Deboli, svantaggiati  -  Gemma Brandi  -  05/10/2022

La cura come sport di squadra

Il ricco e creativo lavoro della Salute Mentale, in fondo artistico e d’intelletto, ma anche artigianale e pratico, un lavoro che non pone limiti alla declinazione della risposta, ha subito una battuta di arresto. Eppure, quando ci si trova a ragionare insieme di una situazione umana difficile, sarebbe il caso di sentirsi come l’equipaggio di un antico vascello capace di solcare i mari con le sue vele. Si diventa la ciurma dell’Amerigo Vespucci, il collegio di architetti che deve decidere cosa fare del Beaubourg, in definitiva esseri che pensano all’unisono e maturano convinzioni che produrranno l’azione giusta, eroi al contempo della propria vita e di quella di chi soffre, gente che lavora con la materia più preziosa e trasforma in oro il piombo. Per diventare una squadra non da ‘zero tituli’, va capovolto l’odierno squalificante punto di vista sulla Salute Mentale e occorre andare dritti al cuore della endiadi pericolosità e responsabilità. La sua negazione/sottovalutazione ha messo sotto scacco il valore della cura nel settore della psicopatologia severa che si esprime anche attraverso agiti gratuiti e aggressivi, una delle emergenze tanto dilaganti quanto trascurate nel mondo western.

Il problema è il confronto con la complessità/difficoltà che il soggetto incline a trasgredire impone alla Salute Mentale. L’esperienza insegna come porti fuori bersaglio rispondere alla complessità sia con una presuntuosa semplificazione, sia con una stolta complicazione. La regola per fronteggiare efficacemente la complessità ha un solo benedetto nome: composizione. È componendo una risposta articolata che tenga conto di saperi diversi, ma confluenti -quali sono le professioni di aiuto che ad oggi formano la costellazione della Salute Mentale- avendo una mentalità interdisciplinare, che si trova la chiave anche per la meno facile delle sfide cui il malessere chiama. La interdisciplinarità è un bene che non ha un carattere statico, ma dinamico e che negli ultimi anni si è ampliata a una collaborazione con il mondo penitenziario, giudiziario, della sicurezza. E necessita, ad esempio, di una apertura -non di una delega- antropologica e culturologica, visto l’aumento dei forestieri da trattare. Così come si avvantaggerebbe di una diversa collaborazione con la medicina avanzata che cura il terreno biologico degli organismi umani, per attenuare gli effetti metabolici degli psicofarmaci e offrire nuove opportunità sul fronte immunologico anche ai malati di mente, oltre che alle persone affette da cancro e forme autoimmuni. Molto si potrebbe fare fin da oggi per la evoluzione interdisciplinare mirata del sistema.

Tornando alla endiadi pericolosità e responsabilità, se resta valido il fatto che a rendere plausibile l’intervento della Salute Mentale è in primo luogo la necessità di questo per arginare una sofferenza -la differenza è nella sofferenza- è il bisogno di fronteggiare il pericolo dell’incontro con il trasgressore che ha finito per innescare il doppio salto mortale all’indietro in grado di convertire, il completamento ideale della nostra endiadi e cioè l’affermarsi di una pericolosità responsabile, nella sua degenerazione, vale a dire l’imporsi di una responsabilità pericolosa, con il crollo della capacità di assumere una autentica responsabilità e di prevenire condotte dannose sé e agli altri, tenute in ragione di una sofferenza psichica profonda e difficile da curare. Questo doppio salto mortale non lo si sarebbe tentato, se ci si fosse limitati a una risposta semplificata a un problema complesso (per intendersi il manicomio come soluzione per la malattia mentale severa, e l’OPG per la psicopatologia che comporti condotte inappropriate). È diventato invece quasi inevitabile a causa del tentativo di fornire una risposta composita alla complessità, che è poi la scoperta innovativa messa in campo dalla Legge 180 nel 1978 e che una Salute Mentale adulta e autorevole avrebbe potuto/dovuto mettere a disposizione dei rei folli cui quella stessa norma, decenni prima, precluse strategicamente una cura non più basata su soli farmaci e chiavistelli. 

