-  Trisolino Luigi  -  30/04/2015

DOTTRINE SULLAUTONOMIA NEGOZIALE E TESTAMENTO – Luigi TRISOLINO

-Il pensiero della dottrina sulla causa testamentaria e sull"autonomia negozialtestamentaria

-Critica sull""homo oeconomicus", sul c.d. uomo medio, sul consumatore, sull"uomo nuovo

-Stato liberale, Stato sociale, Stato personologico e autonomia testamentaria; io monadico e io comune

 

Ogni negozio ha una sua causa. E anche il testamento, essendo un negozio giuridico, ha la sua causa. Per causa i vecchi orientamenti di pensiero (per esempio, la trattatistica del Pothier), catalogabili come soggettivisti, intendevano "la somma degli scopi perseguiti dalle parti" (POTHIER), quindi l"insieme delle ragioni che muovono le parti a contrarre. Essendo Pothier un brillante giurista settecentesco, era figlio del suo tempo volto al superamento dei gravosi ostacoli posti alla libertà dell"individuo. C"è poi chi ha definito la causa come una "funzione": si tratta delle tesi oggettivistiche; tuttavia diversi sono gli orientamenti rilevanti nel panorama dottrinario dei difensori di questa seconda tesi, poiché vi è chi ha parlato di causa come funzione (obiettiva) economico-sociale del negozio (BETTI), e chi ha invece individuato la causa nella funzione (obiettiva, pratica) giuridica dell"atto (PUGLIATTI), specifico orientamento oggettivistico da preferire secondo l"opinione dominante. Il Deiana, in "Alcuni chiarimenti sulla causa del negozio e dell"obbligazione", ha affermato che "per quel ch"io sappia il primo in Italia a parlare di una causa del negozio intesa come funzione economico-sociale di esso è stato Vittorio Scialoja nel suo famoso corso del 1893", e anche il Gorla, ne" "Il contratto", ha affermato che "come è noto, i primi sviluppi del concetto di funzione economico-sociale si trovano nel corso di lezioni sui negozi giuridici tenuti da Vittorio Scialoja nel 1892-1893". Si veda poi la teoria di Gorla e Sacco, volta ad escludere radicalmente l"individuazione a sé stante della causa. Vi è pure il caso di un giurista (G. B. FERRI), il quale, pur dichiarando di aderire alla tesi oggettivistica, definisce la causa come la funzione economico-individuale (quindi nel contratto, circoscritta alla singola operazione contrattuale), prendendo la generale qualificazione economica dalla lezione bettiana, e il carattere individualistico, in realtà, dalle tesi soggettivistiche. In virtù della libera ricerca dottrinaria, tuttavia, non può affermarsi con assoluta certezza quale sia l"orientamento che debba prevalere.

La giurisprudenza, comunque, individua la necessità di una caratterizzante giustificazione attribuibile ad ogni atto giuridico, una giustificazione che ne diventi la causa, spesso utilizzando, nel definire quest"ultima, l"accezione di funzione economico-individuale. Volendo quindi riassumere, tuttavia, l"orientamento salutato con buon occhio risulta essere quello volto a far della causa negoziale, l"obiettiva funzione giuridica dell"atto, dove per funzione giuridica deve intendersi la "sintesi degli effetti essenziali" (PUGLIATTI) o, come pure è stato autorevolmente detto dal Perlingieri, la "minima unità effettuale". Chiarita brevemente la questione di come viene generalmente intesa la causa negoziale, si veda brevemente, ai presenti fini, una teoria propria del periodo degli albori del nuovo millennio, periodo in cui la pronuncia della Corte di merito genovese ha dato la nota iniziale per accordare lo strumento testamentario in correlazione, quanto più armoniosa possibile, con la teoria della negozialità, attraversata trasversalmente dal principio di autonomia dei privati consociati. La teoria a cui ci si riferisce è di un giovane studioso, il quale tenta audacemente di sistemare, oltre che di spiegare, i permessi dati dall"ordinamento all"autonomia stessa, realizzantesi questa attraverso il classico strumento formale dell"istituzione di erede; l"impianto teorico "de quo" non fa altro che considerare il testamento quale fattispecie a causa variabile, quindi negozio-quadro ove la forma documentale è scomponibile in una serie variabile di negozi "mortis causa", sia patrimoniali che di ordine personale (PAGLIANTINI).

