Letteratura  -  Redazione P&D  -  08/03/2022

Gabriella Marcatajo ha letto ‘’Rifiorire’’  

Rifiorire è un libro che potremmo definire giuridico letterario, a vocazione esistenziale, utilizzando un’etichetta molto cara all’autore, frammenti di esistenza dimenticati da un diritto che, troppo spesso, si trincera dietro muti formalismi. 

 Un dipinto sulla vita tratteggiato da un fine giurista, attento alla vita, a far risaltare quel che il diritto normalmente non dice. 

Con grande maestria dell’autore, letteratura e vita si intrecciano in un affresco armonico, capace di catturare il lettore in una dimensione quasi fiabesca, dove realtà e fantasia si confondono in un tutto unitario. 

 Il lettore si trova immerso in uno scenario variopinto, composto da pezzi variegati, come schizzi di un dipinto apparentemente senza trama, ma che nell’insieme esprimono un’idea, il filo rosso dell’attenzione.

Frammenti di vita, storie vissute, trame di film, citazioni letterarie, racconti episodici che esprimono le medesime domande e reclamano le medesime risposte giuridiche, dalle pieghe dell’esistenza, negli interstizi del diritto, in quei chiaroscuri in cui il diritto non entra, zone d’ombra, che tratteggiano la qualità dell’esistenza.

Storie di vite distrutte o rifiorite, storie di dipendenze, di privazioni, prigionie ingiuste, criminali irriducibili, pentimenti, fughe verso la libertà, storie di abusi, pedofilie impunite, e lì e qui spiragli di rinascita. 

Quali le risposte e per quali domande di fragilità?

“Droga e alcol non rappresentano le sole questioni sul tappeto”, scrive l’autore, “Che cosa intendere per declino e per rigoglio, nel diritto civile; come operare lungo i vari comparti, quale lievito occorra al fragile volta per volta”.

Cendon traccia un percorso verso una possibile soluzione. Che il diritto si pieghi alla storia, alle sue sfumature, impari a monitorare le risposte in ragione della peculiarità delle domande. 

Si può rifiorire anche dalle situazioni più buie, se solo si ascolti la voce delle singole vite. La specificità delle situazioni, nessuna uguale all’atra, non è incasellabile in soluzioni predefinite, richiede risposte specifiche. 

Sembra profilarsi un richiamo implicito alla ragionevolezza, a quel bilanciere dei diritti fondamentali in uso nella prassi delle Corti, chiamato a guidare ora l’attività legislativa, suggerendo nuovi strumenti, come il patto di rifioritura, in grado di porre attenzione sulla qualità dell’esistenza individuale.

“Il piano dell’inclusione, osserva Cendon, non può essere qualcosa di rigido. Non esistono schemi di condotta applicabili a tutti; scritti in alto, con lo scalpello da marmo. Fondamentale, certo, l’oggettiva qualità dell’esistenza; e molte appaiono le uniformità prescrittive al riguardo”.

E così l’autore dell’amministrazione di sostegno ritorna su punto, a quasi 20 anni dalla sua introduzione suggerisce una rimodulazione, dettata dall’esperienza, dalla sua storia applicativa. 

Da qui la proposta del patto di rifioritura, un patto tra competenze diverse, giuridiche, mediche, psicologiche, sociali, che monitori costantemente le esigenze e i bisogni dell’amministrato, avviandolo verso un percorso di autentica rifioritura. 

L’asettico istituto dell’amministrazione di sostegno si stempera attraverso un accordo tra giudice, psicologo, amministratore comunale, che segua il percorso, modulando le risposte in ragione delle diverse domande. 

Se l’amministrazione di sostegno era nata dall’esigenza di affiancare ai rigidi schemi dell’interdizione e dell’inabilitazione, diretti a tutelare le situazioni patrimoniali dei soggetti “pericolosi”, marchiando con il sigillo dell’incapacità persone bisognose di tutela personale, la prassi ha rivelato ulteriori rigidità anche nella tutela del soggetto sottoposto ad amministrazione di sostegno. 

