-  Urpis Ornella  -  26/01/2013

DONNE E IMMIGRAZIONE: LA PERSISTENZA DEL MODELLO PATRIARCALE -Ornella URPIS

Il modello che emerge dalle interviste a immigrati provenienti da alcune parti del mondo è quello ancora di una cultura maschile dominata dalla tradizione, un mondo piuttosto chiuso e fortemente prescrittivo, dove tutto viene fatto in funzione dell"uomo e dove le donne accettano o subiscono nella aspettativa di rispondere adeguatamente al ruolo loro prefissato: "mio padre era molto maschilista, infatti mia madre ha fatto tanti figli proprio perché lui voleva il maschio, che è arrivato per ultimo" (donna colombiana).

Una donna camerunese racconta: "Il nostro problema è stata la poligamia perché la convivenza di più donne nella stessa casa comporta tantissimi problemi…Uno dei motivi per cui mia mamma è qua è proprio perché la convivenza era diventata difficile con le altre mogli e quindi con mio padre. I rapporti purtroppo non sono mai stati buoni e per me parlare della mia famiglia è sempre un problema. Mia madre è la prima moglie e quindi siamo più uniti tra di noi rispetto ai fratellastri. Comunque mio padre continua ancora a fare figli ed ho un fratello che è più giovane di mia figlia…"

Poiché il modello tradizionale è patriarcale, la divisione fra i sessi è sempre presente e le donne vengono socializzate da altre donne, soprattutto nel campo della vita sessuale e riproduttiva. Le donne sono soggette a costrizioni e a comportamenti che violano, in certi casi, anche il loro diritto a disporre liberamente della propria vita.

La struttura patriarcale della famiglia sembra essere ancor oggi il fondamento delle relazioni umane e dell"organizzazione di molte società contemporanee. In questi mondi i rapporti fra i sessi, come ci vengono descritti dagli intervistati, sono di rigida separazione, improntati a una discrezione reciproca e a una distanza affettiva che corrispondono a strutturazioni ben consolidate di ruoli dominanti e di ruoli subordinati all"interno dell"ambiente familiare.

Nelle dichiarazioni di una donna beninese: "É un lavoro della donna, cioè viene considerato...lavoro.. c"è sempre quasi un senso di vergogna se un uomo va in cucina a cucinare, a lavare i piatti, oppure guarda i bambini. Non è comune. Ci sono quelli che lo fanno, non puoi dire che tutti gli uomini africani siano contrari, però è la minoranza. E questi che lo fanno, sono comunque quelli che sono stati all" estero e quindi hanno visto che l"uomo può fare questo senza perdere la sua dignità di uomo, hanno una veduta più ampia, sono più aperti. Però, per il vero uomo africano, al cento per cento, che sempre ha vissuto in Africa, è difficile che ci sia questa parità."

Anche le manifestazioni di affetto fra moglie e marito sono molto contenute e i rapporti restano improntati a una certa formalità che, se non le esclude, certo le limita drasticamente. Precisamente come avveniva tempo fa in certe campagne italiane, dove marito e moglie si davano del "voi" e la moglie definiva il marito "il padrone".

Questo dispositivo culturale, che rende rigidi, formali e distanti i ruoli familiari, risulta con evidenza dall"intervista rilasciata da una donna keniota: "Ho l"impressione che anche noi africani dimostriamo l"affetto fisicamente molto meno di quanto si faccia qua. Qui la gente si bacia si abbraccia, gli uomini con gli uomini, le donne con le donne, i bambini, ma anche gli adolescenti si interessano in prima persona a bambini piccoli, cosa che difficilmente si vedrebbe in Kenya: un ragazzo di 15 anni che si occupa di un bambino di 4, mai più ….. Qui in Italia dove c"è l"affetto in famiglia, c"è una dimostrazione costante dell"affetto mentre da noi uno ha la sensazione che l"affetto c"è perché ci si incontra, ci si vede, si parla, si mangia insieme, però quando si tratta di toccarsi, di abbracciarsi, lo facciamo molto meno. Anche qui ci comportiamo come siamo stati educati".