Ai presenti peculiari fini, si veda come la causa del negozio testamentario in particolare, dopo la sentenza della Cassazione n. 8352 del 25 maggio 2012 (la quale riconosce la liceità di un testamento contenente una clausola meramente destitutiva), è insita in quella natura generica di tipo dispositivo-regolamentativo (dei beni del testatore con efficacia differita al tempo successivo alla morte del disponente), e non più specificamente (nonché, a livello dogmatico-ideologico, tendenziosamente) di tipo dispositivo-attributivo.

Ma si continui a ricercare circa la natura e la conformazione fisiologica, sostanziale dell"atto testamentario, tra le pagine della teorica suddetta dei primi vagiti del nuovo millennio. Nel parlare di scuole interpretative dell"art. 587 c.c., Pagliantini assegna la qualifica di maggior correttezza all"interpretazione che assegna natura testamentaria alle sole disposizioni di natura patrimoniale. Non sembra legittimo all"A. sostenere, come fa Cicu, l"esistenza di due dettami codicistici circa il testamento, una definizione espansiva e una restrittiva (CICU), e nemmeno quanto sostenuto dal Trabucchi, ossia che non sono necessarie disposizioni patrimoniali affinché un atto, contenente soltanto disposizioni di ordine personale, possa essere considerato testamento (TRABUCCHI). "Se, infatti, [afferma Pagliantini riferendosi all"opera del "54 del Giampiccolo] è vero che il testatore può enunciare in forma testamentaria disposizioni non patrimoniali, soltanto quelle patrimoniali si rivelano idonee a caratterizzare il tipo negoziale". Nell"ottica boniliniana invece il testamento è un negozio che disciplina "post mortem" interessi patrimoniali e personali.

Nelle formulazioni che hanno preceduto le attuali fattezze dell"art. 587 nel testo vigente, non è stata mai sostenuta la natura testamentaria delle disposizioni di ordine personale indipendentemente o addirittura in assenza di clausole di tipo patrimoniale; anzi, viene in risalto l"incompletezza della formulazione dell"articolo "de quo", poiché vengono messe sullo stesso piano le disposizioni patrimoniali e quelle non patrimoniali (PAGLIANTINI), malgrado "si è sempre provveduto a chiarire che solo le clausole patrimoniali rappresentano il contenuto fisiognomico del testamento; più specificamente che le prescrizioni patrimoniali costituiscono non tanto il contenuto tipico, bensì il solo contenuto dell"atto mortis causa di ultima volontà" (PAGLIANTINI). Anche se, andando più indietro nella storia della dottrina italiana, per esempio con Giampiccolo e con Bin, si nota la precisazione per cui sono tagliate fuori dall"orbita del contenuto tipico del testamento quelle disposizioni in un certo senso patrimoniali che, però, difettano della qualità della negozialità: Giampiccolo fa riferimento alla confessione e, generalmente, alle dichiarazioni di scienza; Bin esclude per di più quegli stessi negozi non "mortis causa" ma muniti, per le loro circostanze, di semplici effetti "post mortem", come il caso della designazione del beneficiario di un contratto di assicurazione sulla vita o in genere a favore di terzi con prestazioni "post mortem" (si vedano gli artt. 1919-1920 c.c.).

Di una portata equivoca, secondo Pagliantini, poteva apparire la formulazione dell"art. 140 del progetto preliminare del codice, per il quale articolo il testamento è un negozio revocabile "con cui taluno dichiara la sua ultima volontà, da valere dopo la morte, sia mediante disposizioni riguardanti tutte o parte delle sostanze, sia mediante disposizioni non patrimoniali che abbiano carattere giuridico"; per l"A. una siffatta definizione, per un verso, ribadiva i caratteri tipici del testamento (revocabilità, unilateralità ed efficacia "post mortem" dell"atto), per altro verso, invece, nell"equiparazione delle clausole patrimoniali con quelle di ordine personale, "finiva per negare che le disposizioni patrimoniali rappresentassero il contenuto tipico dell"atto mortis causa di ultima volontà" (PAGLIANTINI). Per quanto concerne, poi, la non appropriatezza che, a dir dell"A., caratterizza l"idea del posizionamento sul medesimo piano delle disposizioni patrimoniali e di quelle non patrimoniali, da parte del legislatore dell"art. 587 c.c., si veda la Relazione del Guardasigilli, n. 109 secondo la quale questa che noi potremmo definire una complanarità "de facto" tra le dette disposizioni, rende "meno limpida la nozione del testamento, che nella concezione tradizionale e nella pratica applicazione ha per contenuto l"attribuzione dei beni e solo accidentalmente contiene manifestazioni di volontà dirette ad altri fini".