Cosa ha impedito l’auspicata evoluzione di competenze acquisite e consolidate? Due fattori confluenti e anchilosanti. Da una parte l’irrigidimento biologistico delle teorie intorno alla malattia mentale, sempre meno intesa nel suo divenire dinamico e sempre più ancorata a una rete di incertezze passate per certezze scientifiche. Sappiamo bene, al contrario, come l’attenzione neurotrasmettitoriale stia cedendo il passo, nella ricerca avanzata, al peso della infiammazione che una scienza in erba aveva considerato non in gioco nell’encefalo, presunto protetto dalla barriera emato-enecefalica. La scoperta di una disposizione alla flogosi del cervello potrebbe ribaltare in futuro il trattamento biologico delle malattie mentali. Ad oggi, è prevalsa una fede psicofarmacologica talebana, che non ha riscontri nei fatti e che soprattutto confligge con la presa in cura di situazioni complesse. Il secondo fattore anchilosante è stato il tirannico sviluppo di una politochiatria sempre più padrona della Salute Mentale, con l’inondazione ideologica dell’arte della cura e un reclutamento del personale basato in maniera preponderante sulle appartenenze rispetto a competenze e buone prassi. E poiché chi va con lo zoppo zoppicar fa le viste, gli psichiatri hanno appreso, da una politica in media scadente, che si poteva essere di banda e giustificare tutto, anche l’abbandono del malato al suo tragico destino, anche la stolta teorizzazione della imprevedibilità/imprevenibilità di ogni agito. Una vera tragedia in termini di dissipazione di un sapere onesto, faticosamente costruito da operatori persuasi della necessità di muoversi in maniera interdisciplinare e organizzata per affrontare i problemi della sofferenza psichica. L’organizzazione, data in mano a chi ha scelto di esser di banda, si è sfilacciata e il suicidio della Salute Mentale si è stagliato sinistro all’orizzonte. Non più propensa a valorizzare la interdisciplinarità delle cause e delle risposte in psicopatologia, in quanto preda di un furore biologistico; nella impossibilità di dare una organizzazione competente al settore, la Salute Mentale, che si era messa da sola nell’angolo, è stata da più parti riguardata come qualcosa di inutile, risultandone giocoforza impoverita. 

Nello scrivere di questo, è impossibile dimenticare la promessa, fatta giorni addietro al familiare disperato di un sofferente psichico, di rispondere al suo quesito circa le ragioni per quali si è a tal punto liso il tessuto della Salute Mentale. Ecco la risposta: una convergenza diabolica tra l’imporsi di una visione semplificata di un problema complesso e la contaminazione corruttiva del sistema da parte della politica, che ha contribuito ovviamente a fornire coperture di comodo, diventate coperture vicendevoli: ti tolgo risorse e tu taci; scegli l’accidia istituzionale e io taccio. Niente che non sia noto a chi lavora nel settore per averlo sperimentato sulla propria pelle. 

Negli ultimi mesi sorprende quanto stia accadendo nello sport italiano. Eccezion fatta per il calcio, vittima di giochi di potere economici condizionanti e anonimi, il Belpaese ha dato prova di una forza inimmaginabile fino a questo 2022. E lo ha fatto nei campi più disparati, raggiungendo traguardi individuali e di squadra pure in un sistema sportivo che non sostiene gli atleti, non offre loro spazi e attrezzature idonee, pure, potremmo ben dire, in un disinteresse della politica. Forse proprio per questo le cose vanno bene. È come se i giovani, stanchi di una dequalificazione progressiva in tutti i settori, a partire da quello scolastico, avessero deciso di sfidare sé stessi e di esprimersi al meglio laddove non hanno da attendersi aiuti, ma alla fin fine neppure ostacoli. Si tratta di qualcosa che non è enunciato, ma risponde a un sotterraneo comune sentire. C’è di più: anche quando non si tratta di uno sport di squadra, che deve rispettare il principio della interdisciplinarità e della organizzazione di ruoli e posizioni, è il collettivo italiano che fa squadra e all’interno di tale spirito agonistico rispettoso delle competenze di ciascuno, le guglie si esprimono al meglio, non si sentono osteggiate, né di ostacolo. 