L’amministrato si rivela bisognoso di un sostegno che non può che essere specifico, modellato sulle sue specifiche necessità, delle quali il giudice non può essere a conoscenza, non avendo le competenze specifiche. 

Occorre un gioco di squadra che coadiuvi il giudice nell’adozione dei provvedimenti, muovendo dalle reali esigenze dell’amministrato, coinvolgendo quest’ultimo in un percorso progressivo a tappe, che non può escluderlo dal compiere gli atti della vita di ogni giorno. «Il fatto di accusare disagi psichici”, scrive l’autore, “non significherà che la persona non possa, sul piano delle iniziative, collaborare alla propria rinascita. Neanche il fatto che un individuo sia “incapace di intendere e volere”, secondo i crismi ufficiali, significherà che i suoi propositi non contino.”

La prima strategia di rifioritura deve essere l’ascolto. La fragilità, qualunque sia la sua forma, va innanzitutto interrogata ed ascoltata. In questa direzione numerose sono le normative che pongono l’ascolto quale momento centrale di una strategia normativa, così la Convenzione internazionale sull’infanzia, del 1989, la Convenzione sui diritti dei disabili, del 2006, la riforma del diritto di famiglia del 1975, la legge 180, sull’abolizione dei manicomi del 1978, la legge sull’interruzione di gravidanza, del 1978, la legge sull’adozione, del 1980,  la legge sui trapianti, del 1999, la normativa sull’amministrazione di sostegno, del 2004.

Lo schizofrenico, l’epilettico, il ludopatico, il tossico dipendente, l’anziana signora sono tutte situazioni non omologabili in unico asettico schema di soluzione. Diverse le storie di Aldo, Dafne, Plinio, Giacomo, Giorgio, Tristano, le ragazze. La soluzione non può che essere “un vestito cucito su misura”.

“A ciascuno il suo”, allora, propone l’autore.

La prassi insegna che la realtà sfugge ad incasellamenti di ogni tipo. “Accentuate o meno, di singolarità non ne mancano tra le persone: d’estate o d’inverno, più o meno lecite, per i forti o per i deboli, di giorno o di notte”. In gioco sono persone, l’una diversa dall’altra, la cui tutela non può prescindere dalla realtà ed essere imbrigliata in un unico calderone.

«Di due specie, osserva l’autore, sul piano gestionale, gli errori in tema di rifioritura. Allargare i cordoni, quando occorrerebbe invece stringerli. Tirare eccessivamente le redini, quando bisognerebbe piuttosto allargarle. Ci sono casi in cui, lasciato a se stesso, libero di decidere, un “non competente” rischia di confondersi. Altri nei quali, benché ci si trovi davanti a un essere vulnerabile, bisognoso di protezione, quel pericolo non esiste”. “Mai interdire le persone in coma, né quelle in stato vegetativo” come “Grottesca l’idea di un magistrato proteso sul giaciglio di Eluana, afferma l’autore.

Il rischio di danni è altissimo, la difficoltà di un traguardo di rifioritura anche. E il diritto non può abdicare alla funzione di correggere e guidare verso traguardi di rifioritura, persone della cui tutela si occupa, senza vanificare per questo l’obiettivo di tutela. Non può limitarsi a “lambire” quelle isole fatte di contesti personali e familiari, di abusi, di danni. Deve intervenire, perché è in grado di indirizzare verso percorsi sananti ed è questo il traguardo di tutela che è diretto a perseguire. 

E così, osserva l’autore, “esistono situazioni in cui una legge o una sentenza indovinata non potrà, ad ogni modo, che portare del bene; pur nell’ambito domestico. Una normativa sulle unioni civili, ad esempio, così che gli omosessuali possano semi-sposarsi; e non siano costretti a sopportare campagne di stampa, offese o falsità improvvisate, contro di loro.

Sullo sfondo un interrogativo rimasto in sospeso: Esiste un diritto alla felicità ed il diritto può e deve farsi carico della sua tutela? Dalle pagine di rifiorire sembra emergere una risposta positiva. L’esistenza di un diritto alla felicità integra il presupposto fondante un percorso di rifioritura, costituendone il suo traguardo.