Nella struttura di famiglia patriarcale l"unico ruolo cui la donna può aspirare è quello di moglie e madre e "una donna, una volta che si è sposata e ha avuto dei figli, ha compiuto il suo unico scopo nella vita" (donna serba); ed è per questo che [secondo la medesima intervista] l"avvenenza è riservata solo alle nubili: "…un bel corpo snello e scattante non è qualcosa da coltivare" da parte di coloro che sono già sposate. Sono le stesse donne che tendono a perpetuare il modello, il mantenimento della tradizione assicura loro sicurezza e realizzazione "a buon marcato": modificare i comportamenti rispetto allo status quo implica sempre una grande forza e un prezzo da pagare. La conformità alle regole prestabilite assicura invece un riconoscimento sociale prestabilito. Nelle parole di una donna colombiana: " la donna avrebbe bisogno di più autostima ed emancipazione. Si sposa allo scopo di esser mantenuta. Sono poche coloro che si vogliono realizzare con le proprie forze, l"uomo ha molto potere. Fanno tanti figli e poi non hanno i soldi per mantenerli. Io sono una eccezione…"

In molte testimonianze, il concetto di tradizione cui ci si appella ogni volta che si vuole indicare qualcosa di giusto e di sacro, qualcosa cui ci si aggancia per definire la propria identità, spesso ha il proprio centro precisamente nella discriminazione della donna. Secondo un uomo serbo: "Il Montenegro è l"esempio più emblematico di questa concezione: la donna ha grande importanza per i figli che tendono a mitizzarla, ma è il padre che tradizionalmente seduto con le mani in mano a prendere ogni decisione".

Nelle parole di una intervistata keniota: "Si tende ad usare questa parola per obbligare le donne a restare in un certo contesto o comportarsi in una certa maniera, di fatto il mantenimento della tradizione implica che le donne continuino formalmente e praticamente ad essere cittadine di secondo grado per molte cose, purtroppo".

Naturalmente, la sua invocazione frequente sta a indicare che la tradizione è in qualche misura indebolita, nel senso che può essere messa in discussione.: "La donna deve essere donna fino in fondo, deve dedicare più tempo all"uomo, anche se lavora; in Italia invece tende a stare troppo tempo fuori casa" (uomo marocchino).

Sappiamo che "la tradizione è donna" nel senso che le donne sono chiamate a conservare il bene prezioso dell"identità collettiva per tramandarlo ai figli mantenendo immutato un modello di organizzazione sociale consolidato nel tempo e infondere un senso di sicurezza sociale. E la tradizione spesso si scrive sui loro corpi, passa attraverso i loro comportamenti, le loro emozioni e i loro abiti. Si scrive anche con il sangue per cementare il gruppo in una comunità di affetti: emblematico è il caso della pratica delle mutilazioni dei genitali femminili dove una importante funzione del rito riguarda proprio questi aspetti, e i corpi diventano lo spazio dove poter esprimere i contenuti dell"identità. Come scriveva Simone de Beauvoir, il compito della donna "consiste appunto nell"integrare la morte alla vita, alla società, al bene…Data l"influenza che la madre ha sui figli, è opportuno per la società farsela amica; per questa ragione la madre è circondata da tanti segni visibili di rispetto, additata a simbolo di virtù e oggetto di culto che è proibito infrangere sotto la pena di sacrilegio e di bestemmia; lei è custode della morale; e, serva dell"uomo, serva del potere, guiderà dolcemente i figli sulle vie stabilite."(S. De Beauvoir, 1949).

 

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La donna è forzata all"obbligo della tradizione, dalla quale non può sfuggire pena la stigmatizzazione e l"esclusione sociale.

Questo modello di relazione fra i sessi si scontra però, nei processi di migrazione, con una realtà diversa che per necessità o a causa di modelli generalizzati, avvicina le donne al mondo del lavoro e della autodeterminazione. Cambia così la percezione della propria immagine: "Nella famiglia in cui abbiamo vissuto c"era sicuramente una divisione di compiti: la mamma cucinava e il padre lavorava nei campi con il trattore…Quella volta mi pareva abbastanza normale che la donna restasse a casa, ora so che è altrettanto importante il suo lavoro fuori casa".

I processi di emancipazione però non sono così scontati e di fronte alle necessità interiori delle donne esposte a nuovi modelli comportamentali, lo scontro con il potere maschile porta anche a un ridimensionamento delle aspettative. "In campagna le donne sono casalinghe, quando arrivano in Italia, per avere più soldi, cominciano a lavorare come donne delle pulizie o fanno assistenza agli anziani. Cambia il ruolo della donna che esce da casa, ma l"uomo resta sempre il capo. Conosco delle donne che senza il permesso del marito non possono nemmeno entrare nella macchina di un amico per un passaggio" (donna yugoslava).