Ad avviso di chi scrive, nell"appena mostrata ottica di inizio millennio, ottica patrimonialistica a senso unico del testamento nella sua tipica e unica essenza caratterizzante, atta a definirlo, non si vedono resistenze alla ammissibilità della tipicità della disposizione testamentaria di tipo ablativo-diseredativo, poiché (malgrado spesso siano in giuoco i sentimenti delle persone interessate dalla clausola negativa, sia dal lato attivo che dal lato passivo di destinazione soggettiva) l"istituto della diseredazione attiene alla sfera patrimoniale, sfera unicamente accoglibile nella fisiognomica tipica dell"atto testamentario, secondo la corrente di pensiero appena vista. Come ricorda il Pagliantini, la stessa giurisprudenza (Cass. 2 marzo 1950), nelle poche occasioni in cui ha avuto modo di pronunciarsi in merito alla questione del contenuto non solo tipico del negozio testamentario, ma unicamente caratterizzante il testamento, "ha dapprima statuito che si ha apertura della successione legittima [e non, quindi, testamentaria come avverrebbe a seguito della rilevanza giuridica di un vero e proprio testamento] laddove la scheda contenga soltanto delle clausole di ordine personale; quindi ha precisato che il cpv. dell"art. 587 (relativo all"efficacia delle disposizioni non patrimoniali) non elide la regola del primo comma, rappresentando piuttosto un"attenuazione imposta dall"esigenza di accordare rilevanza giuridica alle clausole personali contraddistinte da una forma testamentaria". La Relazione al Codice precisa pure come "in mancanza di disposizioni patrimoniali si può parlare di atto rivestito delle forme testamentarie, ma non di testamento". La visione boniliniana invece, staccandosi, come noto, da questa originaria chiave ermeneutica propria dello spirito codificatore del tempo del legislatore dell"art. 587, propone il rilievo per cui costituisce testamento "anche la manifestazione di volontà di chi, totalmente privo di beni, consegna alla scheda disposizioni totalmente impatrimoniali, palesando di volersi servire di uno strumento giuridico che può rispondere anche ai soli bisogni spirituali del suo autore"; a parer di chi scrive, in questa concezione dell"integrazione dell"istituto testamentario da parte di ognuno dei singoli privati consociati (anche di un "nullatenente"), traspare la voglia di non incravattare il negozio testamentario presso le sole mani dispositive che hanno conosciuto fortune e denaro, patrimoni e ricchezze, o che comunque non navigano nell"indigenza, traspare il desiderio civico di allenare la tipicità negozialtestamentaria alle necessitudini dispositive dei "poveri" (anche di coloro appartenenti alle nuove plaghe pauperistiche dell"infante nostro secolo), che nulla di materiale hanno da trasmettere ai loro successibili. In questo neoromanticismo socialisticamente illuminato, il testamento di tutti, il testamento (anche) dei poveri, verrebbe ridipinto come un atto aperto all"autonomia volizionistica che si pone alla base dell"autonomia dispositivo-regolamentativa generale (e non solo di tipo patrimoniale), che forse in questo caso meglio sarebbe racchiudibile nella formula di autonomia desiderativo-regolamentativa, autonomia dalla quale il testamento medesimo sgorga "liberalsocialisticamente". Liberalmente per via della libertà sostanziale di ("stricto sensu") testare in capo ad ogni uomo, al di là delle differenze di carattere economico. Socialisticamente perché l"atto testamentario si stacca pseudo-marxianamente dal testamento "borghese", "classista" (secondo una fortemente anacronistica terminologia critica che potrebbe però, nella sua vaga sostanzialità, ritrovare la sua semi-attualità negli imprevedibili risvolti delle cicliche crisi capitalistiche), figlio delle esaltazioni sovrastrutturali dell""homo oeconomicus", per approdare verso l"èra dell"uomo nuovo, totale, creativo; anche se, nell"ottica meno proto-novecentesca e più europeistico-liberale e neoliberista, l"uomo "medio" è sempre meno volto a confezionare testamenti, sentendosi trasportato dall"odierna ideologia del mercato dei consumi, nel quale egli è consumatore di accessori transeunti che la società ha reso, da un lato, indispensabili al paniere comune, dall"altro, sempre mutevoli incrementando i rifiuti di "novità" freneticamente passate di moda; in una simile tendenza, si nota facilmente come l"uomo sia portato a cibarsi di quel "carpe diem" oraziano, poco incline alla cura dello statico accumulo proprietario, obsoleto per il dinamismo dei mercati dei consumi, ove è meglio un finzionistico giorno da impavido leone che cento da tradizionale persona.

