Letteratura  -  Redazione P&D  -  19/06/2023

Il lavoro nella Divina Commedia - Davide Pugliese

A più di 700 anni di distanza, può un’opera letteraria del 1300 fornire spunti di riflessione per i professionisti del diritto e in generale del mondo del lavoro? Si, se ti tratta della Comedia, o Divina Commedia, come fu ribattezzata dal Boccaccio qualche anno dopo la morte del suo Autore: Durante di Alighiero degli Alighieri, detto Dante.

Una premessa è però d’obbligo. L’utilizzo dei classici del passato, più o meno recente, per affrontare tematiche a noi contemporanee è sempre un’operazione rischiosa, in quanto ci si muove su un filo sottile, con il rischio di snaturare, anche involontariamente, il pensiero originario dell’Autore, attribuendogli concetti che non avrebbe mai potuto sostenere in quanto semplicemente non è un uomo o una donna dei nostri tempi.

Per questo motivo, lo scopo di questa brevissima riflessione non è quello di cercare tra le righe della Divina Commedia vaticini o premonizioni per il sistema economico e del nostro secolo, che Dante non ha conosciuto e non poteva immaginare.

Da dove partiamo? Da una prima doverosa considerazione: la vita economica del suo tempo non era un tema estraneo al Sommo Poeta, nonostante fosse un intellettuale prestato per un periodo alla politica, tant’è vero che, sorvolando sui giudizi non sempre lusinghieri per i suoi contemporanei - a voler seguire Boccaccio l’Alighieri aveva un caratteraccio -, all’interno della sua Opera principale si rinvengono svariate descrizioni di mestieri e lavoratori.

A titolo di esempio, è possibile citare alcuni versi in cui viene menzionata l’attività agricola, la vita nei campi e la pastorizia: i verdi pascoli trai quali scorre il Mincio uscendo dal Garda (If, XX, 75); il comportamento di alcune anime il cui incedere ricorda quello delle pecore che abbandono l’ovile in coppia, in gruppi di tre o quattro, addossandosi le une alle altre (Pg, III, 79-84); le capre che si riposano all’ombra, sazie dopo aver brucato (Pg, XXVII 76-81); il povero villano che affacciandosi dalla sua abitazione durante una mattina d’inverno, si preoccupa nel vedere i campi ricoperti dalla brina, ma poi recupera fiducia quando con il passare delle ore il calore del sole dissipa il biancore e lui può condurre il gregge al pascolo (If, XXIV, 1-15); oppure il contadino premuroso che ronca la terra (If, XX, 47-48) e il contadino che si riposa dopo una faticosa giornata di lavoro, osservando le prime lucciole estive (XXVI, 25-30).

Non è un caso, inoltre, se spesso il pastore viene utilizzato per connotare positivamente o negativamente un atto, come il cattivo pastore che lascia sole le sue pecore (Pd, XI,  127-129) o quello che pernotta al loro fianco per difenderle dai predatori (Pg XXVII, 82-84). 

Non solo l’agricoltura e l’allevamento, trai versi della Comedia si rinvengono anche ricostruzioni di attività che oggi definiremmo industriali, come le famose terzine che raccontano del brulicante arsenale di Venezia durante il periodo invernale, quando le maestranze riparavano le navi in previsione del ritorno in mare (If XXI, 7-15):

Quale ne l’arzanà de’ Viniziani 
bolle l’inverno la tenace pece 
a rimpalmare i legni lor non sani,                                   

ché navicar non ponno - in quella vece 
chi fa suo legno novo e chi ristoppa 
le coste a quel che più viaggi fece;                                

chi ribatte da proda e chi da poppa; 
altri fa remi e altri volge sarte; 
chi terzeruolo e artimon rintoppa -;                                 

In sintesi, e resistendo - con grande difficoltà - alla tentazione di dilungarci oltre, l’Alighieri ci ha lasciato un’ampia rappresentazione della vita economica, ma non solo.

Compreso ciò,  ora  dobbiamo infatti chiederci qual era il ruolo del lavoro, secondo Dante, nella vita dell’uomo?

No, la risposta non è nella nota terzina 58-60 del canto XVII del Paradiso, che si riferisce all’esilio del Poeta e non al lavoro salariato:

Tu proverai sì come sa di sale 
lo pane altrui, e come è duro calle 
lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale. 