“Soltanto a certe condizioni, di freschezza e dignità elementari, merita di essere vissuta la vita”.

L’ordinamento può e deve incoraggiare percorsi di rifioritura nella misura in cui questi sostengono la persona in un processo di sviluppo della sua personalità. In questa prospettiva il diritto alla felicità si configura come diritto ad un benessere esistenziale, ad un livello dignitoso di qualità della vita, quale presupposto necessario per la formazione della personalità.  

Il diritto allora deve eliminare, ridurre e correggere quelle situazioni di ostacolo ad una piena realizzazione della persona, nella misura in cui questa, a causa di menomazioni fisiche o psichiche, di abusi, di privazioni, di disagi esistenziali, di danni endofamiliari o di danni ambientali, sia di fatto compromessa.

 

E cosi dinanzi a fenomeni di danno esistenziale fuori e dentro la famiglia, lesioni, lutti, stalking domestico, errori medici, molestie alla coppia, tentacoli mafiosi, licenziamenti ingiusti, mobbing, errori giudiziari, violenze sessuali di terzi, banche scriteriate, locatori senza scrupoli, il risarcimento deve poter entrare nel focolare.  

Cosi come deve proteggere gli animali di affezione, anche se trovatelli e privi di valore economico, o l’ambiente, quale habitat naturale esistenziale in cui ciascun individuo svolge la sua personalità, pur dinanzi ad una legge che sembra limitare la legittimazione ad agire alla sola autorità pubblica.

La duplice natura del danno ambientale lo colloca in quella terra di confine tra pubblico e privato, che non può escludere lo strumentario privatistico, “coi suoi rimedi a misura d’uomo”. “L’ambiente è stato elevato a res publica dal legislatore? I soli a poter agire contro gli autori di un inquinamento sono gli organi dello Stato?” si interroga l’autore: «Non serve ogni volta, in modo esplicito, una disposizione di legge.» Andrà comunque permesso, a chi ama trastullarsi nella natura, l’ingresso nei campi e nei boschi non recintati; e gli consentiremo altresì di raccogliere, purché non esageri, lamponi selvatici, primule, roselline di cespuglio”.

Cendon auspica, quindi, stagioni più ariose per lo strumento risarcitorio a tutela delle variegate vittime di danni esistenziali, ora a causa di fabbriche di acciaio che emettono polveri tossiche, ora per colpa di campane rumorose nelle prime ore del mattino.

Un nuovo approccio si rivendica in tema di animali. Va rivisto il problema del maltrattamento delle bestie, così come riconosciuta ufficialmente la “pet therapy” «I grossi cani che uccidono esistono, bisogna pensarci prima del fatto; specie quando siano in gioco dei bambini (…), e va combattuta la giurisprudenza che, ancor oggi, nega il risarcimento del danno morale ed esistenziale al proprietario, in caso di uccisione dell’animale di affezione.» “Non è in gioco soltanto il cane del cieco, il gatto per i sordi o per chi non sente l’odore del gas, osserva l’autore, anche il barboncino da salotto ucciso casualmente nella house setting, in autostrada, o morto per colpa di un veterinario; oppure un bastardino senza pretese, un pappagallo con poca fantasia, un cardellino uguale a tutti gli altri “. 

Un tema centrale rimane il dolore ed, al riguardo, si suggeriscono nuove strategie idonee a differenziare pianto e lacrime e voci esistenziali, il “sentire” ed il “fare”. 

Cendon invita, allora, a “distinguere il fuori ed il dentro, non atteggiare il patimento «quale appendice del biologico»: indennizzandolo in percentuale, secondo una tabella di partenza”. 

Necessario, ancora una volta, diversificare e, di conseguenza, autonomizzare la figura del danno esistenziale, vale a dire “il caso in cui si soffre, “senza che il nostro corpo c’entri”.   