Riprendendo il discorso teso bipolarmente tra l"orbita della tipicità e dell"atipicità testamentaria, si ricordi come Pagliantini, recandosi brillantemente alla ricerca dell"originaria "mens legis", si leghi alla "opinio" affermatasi dalle dialettiche dei lavori preparatori della norma definitoria dell"atto testamentario, opinione per la quale venne respinta la disposizione che definiva il testamento "come l"atto col quale taluno dichiari la sua volontà, da valere dopo la morte, mediante disposizioni di carattere giuridico, abbiano o no contenuto patrimoniale" (dal verbale n. 23 Atti della Commissione parlamentare sul progetto del Libro "Delle Successioni").

Forte dell"antonomasia, per un verso, e del vincolo della storica "mens legis", per altro verso, la visione patrimonialistica tipica e totalitariamente integrante la fattispecie negoziale testamentaria, nulla ha da togliere all"ammissibilità della diseredazione, tranne nel caso di una forzata iniezione fuori luogo del tradizionale veleno vetero-dogmatico della "summa divisio" all"interno delle vene pulsanti dell"unica dimensione (patrimonialistica) di esplicazione della volizione del testatore; ma, in tal caso, non sarebbe da attribuire questa limitante restrizione alle dottrine che semplicemente propugnano la necessaria associazione della qualifica della tipicità al dato della patrimonialità.

Pagliantini, inoltre, richiama l"osservazione di un autore che aveva espresso il convincimento secondo cui il contratto – quindi, il tipo generale – dovrebbe stare alla vendita – il tipo speciale – come il testamento all"istituzione di erede o all"attribuzione a titolo particolare (BIONDI), e subito dopo averla richiamata, però, la critica osservando che in quest"ordine di idee il primo comma dell"art. 587 c.c. "starebbe ad indicare non già l"unicità del testamento quale negozio, bensì l"unicità dello stesso quale tipo legale", ponendo inoltre l"ulteriore conseguenza di "interpretare la suddetta disposizione [il primo comma dell"art. 587] come una norma che si limita a statuire la tipicità assoluta e l"esclusività del testamento quale fattispecie attributiva di diritti a causa di morte" (PAGLIANTINI). Una tale visione porterebbe sulla via della concezione dogmatica attributivo-testamentaria, quindi, antidiseredativa e negazionista, implicazione contraddittoria nei confronti della testuale disposizione normativa dell"art. 587 che utilizza il verbo "disporre" e non quello "attribuire"; ad avviso di chi scrive, la scelta dell"utilizzo del generico verbo "disporre", data la concezione antidiseredativa che nel "42 imperava sotto le travi portanti della morale che della famiglia faceva non solo una società naturale, ma anche una idealistica patria che la divinità affida all"uomo, può leggersi come una scelta comunque aperta all"evolversi del senso etico e dello stesso pensiero della politica del diritto italiano, per potersi prestare a letture ermeneutiche neutre, atte quindi al riconoscimento di ciò che allora era malamente visto (la diseredazione) e che in futuro sarebbe divenuto sempre più un"esigenza del sistema ereditario codicistico-positivo. Il tecnicismo giuridico ha costituito, nel bel mezzo del mare delle autoritaristiche nefandezze dittatoriali del fascismo, la zattera foriera di quella panacea che il martoriato principio di libera e consapevole autodeterminazione invocava per l"apertura (e la salvezza) del sistema. Ed è, a parer di chi scrive, proprio quel tecnicismo l"entità civica e giuridica che ha (più o meno consapevolmente) saputo ben utilizzare la libra della logica, l"entità la quale ha lasciato a noi posteri la facoltà giurisprudenziale di interpretare la norma, quella stessa norma, al passo del progresso delle liberalità che vi sarebbero state e che si sono effettivamente verificate con la fine della dittatura e l"avvento dell"età costituzionale. Rintracciare i frutti di quel tecnicismo salvifico è compito del giurista, e il verbo "disporre" va inserito nel quadro giuridico-filosofico dei concetti, ove ogni termine è, appunto, una formula specifica atta a dispiegare diversificate varietà concettuali.

