-  Sella Mauro  -  17/07/2012

IL NONNO AMA SOLO PER DOVERE? (Note critiche a Cass. n. 4253/2012) - Mauro SELLA

Con la sentenza n. 4253/2012 la terza sezione della Suprema Corte ha affermato la necessità della sussistenza del requisito della convivenza ai fini della risarcibilità in favore dei prossimi congiunti diversi da coniuge, genitori e figli, del danno non patrimoniale iure proprio conseguente al decesso del parente.

Appare francamente improbabile ritenere che tale orientamento – unico per le ragioni appresso indicate – possa trovare successive conferme da parte della giurisprudenza poiché le motivazioni sulle quali è fondato sono censurabili sotto molteplici aspetti.

Si consideri infatti quanto segue.

Nella pronuncia n. 4253/2012 la Suprema Corte, prima di illustrare le ragioni di rigetto del motivo di ricorso esaminato (il secondo per l"esattezza) dichiara espressamente di ritenere di dover dare "continuità all"indirizzo più risalente", vale a dire quello poco prima richiamato al punto 2.2.1. e rappresentato dalle pronunce n. 6938/1993 e n. 10823/2007.

Orbene, già in tale premessa sono dati ravvisarsi errori e contraddizioni.

Infatti, la sentenza n. 6938/1993 mai è giunta ad affermare che la convivenza tra parenti sia un requisito indispensabile (quale conditio sine qua non) per la risarcibilità del danno non patrimoniale in caso di decesso del congiunto a seguito di fatto illecito.

Nelle motivazioni, infatti, si legge: "È sostanzialmente esatto il principio - richiamato dalla Corte d'appello - che la risarcibilità dei danni morali per la morte di un congiunto causata da atto illecito penale postula, oltre all'esistenza del rapporto di parentela, il concorso di ulteriori circostanze atte a far ritenere che la morte del familiare abbia comportato la perdita di un effettivo valido sostegno morale. Il legislatore chiaramente non può avere inteso estendere la tutela, in materia, di una cerchia (talvolta indeterminata) di persone che pur avendo perduto un affetto non hanno una posizione qualificata perché venga in considerazione la perdita di un sostegno morale concreto. Trattandosi nella specie di avi (nonni), non viene in considerazione un soggetto che ha un vero e proprio diritto ad essere assistito anche moralmente (dal nipote). Sicché, trattandosi di soggetto diverso, occorre, oltre il vincolo di stretta parentela, un presupposto (es. convivenza) che riveli la perdita appunto di un valido e concreto sostegno morale (presupposto che la Corte di merito non ha ravvisato)".

Secondo tale percorso argomentativo, dunque, la convivenza non è un elemento essenziale per la risarcibilità del danno non patrimoniale in favore dei parenti, ma esclusivamente uno dei presupposti possibili dai quali può desumersi la perdita del sostegno morale in conseguenza del decesso del congiunto (inequivocabile in tal senso è l"utilizzo dell"abbreviazione "es.", vale a dire "esempio" prima del sostantivo "convivenza").

La pronuncia n. 6938/1993, pertanto, non solo non offre alcun supporto alla tesi prospettata dalla Suprema Corte nella sentenza n. 4253/2012 ma, al contrario, afferma un principio diametralmente opposto, vale a dire che la convivenza tra parenti è solo uno dei possibili elementi di prova dai quali desumere l"esistenza di un valido legame affettivo con il soggetto defunto, senza che il medesimo costituisca condizione essenziale per la risarcibilità del danno non patrimoniale in favore dei congiunti superstiti.

Sulla stessa linea è anche la motivazione contenuta nella successiva richiamata sentenza n. 10823/2007: "Al riguardo essi affermano che il danno morale sofferto a causa della morte di un congiunto è risarcibile in presenza di un legame affettivo-giuridico, senza che le parti debbano provare di avere subito in concreto tale danno, perché in re ipsa, mentre quando trattasi di un familiare, non prossimo congiunto, ai fini della risarcibilità occorre dimostrare in concreto di avere subito la privazione di un reale, effettivo e valido sostegno morale. Quindi, secondo i ricorrenti, non vi era necessità di prova specifica trattandosi di stretto vincolo familiare. Inoltre, la liquidazione equitativa, nella misura suindicata, è frutto di arbitrio, non essendo indicati i parametri di riferimento. Il motivo è fondato. Osserva il Collegio che, in effetti, nel caso, si trattava di prossimo congiunto convivente, come risulta dalla documentazione prodotta, cosicché, proprio perché ricorreva tra la defunta e le parti ricorrenti un legame giuridico affettivo di particolare intensità, non è necessaria la prova specifica del danno morale, potendo farsi ricorso a presunzione. Va accolto dunque il motivo perché la prova del danno patito è stata correttamente desunta dalle indubbie sofferenze patite dai ricorrenti che avevano con la vittima uno stretto vincolo familiare di vita, di coabitazione e quindi di frequentazione, ma del tutto immotivata è la liquidazione equitativa adottata dalla Corte, nella irrisoria misura di complessivi Euro 8.000,00".

