operazioni di "drafting", e non solo. Si pensi al nostrano distinguo tra diritti soggettivi e interessi legittimi (rintracciabile nella Carta costituzionale italiana negli artt. 24, 103, 113). Altri ordinamenti nazionali affratellati nel diritto comunitario, sono totalmente digiuni di una siffatta qualificazione, perché estranei a una tradizione giuridica che in questo caso è un "unicum" italiano. Ma si pensi anche al caso dei nostri legittimari (i "pupilli" del sistema codicistico del Belpaese), non rinvenibili così fortemente qualificati in altri ordinamenti nazionali.

Per quanto concerne la distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi, la Corte di giustizia europea ha mirato non tanto ad eliminare il distinguo in sé e per sé, quanto ad evitare che la stessa possa fungere da giustificazionismo tecnicistico per contenere entro certi limiti – più bassi – il risarcimento dei danni da parte della P.A. A fronte di tale atteggiamento proprio dei giudici della predetta Corte, le Sezioni Unite della Corte nomofilattica italiana, con sentenza n. 500 del 22 luglio 1999, ha sottolineato la risarcibilità del danno subìto a causa della violazione di un interesse legittimo.

Un aspetto significativo che non può passare sottotono, è costituito dal fatto che la comunitarizzazione dei diritti nazionali, e delle consequenziali inevitabili "alterazioni" delle loro tipiche identità tradizionali, avviene pure attraverso la competenza esclusiva della "European Court of Justice" in ordine alla soluzione di controversie, o attraverso l"esclusivo ruolo ermeneutico svolto dalla stessa E.C.J. in riferimento alle Convenzioni internazionali, in materia contrattuale ad esempio. Rilievo che ai tradizionalisti e ai "nazional-identitaristi" apparirebbe poco consono alle metodologie logico-discernitive del giurista in fase ermeneutica e decidente, risulta essere quel pezzo forte della comunitarizzazione connesso alla espressa imposizione, da parte del legislatore interno, al giudice nazionale, di utilizzare principi e criteri comunitari nell"operazione di interpretazione, appunto, della norma interna (sia essa di matrice statale o non statale).

Instancabile è pure l"opera nomofilattica comunitaria della Corte di giustizia, volta ad impedire che dinnanzi a una medesima disposizione comunitaria possano generarsi tante interpretazioni e altrettante applicazioni diverse quanti sono gli Stati membri.

Sempre in quest"ottica di rinvenimento di meccanismi funzionali ad una claudicante omogeneizzazione comunitaristica, aderente al progetto politico e giuridico di un"Europa unita nelle (armonizzate) diversità, si veda ancora il ricorso in via pregiudiziale. Tale istituto è un procedimento incidentale, ossia inserito all"interno di un procedimento nazionale principale pendente innanzi a una corte nazionale; con questo procedimento incidentale il giudice nazionale richiede alla Corte di giustizia di apprestare l"interpretazione corretta di una disposizione comunitaria, e delle connesse norme. Il giudice del procedimento principale, così, applicherà al caso di specie la norma comunitaria interpretata secondo l"espressione della Corte di giustizia: si tratta quindi, come più volte rilevato in dottrina, di un procedimento di rinvio dal giudice nazionale al giudice comunitario, ove il primo ha comunque la discrezionalità di decidere se sia opportuno – se non proprio necessario – effettuare il suddetto rinvio.