Ritornando alle considerazioni svolte dalla teorica pagliantiniana, questa ha voluto riportare un rilievo posto da Capozzi, il quale ha espresso il parere (all"insegna di una idea atomistica) secondo cui ogni disposizione ha una sua "causa […], salvo l"eventuale collegamento negoziale" (CAPOZZI); dallo scritto di Pagliantini leggiamo poi, nella consapevolezza del canone ermeneutico della contrattualistica che ex art. 1363 c.c. delinea la c.d. interpretazione sistematica o complessiva, che "È piuttosto un"attenta ricognizione del dettato normativo […] a rivelare la fragilità di una lettura atomistica, fin troppo esiziale nel sostenere che il testamento, diversamente dal contratto, prescinderebbe dalla regola dell"unità dell"atto" (PAGLIANTINI). Dando uno sguardo alla qualità terminologica manifestata  nell"opera capozziana in riferimento al problema della tipicità del negozio a causa di morte, analizziamo il passo ove si legge che "Il negozio a causa di morte è […] tipico perché s"identifica col solo testamento, inteso come l"atto di destinazione dei propri beni per il tempo in cui il testatore avrà cessato di vivere. Tipicità del negozio non significa, peraltro, tipicità del suo contenuto, che può essere il più vario. […] Sono anche a causa di morte, e devono perciò rispettare il principio della tipicità, le disposizioni complementari, ossia gli atti che, costituendo un accessorio dell"istituzione di erede o del legato, sono da considerare pur essi disposizioni di carattere patrimoniale" (CAPOZZI); poi Capozzi continua nell"elencare le principali di queste disposizioni accessorie, come, oltre ai tradizionali elementi accidentali (condizione, termine, modus), la nomina dell"esecutore testamentario, le disposizioni date dal testatore per la divisione, la divisione fatta dal testatore, la dispensa dalla collazione, etc.

Per quanto concerne la questione della atipicità dell"atto "post mortem", Capozzi procede nel (soltanto) ricordare la tesi tradizionale, la quale ritiene che le disposizioni di carattere non patrimoniale siano valide solo quando la legge espressamente le preveda, in virtù – a dire di questa teorica da cui, è bene sottolineare, l"opera capozziana espressamente prende le distanze – dell"interpretazione letterale del secondo comma dell"art. 587, e in virtù di una concezione che vuol vedere nel testamento un veicolo eccezionale messo a disposizione dei privati. Capozzi prende parte alla tesi dominante (GANGI), per la quale le disposizioni non patrimoniali possono anche non essere espressamente previste; "nel silenzio della legge [afferma l"A.], deve ammettersi la piena autonomia del testatore; egli è libero, cioè, di disporre come vuole anche nel campo non patrimoniale per il tempo successivo alla sua morte. Il codice riconosce quest"autonomia in modo esplicito solo per i contratti (art. 1322); ma ciò non esclude, certo, l"esistenza di un principio fondamentale in ogni ordinamento, secondo il quale è sacra l"ultima volontà, qualunque essa sia, purché non lesiva della legge, dell"ordine pubblico o del buon costume" (CAPOZZI).  Peraltro l"A. continua affermando che la norma del secondo comma dell"art. 587 "va intesa nel senso che il legislatore ha voluto risolvere solo un problema formale; […] cioè chiarire che le disposizioni di carattere non patrimoniale possono essere inserite nel testamento anche da sole" (CAPOZZI). Una visione, quella capozziana, meno radicale di quella che poi sarebbe stata la pagliantiniana fisiognomica tipicità caratterizzata dalla patrimonialità, ove il testamento è una fattispecie legale che ospita altri negozi giuridici rivestiti della forma (documentale) testamentaria.