Il percorso argomentativo è chiaro: stante il rapporto di convivenza, non era necessario per i congiunti fornire prova ulteriore del danno lamentato, potendo lo stesso ritenersi sussistente sulla base di presunzioni.

In sintesi, pertanto, è possibile affermare che l"orientamento giurisprudenziale al quale con la sentenza n. 4253/2012 la Suprema Corte ha dichiarato di aderire non ha mai affrontato la questione della convivenza in termini di rilevanza assoluta ai fini della risarcibilità in astratto del danno-conseguenza, ma ha sempre e solo analizzato la questione sotto il diverso (e successivo in ordine logico) profilo dell"onere probatorio: ferma restando l"astratta possibilità per i parenti diversi da genitori, figli e sorelle o fratelli di formulare richiesta di risarcimento del danno patrimoniale iure proprio conseguente al decesso del congiunto, onde verificarne la risarcibilità in concreto non può farsi ricorso al solo mezzo di prova presuntivo derivante dal vincolo di parentela ma occorre che i medesimi parenti forniscano al Giudice ulteriori elementi di valutazione (tra cui, ma non solo, l"eventuale convivenza) al fine di poter dimostrare l"esistenza di un intenso legame affettivo e di un valido sostegno morale.

La sentenza n. 4253/2012, dunque, non trova alcun conforto in tali orientamenti ma semmai, vari argomenti di segno contrario.

Occorre dunque analizzare le ragioni specificatamente indicate in motivazione al fine di verificare se le novità con essa introdotte possano essere ritenute idonee a sovvertire la precedente impostazione data dalla giurisprudenza in materia.

A fondamento della propria decisione, la terza sezione della Suprema Corte individua tre ordini di ragioni: i) dalla nostra Costituzione emergerebbe una concezione di famiglia incentrata esclusivamente sui rapporti tra coniugi e tra genitori e figli; ii) gli altri congiunti non avrebbero nel nostro ordinamento doveri diretti nei confronti del familiare defunto, se non in via meramente mediata o di supplenza, con conseguente esclusione di correlati diritti risarcitori; iii) in ottica di politica del diritto, occorrerebbe dare prevalenza all"esigenza di evitare il pericolo di una dilatazione ingiustificata dei soggetti danneggiati rispetto alla necessità di dare rilievo all"esplicarsi dei diritti della personalità nelle formazioni sociali e, in tale ottica, la convivenza rappresenterebbe il solo elemento di certezza idoneo allo scopo.

Tali ragioni sono agevolmente confutabili.

i) Sulla nozione di famiglia nella nostra Costituzione.

Il modello famigliare rappresenta una realtà sociale prima ancora che di ordine giuridico. Il complesso apparato delle relazioni sociali da sempre ruota attorno alla famiglia, mutando semmai solo il significato che tale espressione può assumere a seconda dell"epoca storica e dell"evoluzione dei costumi.

Tale impostazione trova conferma proprio nell"art. 29 Cost., il quale riconosce "i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio". L"idea di una "società naturale" porta con evidenza a postulare l"esistenza di un qualcosa che precede il diritto e lo Stato, con la conseguenza che quindi la norma costituzionale affermerebbe il riconoscimento da parte di quest"ultimo dei diritti della famiglia, come a voler dire che questi preesistono all"ordinamento giuridico, perché derivano dalla "natura delle cose" e non dal diritto stesso.

Dunque, che non vi è un modello generale e immutabile o un concetto universalmente valido di famiglia, ma la struttura e funzione di quest"ultima evolvono e si trasformano attraverso le varie epoche storiche, subendo in via diretta l"influenza del tipo di organizzazione sociale volta a volta prevalente.