Valutando il grado di applicabilità più o meno diretto del diritto comunitario negli Stati membri, si può osservare che il primo seme per l"affermazione della diretta efficacia del diritto comunitario, è stato gettato nel terreno europeo dalla sentenza della Corte di giustizia, il 5 febbraio 1963, nel caso "Van Gend & Loos", in cui una ditta olandese lamentava che il proprio Stato avesse imposto un dazio doganale all"importazione, commettendo un atto contrario all"art. 12 (ora 25) del Trattato. Tale articolo prescrive che gli Stati membri si devono astenere dalla introduzione di nuovi dazi doganali alla importazione e alla esportazione, o da tasse di equivalente effetto. Il giudice nazionale, chiamato a dirimere la controversia insorta tra la ditta olandese e il Ministero delle imposte, sospese il giudizio e chiese alla Corte di giustizia di pronunciarsi in via pregiudiziale in merito alla interpretazione e alla efficacia da attribuire all"art. 12 citato, in relazione ad un contrasto con una norma interna. I giudici della Corte risposero affermando il principio per il quale il Trattato ha valore precettivo e attribuisce ai singoli dei diritti soggettivi che gli stessi giudici nazionali sono tenuti a tutelare in qualunque grado di giudizio. Ogni giudice nazionale, così, ha in qualunque grado di giudizio una sorta di dovere di applicare direttamente quelle norme del Trattato CE (si parla ovviamente con riferimento a quel periodo storico), norme che per la loro stessa natura contengono precetti immediatamente eseguibili.

L"affermazione del principio della applicabilità diretta in base al quale ogni giudice nazionale può (ma anche deve) applicare le norme del Trattato non aveva fornito ancora le ragioni tecnico-giuridiche della (presumibile) supremazia del diritto comunitario sul diritto nazionale incompatibile. Si poteva, infatti, verificare un contrasto fra una norma interna preesistente e una norma comunitaria successiva. E, senza grossi problemi, si riteneva che, poiché nell"ordinamento interno italiano al TCE è stata data esecuzione mediante legge ordinaria, le norme che ne scaturissero sarebbero state quanto meno dello stesso livello (di gerarchia delle fonti) delle leggi ordinarie interne. Così, non si sono avuti molti stridori nell"accettare che una norma interna potesse essere derogata da una norma comunitaria successiva, secondo il criterio cronologico di risoluzione delle antinomie legislative. Nel caso in cui, però, sia la legge nazionale ad essere successiva ad una norma comunitaria incompatibile, la mera applicazione di siffatto criterio cronologico sarebbe ostile alla efficacia del diritto comunitario. Il principio della supremazia delle norme comunitarie, in primo luogo del TCE, rispetto al diritto interno dei singoli Stati è stato affrontato per la prima volta dalla Corte di giustizia nella storica sentenza del 1964, sul caso Costa vs Enel, in risposta ad una pronuncia di orientamento opposto, emessa pochi mesi prima dalla Corte costituzionale italiana nella medesima questione insorta tra l"Enel e il Costa. Nella sentenza nostrana la Corte costituzionale aveva affermato che il giudice nazionale non avrebbe mai potuto disapplicare la norma italiana di nazionalizzazione dell"Enel, anche qualora fosse stata in contrasto con le norme del Trattato, giacché la legge successiva doveva prevalere sul Trattato in quanto di data anteriore, dato che le due fonti (legge di nazionalizzazione e Trattato) erano sullo stesso piano nella gerarchia.

In quella che è divenuta una delle più importanti sentenze della Corte di giustizia, i giudici confutarono la tesi della Corte costituzionale, affermata anche dal Governo italiano, ed affermarono il principio della supremazia delle norme comunitarie rispetto alle norme di diritto interno, e in particolare la supremazia delle norme del Trattato. Secondo la Corte comunitaria, il Trattato CEE aveva istituito un proprio ordinamento giuridico integrato con quello degli altri Stati, ordinamento che i giudici nazionali sono tenuti a rispettare e ad osservare. Il Trattato CEE, così, sarebbe differente (a dir di tale giurisprudenza del periodo storico degli anno "60 del Novecento) dagli altri trattati internazionali, dato che i trattati istitutivi hanno una maggiore forza, e anzi sono qualcosa di più, rispetto agli ordinari trattati internazionali, e la stessa Corte di giustizia, in armonia con alcune voci del panorama dottrinario, si spinse a definire i trattati istitutivi e modificativi come una sorta di carte costituzionali.