In tema di diseredazione, ma come "prius" logico, in tema di atto testamentario, l"autonomia e la qualificazione dell"intensità di essa, giuocano il ruolo di mattoni costituenti nella riflessione circa l"ammissibilità e la regolamentazione auspicabilmente normativa della clausola (meramente) destitutiva. Dietro ad ogni specifica manifestazione autonomistica della realtà materiale, concreta, vige una necessitudine o un"aspirazione dell""ego"; una mera somma di queste volizioni dell""ego" autodeterminato sarebbe, oltre che realisticamente impossibile, forse proprio inutile; è il minimo comun denominatore di esse, generalmente riconosciuto nella sfera dei desideri nonché delle vicissitudini largamente presenti in una data epoca presso un certo popolo, o più in generale insito agli esseri umani, a determinare quell"esigenza autonomistico-negoziale sacralizzata negli ordinamenti giuridici, attraverso il riconoscimento codicistico nell"èra (neo)positivistica codicistica e post-codicistica (e – non ce ne voglia il lettore – codicistico-crepuscolare). Quel minimo comun denominatore è l"espressione di bisogni umani, come il bisogno (non primario o istintivo s"intende) di assicurare la trasmissione dei propri beni ai propri cari, di lasciarli in eredità a qualcuno per amor di costoro e per amor della presumibilmente sicura conservazione del frutto dei propri sforzi lavorativi, o dei beni che hanno un significato morale, affettivo; a seconda dell"evolversi del modo di vivere la socialità, l"essere umano può avvertire esigenze differenti e nuove; la diseredazione, magari non sentita nell""ethos" della popolazione italiana degli anni "40 del secolo scorso, o magari – più semplicemente e realisticamente – non avvertita dal legislatore codicistico come un bisogno dei consociati, non può restar vittima del passivismo di chi è chiamato a produrre le norme, e prima ancora, dell"incuranza e insensibilità di chi, nel proprio mandato di rappresentanza, dovrebbe farsi autorevole orecchio del volere dei singoli, non necessariamente uniti in massa. Il minimo comun denominatore, quindi, risulta essere sempre in trasformazione, come la engelsiana materia in continuo movimento; ed è un minimo comune denominatore di esigenze negoziali, le quali, non essendo la mera somma delle esigenze autonomistico-negoziali di tutti, è un po" come il rousseauiano io comune, inteso a banda larga e non totalitaria.

A realizzare un interesse dell"io, integrando conseguentemente una funzione, non è solo lo specifico atto classificabile negoziale in virtù del maggiore risalto del momento volontaristico. Come è stato rilevato da una parte della dottrina, "ogni atto semplice, e non solo ogni negozio, ha una funzione" (SACCO). Tuttavia, altra parte della dottrina pone la questione partendo da un"altra postazione analitica, ossia considerando che se è vero che anche l"atto in senso stretto può assolvere  ad una funzione, realizzando così un interesse, è altrettanto vero che questa funzione è ontologicamente diversa da quella che predica il negozio (PAGLIANTINI, BIGLIAZZI GERI).

A dire di una voce dottrinaria, il criterio realmente discretivo tra il negozio e l"atto in senso stretto è costituito da una tipologia effettuale innovativa, detta anche costitutiva (PANUCCIO, FALZEA), e inoltre l"atto in senso stretto non genera un mutamento del diritto ma un mutamento nel diritto, in virtù di un processo di attuazione del diritto (PANUCCIO, FALZEA), come si può sottolineare, appunto, di semplice attuazione, appunto, non di innovazione. Quindi, ad avviso di chi scrive, e sulla scorta di siffatte scuole di pensiero, il negozio sarebbe una tipologia di atto nella sua intrinsichezza "legalmente atipica" (espressione meta-ossimorica i cui due termini risulterebbero entrambi corretti a seconda dei punti di vista e delle sensibilità), comunque non sistematicamente disciplinata "expressis verbis" a livello codicistico e, in generale, positivo; ma, in ogni caso avvertita dai compilatori e dagli interpreti come il fantasma afflitto che tenta di incarnarsi nelle sembianze e nei nebulosi panni dell"atto giuridicamente rilevante, per riscuotere grazie ai canoni liberali dell"ordinamento tutto, successi e autonomie volitive, o anche solo, più latamente, accentuazioni e sostegni all"elemento psicologico-volitivo di chi si trova a "negotium facere".