Anche se non escludo che qualche lavoratore rileggendo i versi danteschi potrebbe facilmente riconoscercisi e obiettare.

Le terzine utili alla nostra riflessione sono invece quelle dell’undicesimo canto dell’Inferno dal verso 97 al 108.

Prima però è utile un po’ di contesto: il poeta latino Virgilio e Dante-personaggio stanno sostando sull’argine del settimo cerchio, in attesa di abituarsi al puzzo che proviene dall’ottavo: le famigerate malebolge. Mentre il Sommo Poeta e la sua guida oltremondana, e anche il lettore, riprendono fiato prima di immergersi nella parte più profonda del baratro infernale, Virgilio ne approfitta per descrivere l’organizzazione filosofico-giuridico-penitenziale dell’inferno e rispondere a una domanda del suo allievo relativa ai razionali che giustificano la punizione  dell’usura. 

Sorvoliamo in questa sede sulla struttura dell’inferno e concentriamoci sulla risposta alla domanda attinenti agli usurai:

«Filosofia», mi disse, «a chi la ’ntende, 
nota, non pure in una sola parte, 
come natura lo suo corso prende                                    

dal divino ’ntelletto e da sua arte; 
e se tu ben la tua Fisica note, 
tu troverai, non dopo molte carte,                                   

che l’arte vostra quella, quanto pote, 
segue, come ’l maestro fa ’l discente; 
sì che vostr’arte a Dio quasi è nepote.                           

Da queste due, se tu ti rechi a mente 
lo Genesì dal principio, convene 
prender sua vita e avanzar la gente;        

In estrema sintesi, e scusandomi sin da ora per l’eccessiva semplificazione, Dante-autore sostiene, facendo parlare il Poeta mantovano, che il potenziale creativo della natura che ci circonda, così come affermato anche da Aristotele, deriva dell’operosità dell’intelletto divino e l’uomo imita, per quello che può, questa operosità con il suo lavoro, plasmando e modificando la realtà, coltivando la terra, allevando gli animali e producendo alimenti e beni di varia fattura. Ad esempio, tramite la sua arte, l’uomo genera beni plasmando la materia, così come la natura genera frutti.

Con Dante siamo pertanto distantissimi da alcune astrazioni intellettuali del primo dopo-guerra relative a una sorta di diritto individuale alla libertà dal lavoro, inteso come costrizione esterna estranea all’essere umano. Per il Sommo Poeta l’uomo è tale anche in quanto Homo Faber, ossia per il tramite del suo lavoro e della sua operosità, che addirittura rappresenta, con i limiti del caso, una replica di quella divina, in una sorta di rapporto di filiazione lavoristica divino-natura-uomo.

Come il Tino Faussone di Primo Levi (“La chiave a stella”, 1978), l’uomo dantesco pertanto si realizza e raggiunge consapevolezza di se stesso e del suo ruolo sociale anche attraverso il proprio lavoro. Il buon Tino e Primo-personaggio annuirebbero soddisfatti. 

Ma in generale, cosa rappresenta per Dante il lavoro?. Per rispondere a questo quesito, non possiamo che partire da un dato lessicale, che - come ci insegnano i Dantisti - nella Comedia non è mai causale. 

L’Alighieri, infatti, per esprimere lo stesso significato che noi oggi diamo al temine lavoro non utilizza mai il suo corrispettivo latino più prossimo, ossia labor, o il suo pari in lingua volgare, che grossomodo derivavano da pena, fatica, sacrificio, ma - come per le terzine dell’undicesimo canto dell’Inferno - il Sommo Poeta preferisce la parola “arte”, intesa come “capacità di agire e di produrre, basata su un particolare complesso di regole e di esperienze conoscitive e tecniche, e quindi anche l’insieme delle regole e dei procedimenti per svolgere un’attività umana in vista di determinati risultati” (cit. Vocabolario Treccani). 

Per Dante pertanto il lavoratore è prima di tutto un artifex, un creatore. Oggi la parola artigiano ha acquisito forse un significato riduttivo, rispetto alla sua etimologia che lo riconduce all’atto creativo.

Il lavoratore artigiano è pertanto colui che genera qualcosa che prima non c’era, modulando la materia.

Per concludere, qual è il principio lavorista - mutuano il termine dal diritto costituzione e del lavoro - della Divinca Commedia di Dante Alighieri? La centralità della dignità del lavoro e nel lavoro, nella vita del singolo e delle comunità sociali.




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