Analoghi principi, poi, sono stati applicati dalla Corte di giustizia nella affermazione della supremazia dei regolamenti comunitari sul diritto nazionale dei singoli Paesi membri. Ormai è pacifico che il regolamento comunitario sia da considerare a tutti gli effetti facente parte del diritto interno, e che in quanto tale debba essere applicato da ogni giudice. Inoltre, una legge interna eventualmente postasi in contrasto con un regolamento comunitario deve essere disapplicata, da ogni giudice, senza che sia necessario attendere la dichiarazione di incostituzionalità da parte della Corte costituzionale. Pacifico è pure che il regolamento "de quo" prevalga sulla legge interna nel caso in cui la legge nazionale sia posteriore rispetto al regolamento. Ciò in virtù dello stesso livello nella scala gerarchica delle fonti giuridiche. L"affermazione di tali principi però è il risultato di un duraturo Calvario, ove ostili e contrapposti sono stati, reciprocamente, gli orientamenti e le scuole di pensiero della Corte di giustizia, da un lato, e della Corte costituzionale, dall"altro lato. Cosicché ormai si ammette ampiamente la portata di carattere generale, oltre che la obbligatorietà e la diretta applicabilità, per contraddistinguere la fonte regolamentare comunitaria da altri tipi di fonte. L"obbligatorietà e la diretta applicabilità non sono state accettate e incoraggiate dai Paesi membri. Le cc.dd. posizioni protezionistiche ascrivibili alle condotte istituzionali dei giudici interni, italiani in particolare, costituivano uno dei più ardui ostacoli da debellare. La Corte costituzionale italiana, infatti, aveva sostenuto, in alcune sue pronunce, che se pure è vero che il conflitto tra una norma nazionale anteriore ed una comunitaria successiva avrebbe dovuto risolversi con la disapplicazione immediata della prima da parte del giudice ordinario nazionale, al contrario il conflitto tra una norma comunitaria anteriore e una norma nazionale posteriore avrebbe dovuto essere posto al vaglio della stessa Corte costituzionale. Tale istituzione nazionale, così, si poneva quale unica istituzione legittimata a pronunciarsi in merito ad un"eventuale inapplicabilità di una disposizione interna contrastante con una norma comunitaria, per violazione dell"art. 11 Cost., il quale recita che l"Italia consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni, e che l"Italia promuove e favorisce le organizzazioni rivolte a tale scopo. È risaputo, oltre che evidente, che questa prescrizione costituzionale nostrana, in realtà, non si riferisce alla Comunità politica europea, ma agli organismi transnazionali quali l"ONU.

Nel 1978, tuttavia, nella sentenza "Simmenthal", la Corte di giustizia ha affermato alcuni principi fondamentali che sono divenuti successivamente dei cardini di riferimento per tante ulteriori pronunce sia della stessa Corte, sia di molte Corti e tribunali nazionali: l"applicabilità diretta delle norme comunitarie deve essere intesa nel senso che tali norme devono poter esplicare effetti a partire dalla loro entrata in vigore; e in caso contrario si avrebbe una disparità di trattamento tra cittadini comunitari a seconda che lo Stato di appartenenza dia o meno corretta attuazione alle norme comunitarie, disparità di trattamento inconcepibile nel tessuto politico degli obiettivi della Comunità.

Il duraturo, ventennale conflitto tra la Corte di giustizia e la Corte costituzionale italiana, iniziato nel lontano 1964, terminava nel 1984 con la sentenza "Granital" della stessa Corte costituzionale, pronuncia in cui veniva individuata una soluzione che, pur evitando di sostenere formalmente la supremazia del diritto comunitario sul diritto nazionale, costituiva un più accettabile compromesso, il quale permetteva di fatto al diritto comunitario di mantenere tutta la sua efficacia.

In virtù dei risultati di questa odissea giurisprudenziale, qui delineata per cenni ai fini di una maggiore comprensione dell""iter" di affermazione dei principi che oggi appaiono forse un po" scontati, si terrà conto, nel prosieguo della presente narrativa, di una serie di esempi di incidenza del diritto comunitario sul diritto privato nazionale.