Appare dunque aderente all"intenzione dei padri costituenti, l"interpretazione della dottrina la quale afferma che, riconoscendo la famiglia come società naturale, "il legislatore costituzionale ha posto una norma in bianco, rinviando alla concezione di famiglia del momento storico in cui la norma dell"art. 29 è destinata ad operare": cosicché l"espressione società naturale assume un valore unicamente recettizio, valendo come riconoscimento da parte del nostro ordinamento di quello che secundum naturam s"intende per famiglia in un dato momento dell"evoluzione storica, con particolare riguardo alle peculiari strutture sociali nelle quali la famiglia si inserisce (Mancini, Eguaglianza tra i coniugi e società naturale nell"art. 29 della Costituzione, in RDC, 1963, I, 223).

La moderna visione del concetto "esteso" di famiglia, ha condotto la giurisprudenza a precisare che il riconoscimento dei "diritti della famiglia" contenuto nell"art. 29 Cost. va inteso non restrittivamente, cioè come tutela delle estrinsecazioni della persona nell"ambito esclusivo di quel nucleo, con una proiezione di carattere meramente interno, bensì nel più ampio senso di modalità di realizzazione della vita stessa dell"individuo, alla stregua dei valori e dei sentimenti che il rapporto personale ispira, sia generando bisogni e doveri, sia dando luogo a gratificazioni, supporti, affrancazioni e significati; si è in giurisprudenza di legittimità al riguardo posto in rilievo che laddove il fatto lesivo alteri profondamente tale complessivo assetto, provocando una rimarchevole dilatazione dei bisogni e dei doveri ed una determinante riduzione - se non annullamento - delle positività che dal rapporto parentale derivano viene a determinarsi quello "sconvolgimento delle abitudini di vita" che, pur potendo avere diversa ampiezza e consistenza in termini di intensità e protrazione nel tempo in relazione alle diverge situazioni, deve trovare comunque obiettivazione nell"alterazione del modo di relazionarsi del soggetto sia all"interno del nucleo familiare che all"esterno di esso nell"ambito dei comuni rapporti della vita di relazione.

Ridurre la portata della tutela concessa dall"art. 29 Cost. al solo nucleo familiare costituito dal rapporto genitori-figli appare pertanto in aperto contrasto con una corretta ed attuale interpretazione della disposizione contenuta nella Carta fondamentale.

Tale conclusione appare conforme anche alla giurisprudenza europea; in particolare, la Corte Europea dei diritti dell"uomo con sentenza del 13.7.2000 n. 39221 emessa contro lo Stato italiano ha affermato: "non è contestato che le questioni relative ai rapporti tra la seconda ricorrente e i nipoti rientrino nell'art. 8 della Convenzione. Peraltro, in proposito, ricorda che la «vita familiare» ai sensi dell'art. 8, include i legami tra prossimi congiunti che possono assumere un ruolo considerevole per esempio tra nonni e nipoti. Il «rispetto della vita familiare così intesa comporta, per lo Stato, l'obbligo di agire in modo da consentire il normale sviluppo di tali legami»".

Occorre porre in particolare evidenza come, in tale giudizio, proprio lo Stato italiano non abbia neppure contestato che il rapporto nonno-nipote rientri nel concetto di famiglia come inteso dall"art. 8 della Convenzione europea per i diritti dell"uomo.

È altresì da considerarsi che, rispetto agli altri trattati internazionali, la CEDU ha previsto la competenza di un organo giurisdizionale, la Corte europea per i diritti dell'uomo, che ha il compito di interpretare le norme della Convenzione stessa, con la conseguenza che tra gli obblighi internazionali assunti dall'Italia con la ratifica della CEDU c'è quello di "adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione".

È poi appena il caso di rimarcare come il legame nonno-nipote sia assunto dalla pronuncia n. 39221/2000 a titolo esemplificativo, poiché la "vita familiare" di cui all"art. 8 della Convenzione "include i legami tra prossimi congiunti che possono assumere un ruolo considerevole"; dunque, possono essere prese in considerazione anche altre tipologie di rapporti parentali.

Sull"efficacia delle norme CEDU e dell"interpretazione che ne deriva dalla giurisprudenza della Corte europea per i diritti dell"uomo, la Consulta ha avuto modo recentemente di affermare che "l'integrazione del parametro costituzionale rappresentato dal primo comma dell'art. 117 Cost. non deve intendersi come una sovraordinazione gerarchica delle norme CEDU - in sé e per sé e quindi a prescindere dalla loro funzione di fonti interposte - rispetto alle leggi ordinarie e, tanto meno, rispetto alla Costituzione. Con riferimento ad un diritto fondamentale, il rispetto degli obblighi internazionali non può mai essere causa di una diminuzione di tutela rispetto a quelle già predisposte dall'ordinamento interno, ma può e deve, viceversa, costituire strumento efficace di ampliamento della tutela stessa" (Corte costituzionale, 4 dicembre 2009, n. 317).