Alcune conclusioni poste da Pagliantini sogliono affermare che "mentre l"atto giuridico in senso stretto risulta predicato da un"efficacia di tipo esecutivo, produttiva di una trasformazione solo interna al rapporto, il negozio, al contrario, rappresenta una regola primaria, costitutiva di una vicenda modificativa della struttura della situazione fondamentale da cui procede. Il che significa che il negozio postula un giudizio riguardante tanto l"an quanto il quomodo" (PAGLIANTINI). Infine, il pensiero dell"A. che racchiude la sua posizione critica innovativa al riguardo, come il nano sulle spalle dei giganti che può vedere più lontano grazie all"altezza raggiunta dai suoi predecessori, oltre che alla sua statura auspicabilmente in continuo crescendo e al suo spessore temprato dagli stimoli della ricerca, è ravvisabile nelle affermazioni volte a riconoscere che "Se i precedenti rilievi sono esatti, dovrà allora convenirsi che la causa, quale sintesi logica degli effetti giuridici essenziali, rappresenta […] il vero criterio che fonda la nota della negozialità" (PAGLIANTINI).

Al cospetto degli studi che sottolineano l"innovatività della tipologia di effetti propria dell"atto che si qualifica come negoziale, sovviene un"ispirazione che può ben rendere l"idea del salto di qualità che il consociato effettua nel porre in essere un negozio giuridico. Infatti, a parer di chi scrive, la cui "forma mentis" è spesso improntata a servire le poetiche danze dei concetti interattivi della logica critica, nel panorama giusprivatistico, l"atto giuridico in senso stretto rappresenta il prosaico paganesimo della normalità già riconosciuta, e cristallizzata, mentre, nella notte della tassatività legale, una luce di ulteriore autonomia discende dai "principii majores" della liberalità e dell"autodeterminazione, sempre entro i limiti codicistico-tavolari di meritevolezza e, magari, di socialità dell""actum", e in ogni effettualità innovativa, un "verbum novum" si sedimenta, o proprio si plasma, e viene a dimorare nell"esperienza del "ius". Ora, sta a noi contemporanei indicare se sia giusto piantare il paletto volto a limitare i "verba nova exheredationis" ("exheredatio" da intendere nel senso moderno di diseredazione) che potrebbero di volta in volta manifestarsi all"esperienza materiale dell"io correlato ad altri io. E, una volta risolta la "quaestio" dell""an" dei limiti alla facoltà diseredativa, spetta affrontare e risolvere, con la dovuta apertura alla mutevolezza delle circoscrizioni di ogni vario "hic" e di ogni diverso "nunc", la questione del "quomodo" per la disciplina che inevitabilmente si richiederebbe in virtù del soddisfacimento del generale interesse dei consociati alla certezza e alla sicurezza del diritto: sia che alla "quaestio" sull""an" si dia una risposta positiva, affermativa, sia che ad essa si ponga lo stridente limite di una risposta secca e negativa, infatti, occorrerebbe una disciplina atta ad indicare gli effetti di una pratica testamentaria inevitabilmente sentita senz"altro da più di una persona, ma disonorevolmente ignorata dalla nomo-positivizzazione del rinnovamento codificatorio (anche in caso di non ammissibilità della diseredazione, sarebbe comunque auspicabile, per non rifarsi ai principi generali, ovvero per non utilizzare il procedimento analogico, una positivizzazione delle conseguenze della non ammissione della clausola negativa, come la nullità, invalidità radicale magari attenuabile in alcune circostanze con la più "soft" annullabilità, ad esempio).

Bisogna, quindi, sempre misurare la temperatura al principio dispositivo dell"art. 587 c.c., e controllare le oscillazioni della febbre negoziale, rappresentata dalla limitante dogmatica tradizionale, nemica della dignitosa autonomia negoziale.