Si pensi, ad esempio, al contratto di compravendita, il quale è stato oggetto di una incursione normativa a livello comunitario-europeo, attraverso la direttiva 99/44, avente l"obiettivo dell"armonizzazione della disciplina legale, limitatamente a quella peculiare tipologia della vendita dei beni mobili di consumo. L"art. 1 della direttiva appena citata delinea l"area applicativa della stessa attraverso il ricorso a due criteri, uno soggettivo (la limitazione ai soli rapporti di natura contrattuale tra consumatori e professionisti) e uno oggettivo (individuazione di un insieme di tipi contrattuali cui le norme sono applicabili, non solo la vendita ma anche i contratti di fornitura di beni di consumo da fabbricare o produrre).

Altro versante ove il diritto comunitario ha inciso nella disciplina di istituti privatistici, è costituito dal credito al consumo. Questo rappresenta un mezzo di finanziamento, con differimento temporale dei pagamenti, per la soddisfazione della domanda di beni durevoli, come mezzi di trasporto, elettrodomestici, strumenti musicali e quant"altro, i cui costi oltrepassano le possibilità reddituali del consumatore. In una prima fase si utilizzava lo strumento giuridico della vendita a rate con riserva di proprietà, che delinea un meccanismo analogo a quello dell"attuale contratto di credito al consumo. La disciplina comunitaria per questa materia, in origine, era contenuta nella direttiva 87/102, recepita in Italia dalla legge n. 142/1992, poi modificata dalla direttiva 90/1988 e dalla direttiva 98/7. Le norme italiane di attuazione erano negli artt. 121-128-bis del d.lgs. n. 385/1993, recante il testo unico delle disposizioni in materia bancaria e creditizia (TUB), e negli artt. 40-44 cod. cons. La materia, tuttavia, è stata ulteriormente rivisitata con il d.lgs. n. 141 del 2010, emanato in attuazione della direttiva 08/48, la quale ha sostituito la direttiva 87/102, e ha abrogato gli artt. 40-42 cod. cons. Oggi, quindi, la fonte primaria cui fare riferimento è il TUB.

Anche in tema di contratto di pacchetto turistico si può vedere l"influenza pregnante della "forma mentis" comunitario-europeistica nella legislazione nazionale, la quale ultima risulta essere di recepimento. L"Italia ha attuato la direttiva 90/314 in una prima fase attraverso il d.lgs. 111/95 poi confluito nel cod. cons., e con l"emanazione del d.lgs. 79 del 2011, in attuazione anche della direttiva 2008/122/CE.

Un"altra questione che interessa il rapporto tecnico-giuridico intercorrente tra il diritto comunitario e la nostra identità giuridica nazionale, riguarda l"istituto della multiproprietà. Questa, non è un diritto soggettivo unitario e ben definito, bensì una causa contrattuale, comprendente lo scopo individuale di costituire una facoltà di godimento circoscritta a un determinato periodo di tempo dell"anno. In breve, si potrebbe tentare una delineazione della multiproprietà affermando che essa consiste nell"attribuzione del diritto di godimento turnario di uno o più beni immobili situati in una località di villeggiatura, per un determinato periodo dell"anno, di regola non inferiore ad una settimana. Quest"istituto rappresenta una risposta alle esigenze del turismo in una società di massa, di consumatori, società, la quale, invero, vede l"aumento delle persone che vogliono trascorrere le proprie ferie in località di villeggiatura, e per una durata tendenzialmente ridotta.

In diritto, nel nostro sistema giuridico appunto, anche a voler concepire la multiproprietà come un diritto reale, si deve constatare che il contratto giuoca un ruolo più ampio di quanto accade ordinariamente in ambito di diritti reali in senso stretto, per non parlare poi del principio di derivazione romanistica del "numerus clausus". È stato anche detto, tuttavia, che poiché le norme di cui agli artt. 1101 ss. c.c. hanno carattere dispositivo (e in materia di donazione l"autonomia negoziale dei privati possiede larghi margini), la multiproprietà immobiliare potrebbe essere qualificata dai fautori della sua natura reale quale una "species" del "genus" comunione.

La soluzione prescelta dalla direttiva 94/47, confermata dalla più recente direttiva 08/122, manifesta lo stile del legislatore comunitario, dedito ad una tecnica normativa di tipo empirico-rimediale, caratterizzata da un nuovo formalismo. I maggiori strumenti di tutela contrattuale interessati sono il recesso e la garanzia fideiussoria, "ad hoc" tessuti su questa trama negoziale modernista.