Di fronte a questo variegato panorama della definizione del sé femminile e dei meccanismi di adattamento ai costumi e ai ruoli di mondi diversi, possiamo osservare tipologie di donne diverse. Da una parte, quelle più propriamente "tradizionali"; sono donne che entrano con i permessi di soggiorno per ricongiungimento familiare, poco istruite, vissute sempre in ambienti di massima protezione e coercizione sociale. Anche nell"immigrazione queste donne continuano – e ancor più di prima- a essere dipendenti dall"ambiente (e in primis dal marito) nella loro organizzazione della quotidianità. Per lo più inglobate all"interno del gruppo culturale di appartenenza, sono prive di qualsiasi spinta interiore verso l"indipendenza e l"autorealizzazione. Non accettano di lavorare o non hanno il permesso di farlo dai mariti, tendono a mantenere acriticamente i modelli tradizionali senza mettere in discussione i costumi e i valori della cultura dalla quale provengono. Si trovano a vivere "per caso" in una società alla quale non sembrano in nessun modo appartenere, e rispetto alla quale, manifestano disorientamento ed estraneità: "Sono in un paese straniero. Al mio paese non c"era tanta gente e vedere in strada così tante persone mi fa paura. Sto sempre chiusa in casa. Anche la sera quando mio marito va a lavorare sono sempre chiusa dentro, da sola. Non ho amici qua, anche perché non so parlare italiano. Non so se continuerò a vivere qui o altrove, vorrei ritornare in Africa". (donne beninese).; " Quando sono arrivata qui non mi piaceva per niente perché mio marito lavorava ed io ero tutto il giorno da sola. Nel nostro paese non rimaniamo mai da soli, non sappiamo cos"è la solitudine. Ci sono amici, c"è sempre tanta gente…Quando lui va a lavorare io rimango da sola, apro la porta e non c"è nessuno…" (donna camerunese).

Il sentimento di solitudine è presente in molti racconti. Le donne che non lavorano vivono isolate, tutte rivolte all"interno della cerchia famigliare ristretta. L"unico spazio di relazione sociale è costituito dai propri mariti o familiari e da altri immigrati residenti, non necessariamente provenienti dallo stesso paese. Questa consuetudine all"allargamento della relazioni con cittadini di paesi diversi la si riscontra, in particolare, negli stranieri provenienti dal continente africano, da quello latinoamericano o dai paesi di cultura islamica, o comunque da tutti quei luoghi dove le relazioni sono improntate a stili di vita ancora di tipo comunitario.

Comunque,"isolamento e la frammentazione della rete familiare allargata cui erano abituate alcune donne nei paesi di provenienza non indeboliscono affatto le pressioni sociali alle quali esse sono sottoposte.

Sembra infatti che il ruolo di alfieri della morale e custodi della tradizione, in assenza dei genitori, dei mariti, dei fratelli, delle zie, del capo villaggio, ecc., venga assunto dai membri della nuova comunità di riferimento (connazionali o altri africani), che agiscono spietatamente contro ogni scollamento della tradizione controllando i comportamenti delle "loro" donne.

Molto eloquente è la testimonianza di una mediatrice culturale sul caso di una giovane eritrea che era stata defibulata nell"ospedale di Gorizia qualche anno fa: "Lei era un po" sconvolta, io l" ho vista anche dopo l"operazione, anche perché l" ha raccontata a qualche amica e queste sono andate a dirlo a tutti i ragazzi dell"Eritrea. Così ha subito una concentrazione di attenzione e loro si chiedevano perché una ragazza va a fare questa operazione, per quale motivo? Non è accettato, gli altri concittadini non l" hanno presa bene perché loro dicevano che questa ragazza che è venuta in Italia ha cambiato costumi, invece doveva essere sempre la stessa e vivere come in Eritrea, sposando uno dell"Eritrea e solo al momento del matrimonio poteva fare questa operazione, cioè aprire questa chiusura". La riprovazione sociale a cui era sottoposta la giovane donna è stata così forte che la mediatrice culturale ha dovuto allontanare la ragazza dal gruppo e spostarla, in quanto rifugiata politica, in un'altra città per evitarle danni psichici: "La ragazza reagiva in modo nervoso, qualche volta non mangiava, non si sentiva a suo agio. Si sentiva osservata da tutti".

In molte altre situazioni, tuttavia, il rapporto con il nuovo mondo stimola nelle donne un genuino processo di emancipazione. Ciò avviene, come è ovvio, soprattutto nel caso delle donne che lavorano. Queste iniziano, per la prima volta nella loro vita, a gestire delle risorse autonomamente. Inoltre esse si espongono a un mondo diverso, con possibilità e opportunità di autorealizzazione che non pensavano esistessero. Nella testimonianza della mediatrice congolese, per esempio. "…ci sono donne che vogliono avere la loro libertà, cioè donne che sono venute qua con il ricongiungimento familiare poi non si trovano più con l"uomo, non gli piace più, poi hanno visto quanto valgono qua, si sono emancipate. Queste donne cercano di fare una evoluzione e dicono: mi faccio da sola, voglio vivere da sola, voglio la mia libertà, voglio gestirmi da sola i miei soldi, voglio, voglio, voglio. Se si separa dal marito è libera e fa quello che vuole."