Essendo pertanto pacifico l"inquadramento del diritto alla famiglia tra quelli fondamentali ed inviolabili dell"uomo, l"interpretazione che la Corte europea per i diritti dell"uomo fornisce dell"art. 8 CEDU (che tale diritto contempla e tutela) non può essere ridotta ad opera del legislatore nazionale ma solamente ampliata.

Ne deriva che la tutela dei diritto alla famiglia – come prevista dall"art. 29 Cost. e dall"art. 8 CEDU – non può essere limitata interpretando la nozione di famiglia quale esclusiva "famiglia nucleare, incentrata su coniuge, genitori e figli" come invece ha fatto la Suprema Corte nella sentenza n. 4253/2012.

ii) Sulla tutela dei congiunti diversi dai genitori e dai figli nell"ordinamento nazionale.

Quanto esposto nel punto che precede potrebbe essere di per sé sufficiente a smontare in un solo colpo la tesi prospettata dalla terza sezione della Suprema Corte con riferimento all"asserita assenza di disposizioni nell"ordinamento nazionale idonee a fondare un rapporto diretto – e non meramente mediato o suppletivo – tra i congiunti diversi dai genitori e dai figli ed il parente deceduto.

Occorre poi considerare come non risulti corretta l"affermazione di irrilevanza dell"art. 155 c.c. ai fini in esame, in quanto esso si porrebbe sul diverso piano di favorire la continuità dei rapporti affettivi in un contesto di disgregazione e crisi della famiglia nucleare.

Già in vigenza della norma ante riforma infatti la stessa Suprema Corte aveva a tal proposito affermato che "la mancanza di un'espressa previsione di legge non è sufficiente per precludere al giudice di riconoscere e regolamentare tali rapporti ovvero per considerare una tale possibilità solo «residuale» in quanto praticabile, come sostiene la ricorrente, unicamente in presenza di gravissimi motivi, non potendosi per ciò solo ritenere privi di tutela vincoli siffatti che affondano le loro radici nella tradizione familiare la quale trova il suo riconoscimento anche nella Costituzione (articolo 29 cost.)" (Corte cassazione, sez. I, 25 settembre 1998, n. 9606).

Aldilà delle finalità per le quali la norma era stata pensata, dunque, la stessa era fondata su di un"interpretazione dell"art. 29 Cost. inteso come disposizione diretta alla tutela della famiglia quale insieme di vincoli affettivi che trovano il loro riconoscimento nella tradizione familiare (vale a dire nel senso prospettato al punto che precede).

Anche l"attuale formulazione dell"art. 155 c.c., dopo l"entrata in vigore della legge n. 54/2006, conferma l"esistenza di un diritto a "conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale" (dunque oltre la famiglia nucleare).

Nella ricerca di tutela giuridica all"interno dell"ordinamento nazionale, la pronuncia n. 4253/2012 parte in ogni caso da un presupposto errato, poiché il danno non patrimoniale da uccisione del congiunto non coincide con la lesione dell'interesse protetto. Esso consiste nella privazione di un valore non economico ma personale, costituito della irreversibile perdita del godimento del congiunto, dalla definitiva preclusione delle reciproche relazioni interpersonali, secondo le varie modalità con le quali normalmente si esprimono nell'ambito del nucleo familiare. Perdita, privazione e preclusione che costituiscono conseguenza della lesione dell'interesse protetto (Corte cassazione, sez. III, 31 maggio 2003, n. 8827).

La terza sezione della Suprema Corte ha altresì omesso di considerare che la stessa Corte di cassazione con la nota sentenza delle Sezioni unite n. 500/1999 (Corte cassazione, Sez. Un., 22 luglio 1999, n. 500) ha stabilito che il "danno ingiusto" previsto dall"articolo 2043 c.c., è non soltanto la lesione di un diritto perfetto, ma anche la lesione di qualsiasi situazione di interesse "presa in considerazione dalla legge".