I considerando delle direttive 94/47 e 08/122 (quest"ultima ha abrogato la prima), stabiliscono i presupposti nonché gli scopi dell"intervento comunitario, e si evince chiaramente che la finalità primaria del legislatore transnazionale europeo insiste sulla creazione di una base di norme comuni, per garantire il buon funzionamento del mercato interno comunitario e la tutela (ancora una volta) dei consumatori.

Altro versante ampiamente influenzato dalle istanze presenti nel panorama istituzionale comunitario, è quello inerente alla mediazione a fini conciliativi, all"arbitrato e agli strumenti di "Alternative Dispute Resolution" (A.D.R.). A seguito di consultazioni, nel 2002, ad esempio, sono stati favoriti incontri a livello comunitario, e, sempre nel 2002, si è avuta la promulgazione del Libro Verde, volto a istituzionalizzare le procedure, con norme di carattere generale valevoli per tutte le procedure di mediazione.

Mediante la direttiva CE/52/2008, il legislatore comunitario ha incoraggiato gli Stati membri a dotarsi di strumenti che consentano il ricorso indiscriminato, a chiunque e in qualsiasi condizione si trovi, a procedimenti alternativi al processo giudiziario ordinario. E ciò non solo per le questioni bagatellari, poiché la tendenza è quella, appunto, a istituzionalizzare la mediazione quale istituto generale, con un procedimento strutturato, avente regole ben precise. Nella direttiva comunitaria da ultimo citata sono stati individuati chiaramente i principi-chiave cui il legislatore deve ispirarsi (come ad esempio, la durata massima del procedimento, l"obbligo di aggiornamento del mediatore, l"equità del procedimento, la libera gestione degli interessi delle parti). In particolare, il settimo considerando della direttiva delinea proprio il fine di creare una specie di miniprocesso privato tra le parti; si fa riferimento, infatti, a criteri che richiamano le norme del codice di procedura civile (circa la competenza, le spese processuali, etc., ma senza mai incidere sulla libera disposizione delle parti). Le parti, inoltre, possono porre fine al procedimento in qualsiasi momento. Il legislatore nazionale italiano, con il D.lgs. n. 5/2003 è stato un precursore rispetto alla direttiva n. 52 del 2008 sul procedimento generale di amministrazione della mediazione, meglio istituzionalizzato poi con il D.lgs. n. 28/2010 nel Belpaese. Ancora, un"altra direttiva comunitaria la si è avuta nel 2011, sul rapporto tra consumatore e imprenditori, ma anche sulla procedura di mediazione, e sugli strumenti di ADR, per esempio anche sull"arbitrato (rivolgendosi soltanto alla categoria dei consumatori, a differenza della direttiva più generale del 2008). Si ricordi pure il recente regolamento comunitario n. 524 del 2013 sulle controversie "on-line" dei consumatori, regolamento connesso e complementare alla direttiva sui consumatori del 2011; il regolamento "de quo" ha istituito una piattaforma "on-line" per tutti i consumatori che vogliano inoltrare un reclamo elettronico ai fini dell"attivazione di una procedura di soluzione delle controversie in rete.

Ecco che le modalità e le "formae mentis" degli interpreti, dei giuristi, dei cittadini ("alias" dei consumatori, e specularmente, dei professionisti, consumatori anche loro nella vita "privata"), vengono irrimediabilmente a subire delle alterazioni, o se vogliamo, delle evoluzioni, evoluzioni che dovrebbero, però, meglio attraccarsi a un porto di consapevolezza, non tanto sulla malleabilità di vetuste dogmatiche, retaggio di romanistiche magari poco consone ai nuovi mercati, ma piuttosto sul grado di inseribilità delle misure rimediali europeistico-comunitarie nel sistema organico del nostro codice civile e della sua tradizione dottrinaria.

Il diritto comunitario ha inciso molto pure sul diritto societario interno, con un"azione di semplificazione e trasparenza delle operazioni compiute. Ciò in virtù di un mercato comunitario sempre flessibile alle nuove trovate della tecnocrazia finanziaria.