Il primo passo verso l"emancipazione è spesso traumatico e, come si vede, va a influire direttamente sugli equilibri familiari, provocandone a volte il collasso. La rottura con la tradizione e il processo di emancipazione sembrano portare, in mancanza di una parallela presa di coscienza dei diritti e dei doveri fra i coniugi, o in mancanza di una azione responsabile, alla disgregazione della famiglia tradizionale. Emergono crisi familiari che non si sarebbero verificate se le donne avessero continuato a subire passivamente un rapporto di potere consolidato senza metterlo in discussione per mancanza di proprie risorse economiche e sociali.

Secondo una donna ciadiana, questi percorsi di emancipazione avvengono proprio qui, in Italia, perché: "è tutta un"altra società, uno si scopre, già con il fatto che può andare a lavorare, che può avere il suo stipendio, prima dipendeva da lui e adesso qua…può andare con il suo bancomat a prelevare i soldi, e quindi è tutto diverso, ci sono tante cose che uno, se non gestisce bene, può perdere il controllo di sé e magari distruggere la sua famiglia".

La migrazione è vissuta come una crescita e, soprattutto, incide fortemente sulla costituzione di una nuova identità. Essa sgancia, in molti casi, le persone dalla comunità di appartenenza e ne favorisce la crescita individuale, con tutti i drammi connessi.

Dall"altra, le "emancipate" più autonome, caratterizzate da una qualche spinta verso la autodeterminazione, pronte a rompere il tessuto culturale e valoriale della loro appartenenza etnica e a percepire la tradizione come una limitazione o menomazione della loro individualità.

Un caso diverso è quello le donne che si riappropriano della tradizione, o addirittura la reinventano. Le definiremo "tradizionaliste". Esse condividono con le emancipate la spinta alla autodeterminazione, ma, al contrario di queste, vedono nella tradizione e nel mantenimento della cultura etnica una fonte importante di dignità, una chiave per entrare nella società di immigrazione (vissuta in modo critico) senza perdere la propria identità: " Paradossalmente, sono le donne più occidentalizzate e più colte che si fanno portatrici dei valori tradizionali" (donna ciadiana)

La differenza tra le donne "tradizionali" e le donne "tradizionaliste" si approssima empiricamente (e quindi con minore nettezza) a quella che intercorre tra i tipi ideali della "tradizione" e del "tradizionalismo". La tradizione implica un tipo di comportamento prescrittivo (G. Germani, 1975) nel quale il criterio della scelta tra diverse alternative è bandito o ridotto alle componenti più strumentali. In quanto tale, la tradizione non è neppure avvertita come tradizione, ossia come un modello di valori, norme e pratiche sedimentatesi nel tempo e corredate di potere coercitivo sugli individui, bensì come una parte della natura, cui ci si deve conformare come al variare delle stagioni o assoggettare come alle calamità. Come è stato detto, la tradizione parla con la voce della natura. Il tradizionalismo invece è un atteggiamento modernizzato, e quindi elettivo: i soggetti non subiscono la tradizione, potrebbero rifiutarla, ne hanno gli strumenti, e invece la scelgono: "Sono arrivata in Italia tanti anni fa. Quando sono arrivata portavo la minigonna e mi vestivo come voi. Anche al mio paese ero così. Poi mi sono sentita diversa, ho capito che dovevo essere libera di potermi esprimere ed ho scelto di mettere il velo" (donna marocchina). Il mondo contemporaneo ci mostra mille manifestazioni di tradizionalismo, tra le quali forse la più recente e sicuramente la più importante è la ripresa di molti tratti normativi di tradizioni religiose in società ormai ampiamente secolarizzate: naturalmente, con tutti i conflitti che ne vengono. Il tradizionalismo è l"ideologia della tradizione, e si nutre di un sentimento ambivalente ma polemico verso la modernità.