In tale ottica, proprio l"esistenza di un complesso normativo quale quello analizzato dalla pronuncia n. 4253/2012 consente di affermare la presenza di un interesse legittimo da parte dei prossimi congiunti (anche diversi dai genitori e dai figli) ad ottenere il risarcimento del danno conseguente al decesso del parente con il quale intratteneva uno stretto legame affettivo.

Che questa sia l"impostazione da preferire, del resto, lo si ricava anche dai precedenti giurisprudenziali che si sono occupati del risarcimento dei danni non patrimoniali in favore del coniuge separato.

Si consideri, infatti, che a seguito della separazione personale vengono meno per i coniugi il dovere di coabitazione (con buona pace del requisito della convivenza!), di fedeltà (Cass. 6566/97; 13201/95; 10742/98; 7566/99) di assistenza morale e di collaborazione, salvo che essi riguardino i figli.

Ciò non di meno, la Suprema Corte ha affermato che "lo stato di separazione personale non è incompatibile, di per sé solo, col risarcimento del danno morale a favore di un coniuge per la morte dell"altro coniuge, dovendo aversi riguardo in particolare, alle ragioni che l"hanno determinato e a ogni altra utile circostanza idonea a manifestare se e in qual misura l"evento luttuoso, dovuto all"altrui fatto illecito, abbia provocato, nel coniuge superstite, quel dolore e quelle sofferenze morali che solitamente si accompagnano alla morte di una persona più o meno cara" (Corte cassazione, 17 luglio 2002, n. 10393).

E dunque: pur in assenza di espressi doveri di assistenza morale posti in capo ai congiunti, la giurisprudenza riconosce in capo a questi un diritto o quantomeno "una situazione di interesse presa in considerazione dalla legge" che li legittima ad invocare il risarcimento del danno non patrimoniale conseguente al decesso del congiunto.

iii) Sul giudizio di bilanciamento tra le diverse esigenze.

La terza e ultima ragione addotta dalla sentenza n. 4253/2012 a fondamento della propria decisione parte con una premessa invero in maniera alquanto confusa.

Viene contrapposta all"esigenza di evitare il pericolo di una dilatazione ingiustificata dei soggetti danneggiati secondari quella "costituzionalmente imposta dall"art. 2 Cost., di dare rilievo all"esplicarsi dei diritti della personalità nelle formazioni sociale e, quindi, nella famiglia dei conviventi, come proiezione sociale e dinamica della personalità dell"individuo".

Ora, delle due l"una: o la Suprema Corte ha inteso fare riferimento all"art. 2 Cost. come norma che tutela la formazione sociale familiare oltre la convivenza (aldilà dell"espressione utilizzata), il ché è effettivamente l"oggetto dell"analisi successiva (ma allora i due ragionamenti che precedono cadrebbero miseramente, avendo la stessa Suprema Corte individuato nell"art. 2 Cost. la norma che tutela nel nostro ordinamento i parenti non conviventi); oppure ha inteso distinguere tra tutela della famiglia considerata limitatamente al rapporto tra coniugi ed a quello tra genitori e figli (di cui all"art. 29 Cost.) da un lato, e tutela degli altri familiari conviventi (di cui all"art. 2 Cost.) dall"altro (ma allora non si comprende la necessità di addivenire ad un giudizio di bilanciamento tra interessi contrapposti, poiché tale interpretazione già di per sé sola escluderebbe i familiari non conviventi dalla tutela costituzionale).

In ogni caso, il giudizio di bilanciamento operato non soddisfa in alcun modo il criterio di ragionevolezza.

In primo luogo, occorre considerare che la norma di cui all"art. 2 Cost. individua, com"è noto, un generale riconoscimento dei diritti inviolabili della persona; tale norma è, secondo la stessa pronuncia in esame, quella sulla quale si fonda l"interesse oggetto di bilanciamento, vale a dire il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale in caso di decesso del congiunto.

Orbene, il medesimo percorso logico è omesso con riferimento al contrapposto interesse ad evitare l"eccessiva dilatazione dei soggetti danneggiati: in questo caso, infatti, la motivazione non individua la norma costituzionale (e dunque il relativo diritto) sulla quale il predetto interesse si dovrebbe fondare.

L"omissione assume rilevanza dirimente, poiché l"assenza di un interesse di pari rango rispetto a quello tutelato dall"art. 2 Cost. esclude a priori la possibilità di operare un qualsivoglia giudizio di bilanciamento.

Inoltre, la prima condizione per la verifica di ragionevolezza del bilanciamento, vale a dire quella della necessità, impone l"onere di fornire la dimostrazione che l"interesse recessivo è stato postergato per l"esigenza di dare attuazione ad un altro interesse di pari rango.