Ma la questione che più invita il giurista, il politico, lo storico a riflettere, è data dalla incidenza di nozioni "soft", non dogmatiche o forse proprio anti-dogmatiche, fornite dal legislatore comunitario, come quella di consumatore, ad esempio. Ma non solo. Si badi alle figure professionali. Si pensi alla categoria dei notai. Il notaio italiano è un operatore giuridico altamente qualificato in tema di diritto civile, societario e commerciale in generale, ma anche tributario, amministrativo; una figura professionale ibrida, pubblico ufficiale e libero professionista al contempo. L"una anima non potrebbe esistere senza l"altra, nel nostro sistema di notariato "latino", specialmente nell""unicum" italiano. O meglio, l"anima privatistica di libero professionista non potrebbe esistere senza quella di pubblico ufficiale. Ora, per il diritto comunitario il professionista è assimilabile, ai fini fiscali, ad un"impresa. Come può una impresa vedersi negato il libero trasferimento in un altro Paese membro della Comunità europea? Si verrebbero a minare le fondamenta del diritto di stabilimento. Tanto si è detto sulla fuga degli aspiranti avvocati dall"Italia alla Spagna, e tanto il legislatore comunitario è attento e sensibile alle libertà potenzialmente produttive di ricchezza e benessere, non senza una buona dose di simpatia per le misure liberalizzatrici. Nel 2006 il Notariato italiano ha seriamente temuto che l"ondata liberalizzatrice potesse modificare, e anzi alterare enormemente quel connubio (felice per qualcuno, infelice per qualcun altro) tra le due anime anzidette. Un notaio di un altro Stato membro che volesse trasferirsi professionalmente in Italia, dovrebbe entrare nel circuito amministrativo di selezione a mezzo concorso, e potrebbe sollevare questioni alla Corte di giustizia, per stimolarla ad un ulteriore posizionamento sulla effettività del diritto di stabilimento, sacro pilastro negli ultimi tempi del diritto comunitario, soprattutto in tempi di crisi economica ove i tecnocrati invitano sempre più alla flessibilità e alla mobilità intra-comunitaria, per non dire che talvolta costringono i volenterosi a spostarsi e a stabilirsi altrove. Dibattuta è anche la questione sulla ammissibilità delle società tra notai. Si va dal modello "artigianale" dell""ars notaria" dei piccoli centri di provincia, agli studi grandi di città. È lecito, ragionando in termini di diritto comunitario, mantenere l""unicum" italiano, la nostra identità nazionale nella preservazione della tradizione notarile, che seppur papabile a riformismi, vedrebbe sempre le due anime coabitanti in un sìnolo indissolubile? A parere di chi scrive è sicuramente lecito, poiché il fine del diritto comunitario è quello di impegnare gli Stati membri a garantire livelli di protezione delle prestazioni inerenti i diritti civili dei cittadini comunitari, al di là delle forme e dei criteri di scelta (più o meno liberalizzanti) sugli statuti professionali delle singole figure preposte alla garanzia certificatoria e rogatoria. Tra l"altro, nulla vieta al volenteroso notaro di un altro Paese membro comunitario, di studiare e prepararsi sul diritto italiano in misura virtuosa sì da tentare (la fortuna) di superare l""iter" amministrativo preposto dal legislatore nazionale italiano per l"accesso a una data professione o carriera.

Il diritto comunitario non può divenire quell"hobbesiano Leviatano che corrode le tradizioni giuridiche e storiche dei Paesi affratellati per un progetto comune di una Comunità libera, solidale e propizia nell"edificare le libertà economiche attraverso il mercato. Anche se, a fronte delle tendenze più federalistiche, sarebbe auspicabile una ispirazione al modello costituzionale italiano, per quanto riguarda i principi fondamentali; e quindi, di conseguenza, sarebbe auspicabile, a parità, una (che a chi scrive piace definire una) meta-federalità sociale di diritto, rispetto ad un freddo e socio-economicamente inadeguato federalismo neo-liberistico.

 




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