La critica di Pagliantini prosegue affermando che "L"idea […] che l"atto di ultima volontà formalizzi una vicenda dispositiva mortis causa non si rivela, a ben vedere, coerente con la definizione che normalmente si offre (e che correttamente dovrebbe darsi) di atto dispositivo. Se, infatti, per dispositiva deve intendersi quella fattispecie costitutiva di una vicenda attributiva (a latere dantis) –acquisitiva (a latere emptoris), direttamente modificativa della titolarità formale di situazioni giuridiche subiettive, allora la disponibilità non è una nota che possa predicare l"atto di ultima volontà". L"Autore, inoltre, ad avviso di chi scrive, cerca di irrompere maggiormente e con rilievi esemplari alla mano, nel "nihil novi sub soli" dell"asfissiante afa dogmatica, eco di restringenti concezioni arcane secondo cui tutto quello non espressamente consentito era vietato, mentalità istituzionale vigente nell"apparato legislativo precedente all"avvento nelle istituzioni stesse di una coscienza tendenzialmente liberaldemocratica, nella quale ultima invece vien posto a vessillo l"opposto principio pel quale è invece consentito tutto ciò che espressamente non è vietato. In questo rinfrescarsi ottico della logica, posto a base dell"autonomia della "matura" età storica del tendenziale non-autoritarismo e della auspicabile piena non-restrittività, l"istituto diseredativo, pur contemplando per i propri ingranaggi tecnici la speranza di una riforma nomo-foriera che lo consideri esplicitamente parte integrante del sistema testamentario, non ha motivo, appunto, in virtù del progresso di mentalità raggiunto, di avvertirsi come non consentito per via della sua non espressa previsione, a maggior ragione poi se si intende, come la sentenza n. 8352 della Corte di Cassazione del 2012 ha fatto, il principio dispositivo come meramente regolamentativo, includente quindi tanto la specificità della disposizione positiva di attribuzione, quanto la specificità della disposizione negativa di destituzione. I rilievi di irruzione nella tradizione, da parte di Pagliantini, sono condensabili nell"esempio che l"A. fa circa il caso della clausola modale, una clausola "che permette di evidenziare come il contenuto del testamento non si esaurisca nell"esclusiva nominatività dell"istituzione di erede o di legato", anzi, il testatore "ben può regolare il suo assetto patrimoniale semplicemente imponendo all"erede (legittimo) l"esecuzione di un onere a tutela di un interesse personale (della sua famiglia o di una classe indeterminata di soggetti)" (PAGLIANTINI). Inoltre, a dir dell"A., considerazioni analoghe possono farsi per la clausola di riabilitazione e per l"atto di costituzione di una fondazione per testamento: in particolar modo, ritiene che "la riabilitazione, benché non costituisca né un titolo per la delazione, né una clausola attributiva di beni, non rimuove una causa di esclusione ex post dall"eredità, ma si limita a cancellare una causa impeditiva della vocazione (rectius un"incapacità di succedere operante ipso iure)" (PAGLIANTINI); per quanto concerne invece la costituzione di una fondazione "ex testamento", "la c.d. dotazione, sebbene sia obbiettivata in un documento autonomo, rappresenta pur sempre un atto coessenziale ed inscindibilmente connesso con il negozio costitutivo: un atto privo di una causa propria che partecipa, in ragione di una sostanziale unità funzionale-teleologica, della ragione giustificativa sottesa al negozio di fondazione (ossia la c.d. creazione di un nuovo soggetto giuridico)" (PAGLIANTINI che riprende qui GALGANO).

In questo intervento scientifico si sta rendendo conto delle teorie sulla negozialità e sulle varie "libertates" e autonomie attribuibili ai privati consociati: tutto propedeutico a una visione critica e non riduttiva che volga gli occhi sul piano in cui nasce o dovrebbe prender le mosse la manifestazione negoziale diseredativa.

Per concludere i rilievi sottolineati della teorica pagliantiniana, si richiami il monito dell"A. verso la scomparsa della causa dal campo delle successioni, scomparsa che è il frutto di quell"operare di certa dottrina, la quale, a partire dagli anno "60, "ha sottoposto ad una serrata critica l"idea della c.d. funzione tipica (immanente all"astratto schema negoziale) in nome di una più attenta valutazione degli interessi realmente perseguiti dalle parti"; chiarisce infatti in seguito che "dovrà poi procedersi a verificare l"efficienza euristica di quella ricostruzione che propone di identificare la causa testandi con l"interesse del testatore rinunciando all"intermediazione logica costituita dalla struttura tipologica della fattispecie negoziale"(PAGLIANTINI). La causalità (in ogni caso, ad avviso di chi scrive, comunque attinta in ultima istanza presso le volizioni, per desiderio o per necessitudine, dell"io) – come oggi è specificamente intesa – potrebbe dirsi che si presta a considerare solo gli interessi di ogni monadico io che si chiude nella propria sfera volitiva; la causalità, quindi, non si eleva alla garanzia degli interessi dell"io comune, comun denominatore minimo ed essenziale, nocciolo duro della tipologia negoziale da considerare generalmente.




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