Si tratta di modificazioni peggiorative della qualità dell’esistenza indipendenti da patologie fisiche o psichiche, che ne compromettono tuttavia il benessere, risolvendosi in rinunce ad attività a reddituali caratterizzanti l’esistenza. Lutti, mobbing, tradimenti, un figlio nato malformato; stroncature maliziose, soprusi amministrativi, discriminazioni, molteplici le fattispecie rientranti nella discussa categoria del danno esistenziale.  

 “Cosa sia la sofferenza, nelle persone, cominciare a domandarselo, afferma l’autore, “qualcosa più sul fisico o sullo psichico, o che stinge su entrambi, al fondo o in superficie. Occorre differenziare uno spasmo dall’altro, separare i crampi diurni da quelli notturni, le cicatrici; immaginare delle subcategorie, delle scale. Dare valore ai tempi, alla sensibilità delle vittime; i giorni asciutti distinti da quelli umidi. Non trascurando le diversità fra donna e uomo, tra anziani e non anziani; le peculiarità nei bambini, negli adolescenti”. 

Il male, scrive emblematicamente Cendon, preso sul serio dal diritto.

In questa direzione si registrano i progressi raggiunti sul fine vita. Il diritto soggettivo a non star male, nel corpo e nell’anima, secondo la legge 15 marzo 2010, n. 38, che «tutela della dignità e dell’autonomia del malato»: nel segno della «qualità della vita fino al suo termine»; in vista di sostegni sanitari e socio-assistenziali, al malato e alla sua famiglia.

La strategia di cura sembra trovare il suo punto di forza nell’elevare sensibilità ed empatia a strumenti di cura. “Sincerità quanto alla diagnosi, linearità nella prognosi”, in altre parole, afferma Cendon “Il tempo della comunicazione innalzato a tempo di cura”.  

Presupposto fondamentale il consenso informato. E così, nella  disciplina sul testamento biologico,  il legislatore precisa che «nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata»; così come  sulle disposizioni anticipate di trattamento, stabilisce che «Ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi… può, attraverso le DAT, esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari».

In definitiva, alla luce dell’excursus tratteggiato, se al diritto si riconosce una funzione promozionale ed educativa, la sfida di oggi è quella della fragilità in tutte le sue forme.  

“Il diritto”, osserva l’autore, “ingaggia a volte le sue battaglie: con leggi e sentenze cerca di contrastare forme di razzismo, intolleranze religiose, discriminazioni fondate sul colore della pelle, sul genere maschile o femminile”. Alla base un imperativo categorico: «Chi arrechi volutamente un male psichico dovrà, più degli altri, non farla franca» ed in questa direzione alle sentenze va assegnata una funzione empatico-partecipativa.

 

‘’Rifiorire non è semplice» conclude l’autore, «resta possibile tuttavia.» L’amore si mette spesso di mezzo, tra le persone, la violenza è anch’essa frequente. Conta la lealtà verso i compagni, influisce il ricordo delle sventure giovanili. Il diritto può fare la sua parte, sui risultati pesa molto la sorte”.

 

Con grande abilità narrativa ed una straordinaria sensibilità giuridica, Cendon ci consegna un ritratto empatico e magistrale della fragilità, scolpita in tutte le sue possibili forme. Interrogata da tutte le sue angolature, la fragilità pone al diritto domande che non sempre trovano risposte adeguate. Lo strumentario privatistico, nella prospettiva suggerita dall’autore, si rivela tuttavia capace di offrire soluzioni adeguate, alcune già conquistate, altre vengono individuate con grande capacità innovativa.

 

Il fine giurista, sensibile alla vita ed ai profili esistenziali, dopo il danno esistenziale e l’amministrazione di sostegno, ci sorprende ancora una volta con un nuovo progetto esistenziale di vita e di rifioritura, che attraverso la rivitalizzazione dello strumento risarcitorio, la diversificazione ragionevole delle situazioni, l’ascolto, l’empatia, il coinvolgimento empatico ed informato del soggetto fragile, sembra offrire nuove risposte a nuove ed antiche domande.

 

E allora emblematica si rivela la citazione letteraria “Non puoi fermare il vento, ma devi sapere come fabbricare mulini”. Miguel de Cervantes


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