Il titolo introduce il valore dello spirito di squadra nella cura. Intanto sgombriamo il campo da facili interpretazioni di comodo: credere nel lavoro di squadra, non significa essere squadristi, ma generosi e maturi, significa concentrarsi sull’obiettivo comune e creare una complicità nel bene, costruttiva e finalizzata allo scopo, una articolazione efficace di interdisciplinarità e organizzazione. E poiché il coach è chiamato a disegnare il prospetto organizzativo, reclutare dei buoni coach è indispensabile nello sport come in Salute Mentale, per ottenere l’esatto contrario di quell’essere di banda all’interno di una complicità nel male, che sta portando al suicidio della Salute Mentale. Teniamo ben presente il detto: se di un vizio vuoi guarire, prega Iddio di non l’avere. La Salute Mentale sulla via della accidia istituzionale si è già inoltrata e quindi occorre adoperarsi attivamente per rimuovere questa dipendenza acquisita, seguendo buoni esempi trascinanti. 

Dopo esserci occupati di squadra, vediamo cosa sia possibile ricavare da una analisi del termine cura. È noto come la cura occupi una posizione decisamente più elevata della terapia e meno illusoria della vanesio-imbecille volontà di guarire l’altro: a nessuno deve essere chiesto di guarire da sé stesso. Non essendo possibile accontentarsi della prescrizione di una terapia, l’interesse occorre che vada alla cura della persona portatrice di una sofferenza anche severa. Per farlo occorre prendersi per mano, come è d’uso tra i componenti di una squadra, farsi coraggio quando qualcosa non va e compiacersi quando qualcosa va nella direzione auspicata. È indispensabile riguardare il lavoro, l’obiettivo, i compagni di cordata e colui che da detto lavoro potrebbe trarre vantaggio, con una sottile vena di orgoglio e rispetto. Senza un simile giro di boa che porta dal considerare il nostro lavoro una iattura pericolosa, al vederlo come una pratica portentosa, e i soggetti che intendiamo curare non più dei perdenti senza speranza, ma delle persone che potrebbero riservare a sé stessi e a noi sorprese consolatorie, che potrebbero addirittura aiutare noi a prenderci cura di noi stessi, senza un simile giro di boa tra poco tempo non ci sarà più l’esercizio della Salute Mentale. Pur risultando temerario l’annuncio di cosa potrà prenderne il posto, la sua fine sembra inevitabile. 

La cura consiste fondamentalmente nella capacità di chi cura di fornire dei percorsi alla persona sofferente per uscire dalla sua sofferenza, senza pretendere, lo ribadiamo, che scompaia una diagnosi, che il soggetto guarisca. La costruzione di percorsi, inevitabilmente personalizzati, richiede una conoscenza di tutti gli strumenti che li rendono possibili e individualizzabili. Gli strumenti sono quelli indicati da George Dumézil: sovranità e sacro -la parola-, le virtù delle piante -pozioni e unguenti-, la forza e la violenza -vale a dire gli strumenti della coazione benigna.  

Purtroppo la Salute Mentale sembra avere smarrito il proprio percorso e non sa più essere di aiuto, a chi soffre, nella ricerca di un suo percorso di fuoriuscita dalla sofferenza, più che dalla malattia. I quattro cantoni tra i quali rimbalza oggi la suicida Salute Mentale, lasciando il dolore giacere al centro tra impotenza e rabbia, sono: abbandono, accidia, indifferenza e deresponsabilizzazione. 

Al contrario, serve la ricerca alacre di tutti gli strumenti per costruire con il soggetto sofferente un percorso di uscita dalla sofferenza, a cominciare dalla costruzione di una rete riabilitativa della coazione benigna. Qualche giorno fa una voce si è levata in Veneto, oltre un anno fa voci sono state udite in Lombardia: storie che parlano di ipocrisia e profonda ignoranza dei propri mezzi e del proprio ruolo, e che provano quanto in basso si possa cadere nel lavoro di Salute Mentale allorché ci si ingegna colpevolmente a costruire percorsi contrari alla cura, percorsi che si oppongono alla fuoriuscita dalla sofferenza del malcapitato paziente.