Tuttavia, anche a voler considerare che l"esigenza di evitare il pericolo di una dilatazione ingiustificata di soggetti danneggiati secondari sia correlata ad una norma di pari rango rispetto a quella di cui all"art. 2 Cost., neppure risulterebbe soddisfatta la seconda condizione di verifica della ragionevolezza, rappresentata dalla sufficienza: in base ad essa, infatti, occorrerebbe che nella soluzione transattiva sottesa alla norma la compressione di un interesse costituzionale in conflitto sia stata circoscritta a quanto è sufficiente a realizzare in concreto l"interesse posto in posizione privilegiata, valutando l"interazione reciproca tra l"accrescimento di tutela dell"uno e la corrispondente diminuzione di garanzia dell"altro.

Nel caso di specie, tuttavia, la compressione dell"interesse tutelato dall"art. 2 Cost. che giunga all"esclusione aprioristica del diritto al risarcimento del danno in favore dei congiunti non conviventi non può trovare una giustificazione – secondo i limiti imposti dalla seconda condizione di verifica – nell"esigenza di evitare il pericolo di un"eccessiva dilatazione dei soggetti danneggiati, poiché la soddisfazione di tale esigenza è già stata raggiunta (con effetti indubbiamente minori di limitazione del medesimo interesse compresso) attraverso l"attribuzione di un maggiore onere probatorio a carico dei congiunti non conviventi (secondo quanto affermato dalla stessa giurisprudenza alla quale la terza sezione della Suprema Corte ha dichiarato di aderire).

In altre parole, al fine di soddisfare l"esigenza contrapposta a quella correlata all"interesse tutelato dall"art. 2 Cost., non è necessario giungere alla drastica conclusione di escludere genericamente dal diritto al risarcimento del danno non patrimoniale ogni congiunto non convivente, essendo a tal fine sufficiente porre a carico di questi un maggiore onere probatorio che consenta di ritenere effettivamente esistente, in concreto, un legame affettivo di particolare rilevanza.

Né può valere, a giustificare la necessità di adottare una scelta finale tanto drastica all"esito del giudizio di bilanciamento il rilievo per il quale l"assunzione della prova caso per caso conserverebbe eccessivi margini di imprevedibilità alla luce dei possibili situazioni di compiacenza.

Aldilà dell"osservazione che tale argomentazione assume il carattere di un vero e proprio processo alle intenzioni (secondo il quale la maggior parte delle persone chiamate a deporre si presenterebbe innanzi al Giudice per rendere dichiarazioni di comodo a favore dei richiedenti), occorre considerare come, da un lato, il rischio di deposizioni "accomodate" non appare certamente maggiore in questa materia rispetto ad altre e come, dall"altro lato, l"ordinamento nazionale conferisce al Giudice validi strumenti al fine di valutare attentamente l"attendibilità del testimone e la credibilità delle dichiarazioni rese in sede di esame. Non sempre, inoltre, è necessario il ricorso alla prova testimoniale per poter dimostrare l'esistenza di un particolare legame affettivo tra congiunti.

Infine, neppure può ritenersi soddisfatta la terza condizione, vale a dire quella della proporzionalità: la compressione dell"interesse costituzionale postergato deve sempre essere proporzionata, fino al punto di salvaguardare il contenute essenziale.

Nel caso in esame, non esiste equivalenza tra la totale soppressione del diritto inviolabile di cui all"art. 2 Cost. ai danni dei congiunti non conviventi ed il pieno ed incondizionato mantenimento di quello (ma quale?) connesso all"interesse ad evitare la proliferazione eccessiva di soggetti danneggiati.

Anche sotto questo profilo, appare indubbiamente corretto invece l"orientamento in base al quale la compressione è stata operata verso entrambi i diritti e senza giungere al totale annullamento di uno di essi: parzialmente compresso quello di cui all"art. 2 Cost. attraverso l"individuazione di un diverso regime probatorio, altrettanto parzialmente compresso quello sotteso all"interesse contrapposto attraverso la sua limitazione in caso di soddisfacimento dell"onore probatorio posto a carico dei congiunti non conviventi.

Al termine di questa analisi, è d"uopo infine sottolineare come la pronuncia esaminata non consideri minimamente gli elementi a contrario rispetto alla tesi prospettata, neppure ai fini della loro eventuale confutazione.

(ms)




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