Comunque, sia nel caso delle donne eterodirette (tradizionali), sia in quello delle donne più consapevoli e determinate nell"affermazione di una propria identità diversa da quella occidentale (tradizionaliste), l"emarginazione gioca un ruolo rilevante. In entrambi i casi queste donne vivono inglobate nel loro gruppo culturale o all"interno di un contesto di riferimento ben definito, isolato o relativamente isolato dalla società di immigrazione. Alle prime l"isolamento sociale impedisce di sviluppare gli adattamenti identitari tipici di ogni forma di integrazione sociale in ambienti culturali diversi. Nelle seconde, l"integrazione nel gruppo di provenienza orienta la affermazione della propria identità personale attraverso i segni dell"identità collettiva di provenienza:, per lo più segni attinenti al corpo, quali un abito (scelta del velo) o una distinzione anatomica (scelta, per esempio, di reiterare pratiche tradizionali quali la mutilazione degli organi genitali alle bambine), e comunque oggettivi e dunque inequivocabili. A volte questa identità viene utilizzata a scopi di promozione sociale per sé e per il proprio gruppo senza che ciò comporti alcuna deviazione dagli standard tradizionali, anzi, tutto il contrario. La promozione è favorita anche dall" immaginario collettivo occidentale che –fino a un certo punto- riconosce e valorizza lo straniero in quanto portatore di differenze: "Sono una mediatrice culturale. Spesso mi chiamano a lavorare o a fare conferenze perché loro mi vedono diversa da voi. Porto abiti tradizionali e dico le cose della mia tradizione. So che questo è molto importante. Se vestissi all"Occidentale non credo che sarei apprezzata da voi allo stesso modo…" (donna marocchina). In certi casi il mantenimento o la creazione di un carattere di distinzione culturale e di separazione sociale si trasforma addirittura in uno strumento di avanzamento sociale.

Molti di questi comportamenti corrispondono comunque a diverse strategie per costruire un"armonia familiare e un"armonia all"interno della comunità di riferimento culturale grazie anche a una capacità di negoziazione che può esser attribuita a seconda dei casi alla natura umana o alle capacità delle donne di maggior adattamento rispetto all"ambiente.

Le donne che, in modi diversi, sono spinte comunque alla emancipazione cercano di costruire la realtà mediante forme (giochi linguistici o altro) che consentono loro di rinegoziare i confini di genere, acquisendo potere decisionale e di azione cercando si salvare in apparenza quello maschile che nell"ambiente dell"immigrazione è fortemente penalizzato. Le donne possono così creare un ambiente quotidiano più conforme alle loro aspettative e costruirsi un mondo e di porre in essere una delle diverse possibilità di esistenza al mondo.

Esemplare è questa intervista a una donna egiziana che racconta la sua strategia per salvare il suo mondo sociale fatto di lavoro, realizzazione personale e amicizie contestualmente con il suo ruolo di madre:

"Kmar: Io quando ero in Egitto, mio marito già sa che io lavoro, perché per me il lavoro è importante.

Barbara: Tu sei ingegnere no?

K: Si, si. Lui lo sa che io lavoro, per me è molto importante. Quando io sono qua mi devo occupare, i figli per le donne arabe uno dietro l"altro, allora io voglio lavorare, e lui ha questa idea del lavoro, non vuole accettare l"idea che io devo lavorare qualsiasi lavoro che c"è, perché tu hai lavorato come ingeniere in Egitto, allora vuole che io faccio un lavoro rispettabile, allora io ho cominciato questo lavoro di mediazione, e lui abituato di… (…).Allora lui ha proprio cominciato a lamentare, ma io cerco di tenere tuttee due le cose insieme con fatica, ma andando avanti con il lavoro sono diventata più autonoma, sono diventata anche, informata sul tatto familiare e anche a livello del lavoro e ci sono tante cose che io sono informata più di lui. Fino a un certo punto lui accettava , ma a volte l"uomo arabo, gli piace sentirsi superiore, allora quando stiamo con altre famiglie, parliamo, allora io sempre dall"inizio, allora questa cosa gli ha dato molto fastidio.

B. Perché tu sei più informata?

K. Sono più informata e partecipo anche più nel gruppo…allora lui come esco…mi ha creato problemi nella famiglia all"inizio, fino a quando io non ho capito il problema… ma quando ho capito il sistema, ho cominciato a dare a lui il suo spazio, quando vuole dire le cose, e allora parlo direttamente con lui, non parlo più con gli altri in prima persona, parlo come gruppo, e allora questo sistema ha cambiato il rapporto. Anche il lavoro prima lui diceva prima la famiglia dopo il lavoro. Io ho cercato di tenere tutti e due e dopo il lavoro cerco di non mancare niente anche per i figli, io ho tre figli, cerco di fare tutte le cose per la scuola, faccio tutto io. Per me il lavoro proprio conta tantissimo, mi piace l"Italia, senza lavoro ti dico non mi piace, ma c"è il lavoro[1]



[1] D Carrillo, N. Pasini, Migrazioni, generi e famiglia: pratiche di escissione e dinamiche di cambiamento in alcuni contesti regionali, Milano, Franco Angali, 2009, p. 125-126.




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