Ebbene, in Veneto scopriamo che un Servizio di Salute Mentale teorizzerebbe la necessità di non avanzare direttamente ricorso di Amministrazione di sostegno per un cittadino affetto da una grave psicosi che si trascina per le vie della città in cui è nato dilapidando i suoi beni e provocando l’ira di molti, pronti a sollevare barricate per isolarlo. Quegli operatori sono dell’avviso che il soggetto vada protetto, ma non intendono essere loro a richiederlo al Giudice Tutelare, in nome del mantenimento di una buona relazione terapeutica. Preferiscono che a farlo sia la famiglia. Nel dire questo mostrano di misconoscere il dovere di segnalazione di una persona che si pensi incapace di agire, anche parzialmente, al Tribunale da parte dei Servizi Sociali e Sanitari (Legge 6/2004), e si sa come l’ignoranza della legge non tuteli nessuno dalle conseguenze di una sua infrazione. Al di là di questo aspetto screditante, colpisce la sventurata fine della relazione terapeutica che in maniera ipocrita si pretende difesa da un inganno ai danni del malato. Niente di più distante da un legame che si definisca terapeutico. La sincerità è la prima base di questo, una sincerità fraterna e competente. Potremmo scommettere che gli stessi che teorizzano simili castronerie siano anche quelli che suggeriscono ai familiari di somministrare surrettiziamente terapie psicofarmacologiche ai loro cari sofferenti che le rifiutano. Uno degli errori da penna blu dello psichiatra che persegua simili pratiche medioevali. Il portatore di sofferenza psichica deve sapere cosa, chi lo cura, pensi della diagnosi, della prognosi e della terapia che lo riguarda. Lo ravvisa anche la norma quando parla di consenso informato, ma Lorsignori dell’Ignoranza non ne tengono conto. Soprattutto lo Stato consente agli psichiatri, unici tra i medici a poterlo fare -ad eccezione di quanto disposto per malattie infettive e diffusive e in caso di esami obbligatori per il libretto di lavoro-, ebbene consente loro di imporre trattamenti quando necessari e rifiutati dall’interessato. Se però, i teorici della conservazione di un rapporto terapeutico ingannevole, continuano a nascondersi dietro una presunzione di buona volontà e un politically correct in campo medico, sarà arduo che ricorrano agli strumenti che le norme individuano per costruire salutari percorsi terapeutici, ancorché imposti. Non procederanno a Trattamenti Sanitari Obbligatori, ma somministreranno surrettiziamente dei farmaci; non chiederanno l’Amministrazione di sostegno per un soggetto che necessita di tutela, abbandonandolo al suo destino e incrementando l’odio diffuso nei confronti del disagio mentale e di quel malato di mente in specie. Mentre sostengono con supponenza ideologica di operare contro lo stigma, si rivelano i primi a fomentarlo.

L’altra voce amara riguarda una persona psichicamente sofferente, per anni liquidata, in quel della Lombardia, come una tossicodipendente, mentre aveva al massimo messo in atto occasionali condotte di abuso sintomatiche, invano portata anche in ospedale e infine resasi colpevole di un tentato omicidio. Lasciata sola a languire in carcere per mesi, fu in seguito a una perizia che ne venne scoperta una sofferenza mentale profonda al punto da determinarne un Trattamento Sanitario Obbligatorio in luogo esterno di cura, una sofferenza già largamente documentata dalla anamnesi. Dichiarata dal perito incapace di intendere e di volere al momento del reato, non punibile quindi, ma neppure pericolosa socialmente, purché seguita da un Servizio in un percorso comunitario, dovrà fare i conti con il solito Servizio che opta per negare questa soluzione, dichiarando apertamente la mancanza di risposte e lasciandola finire in una REMS, senza attivarsi in alcun modo alla ricerca di alternative per l’intera durata della misura di sicurezza. Una complicità nel male tra i molti operatori intervenuti, in nessun modo vantaggiosa per la persona coinvolta. Sarebbe stato auspicabile, infatti, che fosse presa in cura dal Servizio di Salute Mentale competente per territorio all’interno di un percorso riabilitativo ritenuto possibile da perito e giudice. Forse l’epilogo peggiore rimarrebbe quello di un suo ritorno a casa senza nessun provvedimento territoriale. Un pericoloso ritorno a quello che accadeva prima del reato e che potrebbe gettare le basi per altri tragici e prevedibili sviluppi criminali che nessuno si diede e si darà la pena di prevenire. 

Dopo questi richiami a comportamenti istituzionali esemplarmente negativi, vale la pena ricordare che il medico ha il compito di aiutare il malato a trovare il suo percorso di cura e nel farlo di non danneggiarlo, mentre resta ferma la convinzione che pratiche rinnovate e oneste facciano squillare in fragorosa dissonanza i tromboni di una psichiatria potente quanto dissoluta, mostrandola nella sua miserabile presunzione e contribuendo a metterla in salvo da un fine che sa di spreco.




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