Decisi a un certo punto che non potevo passare il tempo a leggere classici, a sentire canzoni americane alla radio; distillando gocce intimistiche, fra epistole e notturne invocazioni a Venezia. Dovevo misurarmi con la vita fuori di me, anche con la politica; che nel mio caso era quella universitaria, così come la si giocava allora: un moltiplicarsi di assemblee, di ingenuità, anche però stagione di apprendistati e di cimenti sessantottini, tra giornali studenteschi ed elezioni, discorsi e scimmiottature di sigle e rituali di stampo nazionale.
Il diritto era noioso nel complesso, spesso arido, parecchio erudito, non molto cinematografico, i professori dalla cattedra non facevano granché per renderlo avvincente; decisi comunque che avrei studiato per la mia parte, che mi sarei fatto promuovere: anche perché conservare il collegio voleva dire superare tutti gli esami dell’anno entro la sessione di ottobre, con una media alta, senza prendere un voto inferiore al ventiquattro.